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Metodologia di Restauro delle Pitture Murali
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E-book694 pagine15 ore

Metodologia di Restauro delle Pitture Murali

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Info su questo ebook

A quasi 30 anni dalla prima edizione "Metodologie di restauro delle pitture murali" rimane ancora oggi uno strumento indispensabile per lo studio sul restauro degli affreschi. Sviluppato sulla base delle esperienze professionali acquisite dall'autore in più di 60 anni di attività sul campo, il volume, adesso rivisto ed aggiornato, è un vero e proprio manuale che affronta il tema del restauro nei suoi aspetti pratici, teorici ed etici, con un approccio diretto ed esaustivo.
 
LinguaItaliano
Data di uscita3 gen 2020
ISBN9788835353508
Metodologia di Restauro delle Pitture Murali

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    Anteprima del libro

    Metodologia di Restauro delle Pitture Murali - Guido Botticelli

    Verrucchi.

    Premessa

    L’aggiornamento del testo Metodologie di Restauro è stato predisposto in e-book per renderlo maggiormente fruibile e, dato che contiene molte foto a colori, per renderlo contenuto nel prezzo. Per chiunque lo desideri è comunque disponibile anche il formato cartaceo.

    Nell’e-book sono stati inseriti diversi link, identificati in blu, per il collegamento diretto a testi, articoli, lezioni, ed approfondimenti pubblicati in rete. Di questi link posso naturalmente assicurare l’accesso indefinito solo per quelli che fanno riferimento al mio sito internet www.guidobotticelli.it.

    Ulteriori approfondimenti sulle tematiche trattate nel presente volume si trovano nel libro Lezioni di restauro di Guido e Silvia Botticelli, edito da Centro DI nel 2008.

    Biografia dell’autore

    Guido Botticelli

    Nato a Monte Giberto, in provincia di Ascoli Piceno, il 15/08/1939, si è diplomato Maestro d'Arte presso l'Istituto d'Arte per la Porcellana di Sesto Fiorentino (FI). Nel 1959 ha iniziato l'attvità di restauro di dipinti murali sotto la guida del Prof. Dino Dini. Nel 1976 è diventato restauratore di dipinti murali per il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali presso l'Opificio delle Pietre Dure e Laboratori di Restauro di Firenze, dove ha anche insegnato per 10 anni nel settore affreschi della scuola di restauro dell'Istituto. Come responsabile del settore affreschi dell'O.P.D. ha svolto numerose consulenze tecniche in Italia e all’estero e ha restaurato affreschi e stucchi di Giotto, Taddeo Gaddi, Giovanni da Milano, Andrea Bonaiuto, Domenico Ghirlandaio, Andrea del Sarto, Pordenone, Donatello ed altri. Ha eseguito stacchi e strappi di affreschi di grandi dimensioni, tra i quali l’Inferno di Nardo di Cione in Santa Maria Novella e L'Albero della Vita di Taddeo Gaddi nell'ex refettorio di Santa Croce, sempre a Firenze.

    Dal 1989, come libero professionista ha effettuato attività di consulenza e coordinamento tecnico su lavori di restauro di pitture murali in varie parti d'Italia, continuando l'attività di docenza in Università e Scuole di restauro. Tra i tanti lavori di questi anni si ricordano i restauri sulle pitture di Giulio Romano nel Palazzo Ducale di Mantova, di Boccaccio Boccaccino, Girolamo Romanino, Altobello Meloni e de Il Pordenone nella Cattedrale di Cremona, di Antonio del Pollaiolo, Andrea del Castagno e Giorgio Vasari a Firenze. Nel 1992 ha restaurato La Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi e, successivamente, il San Ludovico dello stesso autore nel Museo Civico di Sansepolcro (AR). Tra i lavori più recenti si ricorda la sua attività come Direttore Tecnico del Comune di Firenze per il restauro degli affreschi di Giorgio Vasari nella Sala degli Elementi in Palazzo Vecchio, conclusosi nel 2019.

    Per l’ICCROM e altre organizzazioni internazionali ha lavorato come restauratore e docente in India, Thailandia, Perù, Colombia, Texas, Turchia, Albania, ecc. Nel 1996 ha eseguito lo stacco di 60mq di pitture murali in un monastero buddista posto presso Baja in Tibet, ricollocato in loco dopo il restauro nel 1998.

    Ancora oggi svolge attività di consulenza per enti pubblici, privati e docenze in corsi universitari.

    Introduzione

    Metodologia di restauro delle pitture murali fu pubblicato per la prima volta nel 1992 presso l’editore Centro Di di Firenze e da allora è stato oggetto di numerose ristampe: concepito come un manuale, intendeva trasmettere una conoscenza di metodo a tutti coloro che si avviano alla professione di restauratore.

    All’epoca non esisteva ancora un testo del genere, ossia specifico sulle pitture murali, se si esclude il fondamentale volume di Paolo e Laura Mora e Paul Philippot che, edito nel 1977, non era tuttavia aggiornato sulle nuove metodologie sviluppate nell’ambito del restauro fiorentino. I miei studenti necessitavano di un manuale dove approfondire gli appunti presi a lezione e le esperienze fatte sul cantiere. Io stesso, come docente, sentivo la necessità di ‘fissare’, non più solo nella memoria, un bagaglio di conoscenze ed esperienze accumulate prima a fianco del mio maestro Dino Dini e poi durante la lunga collaborazione con i colleghi dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze.

    Alla stesura del libro parteciparono, come sempre, le mie figlie: prima di tutto Sandra, all’epoca neolaureata in chimica, poiché è stata letteralmente la mia mano, traslando in parole scritte, in maniera critica e corretta, i miei pensieri e i miei concetti; Silvia, ancora studente di storia dell’arte, tentava di ‘raddrizzare’ i discorsi un po’ troppo contorti. Un vero e proprio team working.

    Così è nato il mio manuale, un testo che, riletto a quasi trenta anni di distanza, rivela forse anche la nostra inesperienza, all’epoca, di fronte ad un progetto tanto ambizioso. Ma, nonostante i periodi densi e i concetti a volte non troppo scorrevoli, il libro ha avuto molto successo. Forse perché si capisce che chi scrive ha passato una vita intera sui ponteggi dei cantieri di restauro ed è disposto a condividere le proprie conoscenze fino in fondo, in maniera appassionata, spesso critica, ma pur sempre sincera.

    Per questo motivo, nell’attuale edizione riveduta e aggiornata ho deciso di non modificare sostanzialmente il testo e l’impostazione del manuale, limitandomi a ‘sciogliere’ certi concetti non troppo chiari e ad approfondire tematiche e metodologie che si sono sviluppate nel campo del restauro negli ultimi venti anni. Pur non potendo essere esaustivo, il libro intende offrire una conoscenza il più completa possibile delle metodologie di restauro delle pitture murali e spunti di riflessione da approfondire in maniera autonoma attraverso i testi specifici indicati in bibliografia. Essendo un manuale ad uso e consumo degli addetti ai lavori e non un saggio, le note sono state ridotte ai minimi termini per non appesantirne ulteriormente la lettura, ma dove necessario sono stati indicati i riferimenti per i dovuti approfondimenti.

    Come nella prima edizione, ribadisco che il testo, pur descrivendo le principali metodologie di intervento, non fornisce soluzioni definitive o ‘ricette’ da usare a seconda dei casi, ma piuttosto spunti di riflessione e di analisi critica da trasferire nel proprio lavoro, per imparare a intervenire con coscienza e cognizione di causa. Il restauratore ha una importante responsabilità nei confronti dell’opera d’arte: se lavora in maniera acritica e impersonale, applicando delle semplici ricette, fa un’attività meccanica, senza cuore e senza testa, che non ha niente a che fare con il restauro. Il mio libro, quindi, è nato proprio con la speranza di riuscire a trasmettere tutti i dubbi, le riflessioni e le perplessità, che personalmente ho incontrato e incontro ogni volta che mi pongo davanti ad un’opera d’arte.

    Come nell’introduzione alla prima edizione voglio riportare anche qui, così come la ricordo, una frase del mio Maestro, il restauratore Dino Dini, che è divenuta per me una sorta di guida con la quale affrontare il mio lavoro: "Caro Botticelli, la nostra professione, è il lavoro più bello che ci sia. Essa ti consente di toccar con mano le opere dei maestri e degli artisti del passato e di prendere parte alla loro grande ‘avventura’. Restaurare vuol dire vivere questo momento con la partecipazione totale di sé stessi, per capire i problemi inerenti l’opera d’arte e, di conseguenza, il modo di risolverli. Il nostro lavoro è una strada, come la vita: non farti trascinare dalla grande massa che vuole arrivare a tutti i costi e il prima possibile alla sua meta; abbi la pazienza di metterti da una parte ad osservare e riflettere, mentre gli altri passano quasi impazziti davanti a te a grande velocità. Al contrario arriverai alla fine della strada senza aver capito il perché e il come delle cose".

    Vorrei ringraziare di nuovo tutti coloro che, con le loro critiche e i loro suggerimenti, contribuirono all’epoca alla realizzazione del libro. Molti, purtroppo, non sono più con noi: ricordo con affetto il Professor Enzo Ferroni, uno dei primi scienziati ad applicare l’approccio scientifico alla conservazione del patrimonio culturale; la dott.ssa Anna Maria Maetzke, già Soprintendente per i Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici di Arezzo; la restauratrice Donatella Sari e l’amico e compagno di studi prof. Marcello Ceccherini.

    Ringrazio ancora il prof. Antonio Paolucci, autore, nella prima edizione, della bellissima presentazione, i dottori Aldo Cicinelli, Giorgio Bonsanti, Ornella Casazza; i colleghi Carlo Giantomassi, Paul Schwarzbaum e Alberto Felici; il Laboratorio di analisi scientifiche E.Di.Tech e la ditta S.A.R. di Firenze, il fotografo Antonio Quattrone, il Dott. Carlo Verrucchi. La nuova edizione ha avuto inoltre il supporto dei colleghi Fabrizio Bandini, Stefania Franceschini e del dott. Alessandro Zanini, che ringrazio per aver messo a disposizione le loro competenze.

    Un grazie particolare a tutti i miei studenti, vecchi e nuovi, che con la loro curiosità e appassionata partecipazione mi hanno sempre stimolato all’approfondimento dei problemi e alla ricerca, ed incoraggiato ad una migliore conoscenza del mio lavoro.

    Guido Botticelli

    Cap. 1. BREVE STORIA DELLA PITTURA MURALE

    Dal punto di vista dei procedimenti esecutivi, una storia della pittura murale deve essere ricostruita, oltre che attraverso lo studio delle fonti antiche, soprattutto tramite l'osservazione e l’analisi delle opere d'arte. Se, infatti, testi come il Libro dell'Arte di Cennino Cennini¹, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori di Giorgio Vasari², o la Breve instruzione per dipingere a fresco, posta a conclusione del De prospectiva pictorum et architectorum di Padre Pozzo³, sono fonti di eccezionale importanza per la conoscenza dell'evoluzione della tecnica pittorica a partire dal tardo Medioevo, purtroppo non possediamo altrettanto per quanto riguarda civiltà ben più antiche, per le quali siamo costretti ad affidarci quasi esclusivamente all'analisi diretta del manufatto artistico. Soltanto per l'arte romana ci sono giunte informazioni preziose grazie a Plinio (Naturalis Historia) e, soprattutto, a Vitruvio (De Architectura) che, in un lungo passo del suo trattato sulla decorazione parietale (VII,5), traccia un profilo storico della pittura murale dai Greci fino ai suoi tempi, con precise istruzioni tecniche che l'analisi delle opere giunteci hanno sostanzialmente dimostrato esatte. I restauri moderni hanno favorito ed incentivato gli studi sui procedimenti e i materiali esecutivi e, fortunatamente, si sono conservate testimonianze di pittura murale di svariate epoche e da molte parti del mondo, che ci permettono di effettuare confronti tra civiltà e periodi storici diversi.

    La pittura murale rappresenta una delle prime manifestazioni artistiche dell’uomo, grazie anche alla relativa facilità di reperimento dei materiali; inoltre, il fatto di essere creata su un supporto fisso, quindi legata al contesto architettonico in cui è inserita, ne ha spesso limitato la dispersione. Si è potuto così osservare come, a prescindere dai tempi e dai luoghi, il dipinto murale richieda particolari requisiti e abbia difficoltà di esecuzione analoghe, che hanno portato artisti di epoche diverse ad operare con procedimenti simili.

    Un esempio di ciò può essere la creazione del cosiddetto 'strato preparatorio'⁴. Il desiderio di ottenere la massima solidità e durata del manufatto artistico e la miglior visione e resa del procedimento pittorico ha imposto la scelta di un supporto dotato di particolari requisiti: deve possedere un colore uniforme, possibilmente chiaro, oltre ad una struttura il più possibile compatta e levigata per essere agevolmente dipinta. A questa esigenza, data la quasi impossibilità di trovare ogni volta in natura un simile supporto, quasi tutte le civiltà hanno risposto con la creazione di uno strato preparatorio, omogeneo e facilmente lavorabile, da applicare alla parete da dipingere. Così, fin dalla cultura egizia, mesopotamica e mediterranea, si diffonde l'uso di un intonaco che, quando conterrà calce, darà inizio al procedimento tecnico proprio dell'affresco.

    I primi esempi di pittura murale risalgono alla preistoria. Per tutto il Paleolitico non si può parlare di una preparazione della superficie da dipingere, ma piuttosto di una scelta della parete rocciosa più adatta, magari sommariamente lisciata per favorire l’applicazione dei colori. La pittura veniva così eseguita direttamente sulla parete, talvolta previa l'interposizione di uno strato di grasso animale che serviva da collante ed adesivo dei pigmenti. Quest’ultimi si limitavano alle tonalità giallo, rosso, nero e bianco ed erano ottenuti da terre naturali facilmente reperibili (idrossidi e ossidi di ferro e manganese, carbonato di calcio, crete gessose) e polvere di carbone. Gli eventuali leganti, oggi non più identificabili, potevano essere costituiti da grasso animale, siero di sangue, resine naturali. Le pitture erano realizzate col dito intinto nel colore, con l’ausilio di rudimentali pennelli formati da bastoncini di legno o aculei, con la tecnica a tampone od a spruzzo, ossia schizzando il colore direttamente con le labbra o per mezzo di canne, oppure sfregando la roccia con sassi colorati o carbone vegetale. Talvolta la figura dipinta veniva profilata da un'incisione più o meno profonda. La conservazione eccezionale di alcuni di questi reperti, in particolare le grotte dipinte franco cantabriche, si deve a una serie di fortunati fattori di carattere geologico e climatico: le caverne, rimaste chiuse dai detriti e dal pietrisco, hanno mantenuto al loro interno condizioni stabili di umidità e di temperatura; inoltre le incrostazioni calcaree, formatesi per naturali processi chimici di dissoluzione e precipitazione di carbonati di calcio contenuti naturalmente nella roccia, hanno contribuito a fissare i colori sulle pareti.

    Esempio di pittura preistorica, grotte di Lascaux, Francia.

    Pittura preistorica su roccia: A. Roccia; B. Film pittorico costituito da colore più legante organico. La stesura del colore poteva avvenire con modalità diverse: a) dopo l’applicazione del legante organico, con molta probabilità una sostanza grassa spalmata direttamente sulla roccia, veniva steso il colore in polvere. b) il colore poteva altresì essere applicato stemperato in sangue, latte ecc. c) Pietre colorate venivano sfregate direttamente sulla superficie rocciosa secondo la tecnica della ‘punta secca’. Queste pitture presentano oggi le caratteristiche delle pitture murali in quanto l’ambiente umido ed i naturali processi chimici avvenuti sulla roccia hanno favorito la cristallizzazione di carbonato di calcio sulla superficie.

    Pittura preistorica su palafitte: A. Struttura di legno; B. Argilla e fibre vegetali; C. Strato uniforme di colore bianco inorganico; D. Colore stemperato in legante organico. Di questo ipotetico tipo di pittura non abbiamo alcuna testimonianza. L’ipotesi della loro esistenza nasce innanzitutto da un fattore culturale: la necessità, che anche gli uomini preistorici abitanti su palafitte hanno sentito, di rappresentare in qualche modo il loro vivere quotidiano, così come già nelle caverne; inoltre anche altri popoli di epoche successive hanno lasciato testimonianza di opere di questo tipo, in costruzioni fatte appunto di legno e fango. E’ forse durante il periodo delle palafitte che nasce il concetto di una preparazione liscia e possibilmente bianca su cui stendere i colori.

    Supporti in argilla e paglia tritata si ritrovano nelle civiltà neolitiche dell’Asia Minore e della Mesopotamia, anche se non ci sono arrivate testimonianze dirette di pitture. Tuttavia, è forse proprio durante la civiltà delle palafitte che nasce l’esigenza di una superficie appositamente preparata a ricevere i colori.

    Gli Egizi per primi si sono serviti di un intonaco come strato preparatorio, ma non conoscevano ancora la tecnica ad affresco, dal momento che l’impiego della calce è stato introdotto solo dopo la conoscenza delle tecniche romane. Se applicato sulle pareti di mattoni, l'intonaco era di spessore molto sottile (1,5/3mm) e consisteva in una preparazione di gesso o gesso e colla, adatta a ricevere le tempere composte da soluzioni molto liquide di adesivi quali gelatina, gomma di acacia, albume ecc. Se il piano di fondo era costituito dalla roccia scavata, l'intonaco acquistava maggior consistenza e spessore con la creazione di due strati: il primo di creta misto a sterco di vacca, crine e paglia tritati e il secondo di gesso. Talvolta in questa malta si riscontra la presenza di polvere di mattone, che serviva ad aumentare la ruvidezza della superficie. La maggior consistenza dell'intonaco permetteva l'adozione di un'altra tecnica propria dell'arte egizia, ossia il rilievo al negativo, mediante il quale si incidevano profondamente i contorni delle figure, che in seguito venivano ricoperte dal colore. Il disegno preparatorio consisteva in pratica in questa incisione, ma non è escluso che ci si servisse di disegni o ‘cartoni’ su scala ridotta eseguiti da un unico maestro o supervisore, sotto la guida del quale lavoravano maestranze specializzate.

    Pittura Egizia. Da sinistra: A. Pietra o laterizi (mattoni cotti al sole); B. Argilla con fibre vegetali; C. Gesso o altro bianco inorganico più legante organico; D. Colore più legante organico. A destra – A. Pietra Lavorata o laterizi (mattoni cotti in fornace); B. Gesso a spessore o in leggero strato; C. Colore più legante organico. I due disegni rappresentano l’evoluzione della pittura egizia nei suoi tratti fondamentali anche se molteplici varianti possono essere riscontrate a seconda del luogo e del periodo storico.

    Con la pittura egizia aumenta infine la gamma cromatica. Ai colori della pittura preistorica si aggiungono il verde (malachite, crisocolla), l'azzurro (smalti, lapislazzuli, indaco), il giallo dall’orpimento e rossi di origine organica (lacca di robbia). Sulla base di questi colori se ne ottenevano altri di tonalità intermedie come il grigio, il rosa, il bruno. Forse già a cominciare dalla VI dinastia i colori verde e azzurro, assai costosi, vengono parzialmente sostituiti da paste vitree in polvere composte prevalentemente da ossido di rame (blu egiziano).

    Esempio di pittura egizia.

    Esempio di pittura egizia dipinta su una leggera scialbatura a coprire il supporto in pietra.

    La tecnica della pittura murale greca è di difficile interpretazione per la mancanza di reperti. Il vero e proprio affresco lo troviamo per la prima volta a Creta nel periodo risalente alla cultura minoica preistorica: accanto al procedimento usato anche in Egitto, infatti, se ne riscontra un altro nel quale i colori risultano stesi direttamente sull'intonaco ricco di calce di provenienza locale ed ancora umido. L’affresco cretese costituisce probabilmente la base per la pittura greca, di cui possiamo farci un'idea solo attraverso confronti con le culture etrusca e romana, da essa direttamente influenzate.

    In Etruria la tecnica esecutiva si evolve a seconda dei periodi storici e delle influenze dovute ai contatti con le civiltà greca e romana. Nelle pitture più antiche lo strato preparatorio è sottilissimo, quando addirittura inesistente; in quest'ultimo caso non si può quindi parlare di affresco in quanto l'uso della calce si limita solo ad una leggera scialbatura al di sotto di alcuni colori, applicata direttamente alla parete di tufo precedentemente levigata. In epoca successiva, sulla superficie rocciosa si riscontra un sottile strato di intonaco a base di argilla e torba su cui viene stesa una mano di bianco uniforme. Ad affresco sono molte pitture tombali etrusche di epoca ellenistica, nelle quali l'intonaco in genere consiste in un impasto di pietra locale pesta più calce o calce e creta mescolata con paglia; in alcuni casi si nota una più netta differenziazione tra arriccio e intonaco, realizzato con calce e sabbia il primo, con calce più polvere di marmo il secondo. In generale, l'intonaco diviene comunque più liscio e consistente, in quanto steso sul muro con differente spessore, onde uniformare la superficie della parete, e rifinito poi con una scialbatura di calce: la stesura pittorica rapida e l’elevato tasso di umidità degli ambienti, consentiva una discreta carbonatazione delle calce e quindi una pittura sostanzialmente ad affresco.

    Esempio di Pittura etrusca, Tarquinia, Tomba degli Auguri.

    Esempio di pittura etrusca nella necropoli di Tarquinia.

    Prima di cominciare a dipingere, gli Etruschi realizzavano generalmente un disegno preparatorio con ocra rossa o per mezzo dell'incisione diretta. Una volta stesi i colori, il disegno veniva rifinito con il tipico contorno in nero. La gamma cromatica si basa sulle tinte rosse e gialle (ocre), nero, bianco (calce) verde e blu (fritta egiziana ovvero materia azzurra composta di sabbia, limatura di rame e carbonato sodico, cotta in forno), usate pure o mescolate. I colori sono stesi sulla superficie senza eccessive ricerche e in modo abbastanza uniforme, anche se a volte è molto visibile il segno della pennellata condotta con pennelli a grosse setole e che spesso indica le notazioni di chiaroscuro.

    Gli studi realizzati sulla pittura parietale romana hanno avvalorato le informazioni forniteci in proposito da Plinio e, soprattutto, da Vitruvio: sulla superficie da dipingere venivano stesi tre strati successivi di intonaco consistente in una parte di calce spenta (almeno da tre anni) e in tre parti di pozzolana. Talvolta, per basamenti e zone umide, alla calce e alla pozzolana veniva aggiunto del coccio pesto. Su questi tre strati, progressivamente di spessore minore, se ne aggiungevano altri tre di calce e polvere di marmo a granulometria sempre più ridotta, che doveva conferire alla superficie da dipingere un tono più chiaro e luminoso. Non sempre negli intonaci romani troviamo il numero di strati indicati da Vitruvio, ma in generale lo spessore della malta è decisamente ragguardevole e le superfici risultano compresse e perfettamente levigate, in modo da consentire una lenta asciugatura e quindi un’esecuzione pittorica ad affresco.

    Pittura Romana: A. Pietra, tufo o laterizio; B. Strato di calce unito a pozzolana, coccio pesto e sabbia: impasto a granulometria relativamente grossa; C. Strato di calce, pozzolana e sabbia a media granulometria; D. Strato di calce, pozzolana e sabbia a granulometria più fine; E. Colore stemperato in acqua; F. Cristalli di carbonato di calcio prodotti nel successivo processo di carbonatazione. Nella pittura romana esiste una grande varietà di supporti in relazione alle diverse epoche e, conseguentemente, del tipo e del numero degli strati di intonaco. Più la superficie è liscia, minori sono gli strati di preparazione sovrapposti, come minore risulta il loro spessore. La tecnica comunque può essere sempre considerata in affresco.

    Un riflesso realisticamente più fedele delle pitture parietali greche lo troviamo soprattutto nella pittura romana di Ercolano e Pompei. La tecnica delle pitture pompeiane, che ha permesso loro, nonostante le calamità naturali, un perfetto stato di conservazione, ha costituito in passato un enigma di grande interesse. Si è più volte affermato, infatti, che non si tratta di vero affresco, in quanto non si trovano tracce dei raccordi delle varie giornate di lavoro; inoltre, la straordinaria lucentezza marmorea delle superfici dipinte ha fatto ipotizzare l’uso di una tecnica ad encausto, quasi sempre, però, contraddetta dall'assenza di cera nel colore, o la presenza di fissativi ormai non più riconoscibili.

    Esempio di pittura pompeiana.

    In realtà anche a Pompei si opera secondo la più fedele tradizione pittorica romana: se infatti non sono visibili le giornate di lavoro, sono invece individuabili le stesure di intonaco a ‘pontate’. Ogni pontata, costituita da più strati di malta, veniva accuratamente compressa con la cazzuola, in modo da rendere compatto ed estremamente levigato l'intonaco. Subito dopo la stesura di una prima tinta omogenea come base per la decorazione pittorica vera e propria, è probabile fosse eseguita una specie di ‘lucidatura’ operando una forte pressione sul film pittorico (previa probabilmente interposizione di pergamena) che, rendendo sensibilmente duro e compatto l'intonaco, permetteva un assorbimento completo del primo strato di colore, con conseguente perdita del naturale rilievo della pennellata e emersione in superficie di parte dell'umidità contenuta nel supporto. Tale umidità e il molto più lungo processo di essiccazione dell'intonaco reso così compatto permettevano all'artista, una volta ultimate le pontate, di dipingere ancora in affresco le scene o le decorazioni pittoriche con colori stemperati in una tempera ausiliare o, semplicemente con il bianco di calce. Per mezzo della luce radente o passando la mano sulla superficie pittorica è infatti possibile riconoscere la liscia compattezza della prima stesura di colore e il rilievo di quelle successive. Il caratteristico aspetto marmoreo e la lucidità delle pitture pompeiane, quindi, è da attribuirsi alla forte pressione esercitata sul supporto pittorico e al conseguente lento processo di carbonatazione e non alla presenza di fissativi o cera che, tuttavia, non è escluso fossero utilizzati per particolari ambienti (come le terme). Un'altra ipotesi da prendere in considerazione per spiegare questo tipo di fenomeno si basa su un processo chimico- fisico ben preciso, che potrebbe aver avuto origine dall'eruzione vulcanica del 79 d.C. Al momento dell'eruzione le pitture sarebbero state investite improvvisamente da un grande apporto di calore che avrebbe prodotto la ‘cottura’, almeno in parte, del carbonato di calcio trasformatosi quindi in ossido di calcio. In seguito, le piogge e l'umidità avrebbero comportato un altro lento processo chimico con la trasformazione dell'ossido in idrato di calcio e poi nuovamente in carbonato con la progressiva ricristallizzazione del film pittorico. Tale fenomeno sarebbe avvenuto, date le particolari condizioni di mantenimento dell'opera, in maniera assai lenta e graduale, tanto che potrebbe aver permesso uno sviluppo cristallino estremamente coerente tipico, appunto, di un sistema lapideo.

    A partire dal II secolo d.C. fino al tramonto della civiltà romana il numero degli strati di arriccio e di intonaco diminuisce fino a ridursi ad uno solo, mentre si fa sempre più frequente l'uso del ripasso a secco. Le pitture alto medievali presentano una vistosa aggiunta di particolari a tempera che fanno dell'affresco originale solo una semplice preparazione di base. I pittori lavoravano più che altro a pontate, ossia su ampie porzioni di intonaco ad andamento orizzontale e di larghezza solitamente uguale a quella del ponteggio usato per il lavoro. Di conseguenza, solo il disegno preparatorio e le prime stesure di colore venivano fissati dalla carbonatazione della calce, mentre le composizioni erano generalmente completate con colori stemperati in idrato di calcio e rifinite completamente a secco.

    Pittura rupestre, Cappadocia, Turchia.

    Pittura in affresco, XIII secolo, chiesa di Karanlik in Cappadocia, Turchia.

    Raramente si riscontra la sinopia, in quanto la semplicità delle composizioni, basate su modelli e su una tradizione iconografica rigorosa e ampiamente collaudata, permetteva di dipingere direttamente sull’intonaco, senza l’aiuto di una traccia preventiva. Inoltre, la sua funzione di guida per la trasposizione della composizione risultava notevolmente limitata dalla distribuzione dell’intonaco a pontate, che andavano ad occultare quasi completamente il disegno preparatorio sottostante.

    Nella pittura altomedievale, quindi, piuttosto della vera e propria sinopia, sono più frequentemente rintracciabili semplici schizzi o linee guida disegnati direttamente sull’arriccio, che potevano servire ad avere un’idea generale della composizione e ad adattarla efficacemente alla struttura architettonica della parete. Pare ormai accertato, inoltre, l’impiego dei cosiddetti patroni o antibola, ossia sagome di carta cerata per disegnare la silhouette delle figure o dettagli ripetitivi come teste e mani, il cui uso si protrae anche in epoca successiva⁵.

    Probabilmente, a partire dal IX secolo è il mosaico che contribuisce a tramandare la tecnica dell'operare su intonaco fresco: le tessere musive venivano infatti poste su porzioni di intonaco ancora plastico applicate su un arriccio fornito di sinopia, come avverrà poi per l'affresco medievale. Non per niente i primi artisti che hanno contribuito alla rinascita della pittura parietale erano, oltre che pittori, anche mosaicisti. Ma è tra il Due e Trecento che si approda ad una sostanziale innovazione del dipingere in affresco con l'attuazione del più puro procedere in questa tecnica.

    Il primo esempio di affresco a ‘giornate’ è generalmente stimato quello attribuito a Coppo di Marcovaldo nella Sala Capitolare di San Domenico a Pistoia databile ante 1274⁶, ma è nel grande cantiere di San Francesco ad Assisi che si assiste alla progressiva sperimentazione di nuove tecniche pittoriche che porteranno all’elaborazione della pittura ad affresco canonica. Mentre Cimabue e la sua bottega fanno ancora uso di colori a secco con ampio utilizzo della biacca, a partire dalle pitture della navata della Basilica Superiore si assiste ad una evoluzione delle tecniche di stesura su intonaco umido fino alla realizzazione, con la bottega di Giotto, del buon fresco. La spia più indicativa di

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