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Mago Bianco: Vita e segreti di Pietro d’Abano, medico ed eretico
Mago Bianco: Vita e segreti di Pietro d’Abano, medico ed eretico
Mago Bianco: Vita e segreti di Pietro d’Abano, medico ed eretico
E-book569 pagine8 ore

Mago Bianco: Vita e segreti di Pietro d’Abano, medico ed eretico

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Info su questo ebook

Pietro d’Abano (1250-1315) è un genio avvolto nel mistero. Uno di quei pionieri della scienza, quando ancora si chiamava magia, che propiziarono l’uscita dal Medioevo e l’avvento del Rinascimento. Fu filosofo, astronomo e astrologo, ma soprattutto medico, e per questo a lungo perseguitato dall’Inquisizione, che ben tre volte cercò di condannarlo al rogo come eretico e negromante. Le sue opere sono note agli studiosi, ma poco si sa della sua vita. Anzi, delle sue vite. Perché, in un’epoca in cui il solo viaggiare era un azzardo, dopo l’adolescenza tra Abano e Padova fuggì a Costantinopoli, dove imparò le lingue e le arti mediche, quindi visse dieci anni nella nuova capitale d’Europa, Parigi, da insegnante alla Sorbona, e infine tornò a Padova, dove diede inizio alla sua famosa scuola medica, prima di sparire letteralmente dalla faccia della terra. Ma la morte è solo l’ultimo degli enigmi di Pietro d’Abano che queste pagine intendono svelare.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita30 mar 2023
ISBN9788863366006
Mago Bianco: Vita e segreti di Pietro d’Abano, medico ed eretico

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    Anteprima del libro

    Mago Bianco - Roberto Zucchi

    A Elena

    PARTE PRIMA

    ‐ 1 ‐

    Nell’anno del Signore 1270, il paese chiamato Abano, dal nome del dio che ribolle nel suo sottosuolo, conta quasi ottocento abitanti, sparsi nelle contrade attorno le colline del Pedevenda. È territorio esterno del Libero Comune di Padova, a cui, in caso di guerra, fornisce diciassette carri, più di ogni altro villaggio dei dintorni. È rinomato per le sue fonti calde, sacre agli antichi veneti e celebrate dai tempi dei romani. Distrutte dai barbari e cadute in rovina, da quasi mezzo secolo le terme sono tornate ad essere frequentate dai magnati padovani e perfino da ospiti d’Oltralpe, dall’Impero e dalle Gallie, tanto che il Comune ha dovuto fissare delle tariffe massime per disciplinare l’esosità dei locandieri. Le terme sono grandi vasche d’acqua calda in cui ci si immerge nudi, gli uomini separati dalle donne. Vanno pulite due volte l’anno ed è vietato buttarci immondizie, animali, sangue dei salassi, sanguisughe e lavarci i panni.

    Il paese è cresciuto attorno all’antica pieve di San Lorenzo, una chiesa battesimale fondata dai monaci del grande monastero di Farfa, in Sabina. Appresso, col tempo, sono sorte numerose case di muratura o pietra, alcune – dei più abbienti – anche a due piani.

    Lì, nella piazza nata dall’incrocio della strada per Padova con quella per le paludi calde, oltre cento persone si sono radunate in un limpido pomeriggio di fine marzo.

    Sono arrivate per festeggiare Maria di Menego, da Abano, e Cesco di Giuseppe, da Montortone. Ieri si sono fatti la promessa, stamattina si sono sposati. Non si poteva aspettare oltre, che si avvicina Pasqua e in Quaresima le cerimonie nuziali saranno sospese.

    Si sono scambiati gli anelli davanti al parroco di San Lorenzo, infilandoli all’anulare della mano sinistra, perché da là – si dice – parte una vena che porta al cuore. Si sono baciati sulle labbra davanti a tutti, parenti, paesani, curiosi. E di fronte al funzionario civile venuto da Padova, Cesco il contadino ha annunciato il proprio dovario. Se morirà, a Maria andrà un terzo dei suoi beni: la casa in mattoni di argilla, l’aratro dal vomere di ferro forgiato, due buoi con il prezioso giogo da corna e la vigna, piccola, ma che dà vino buono.

    Lei, aiutata dalla madre dal volto sfregiato, ha mostrato la sua dote: un grande sacco di canapa con dentro quattro lenzuola di lino, due coperte di lana, due cuffie di feltro, cucchiai di legno, vasellame di coccio e un paiolo per cucinare. Tutto nuovo, da signori.

    Cesco è di Monteortone, quindi ha dovuto ripagare con i doni dei suoi compaesani il fatto di portare via una donna da Abano. Quei regali sono adesso in bella mostra su alcuni dei carretti che delimitano l’area della festa. È una parte della carne che sarà servita al banchetto: un vitellone e due maiali, poi cinghiali, lepri, fagiani e perfino un airone. Le famiglie dei dintorni hanno portato altro cibo recuperato con generosità da quanto è rimasto delle provviste per l’inverno, che se n’è finalmente andato: formaggi, uova, lenticchie, fave, cipolle e mele. Gli abitanti delle valli sono arrivati con otri di sidro e di vino. I monaci dell’abbazia di Praglia con vasi di miele di acacia, ma anche erbe medicinali e infusi di liquirizia, per digerire. Il mugnaio ha regalato la farina di grano e farro per pagnotte e focacce, distribuite in quattro grandi ceste.

    Maria è minuta, ma ha grandi occhi scuri, quasi neri, e i capelli corvini, raccolti dietro la nuca, le arrivano a metà schiena. Indossa una tunica candida, rappresa in vita, con le spalline imbottite, la scollatura che evidenzia il timido seno. È bella come neppure sapeva di essere. Sua madre, che temeva nessuno la volesse maritare, non smette di ammirarla, felice.

    Cesco, alto e robusto, guarda Maria come fosse un angelo ed è felice come neppure sognava si potesse essere. A dire la verità si sente un po’ a disagio, con le brache verdi aderenti, la cintura che scivola giù e la casacca rossa che stringe sotto le ascelle. Ma sorride tra sé, immaginando di quando racconterà ai nipoti, davanti al focolare, quanto è scomodo sposarsi vestiti da cittadini.

    La primavera è appena iniziata e nelle radure più assolate, tra colle e colle, i crochi macchiano di viola l’erba nuova, verde brillante. Ad Abano è il primo matrimonio dell’anno: ma è con uno di fuori, e le comari discutono sottovoce se sia di buon auspicio per il paese.

    I contadini sono tornati dai campi prima del vespro, per vestirsi da festa. Le donne sistemano le ultime vettovaglie mentre i bambini si rincorrono tra tavoli e carretti. I più grandicelli stanno accanto ai padri, a sentire cosa si dicono gli uomini. I vecchi si sono portati uno sgabello e, seduti, si raccontano dei dolori e si guardano attorno.

    Anche Pietro si guarda attorno, cercando volti conosciuti.

    Nella casa di pietra a due piani affacciata sulla piazza lui c’è venuto al mondo e tra quella gente ha trascorso gli anni spensierati di bambino e di ragazzo. Anche se adesso gli dicono che è nato sul sasso – un cittadino, insomma – è contento di ricevere le strette di mano ruvide dei fittavoli, le manate sulle spalle dei compagni di giochi diventati contadini oppure omaggiare con un cenno del capo, ricambiato, le donne affaccendate.

    Un paio di ragazze che ricordava bambine lo hanno salutato agitando le mani, accompagnando il gesto con un sorriso luminoso e invitante, già da donne.

    Margherita invece, appena l’ha visto ha mollato il sacco di riso che portava in spalla e gli è corsa incontro. L’ha abbracciato, avvolgendolo nel seno prosperoso, poi lo ha baciato sulla bocca, con uno schiocco sonoro che ha trasformato in una risata squillante.

    Pietro è magro come quando gli dava lezioni d’amore, ma più alto, il naso sottile, leggermente aquilino e gli occhi irrequieti, castani, come i capelli tagliati a scodella. Anche gli abiti sono alla moda di città: casacca di fustagno grigia su una tunica corta bianca e calzabraca nera.

    Margherita, che è diventata il doppio di quando lo accoglieva dentro di sé tra i covoni o nel tepore del fienile, se lo rimira, arretrando di qualche passo, le guance rubizze, le mani sui fianchi tondi.

    Eccolo qua, il nostro damerino. Sei tornato davvero! Che onore per i nostri sposi: anche il dottore Pietro qui con noi! O sei venuto per farti mangiare con gli occhi da queste contadine ignoranti? annuncia allargando il braccio, come per presentare al pubblico un figliol prodigo.

    Macché: non riusciva più a stare lontano dal paese – risponde un giovane – In città c’è aria cattiva, fa male. E guardate come l’hanno ridotto i libri, pallido come le chiappe d’un vecchio...

    Sì – replica un secondo – perché all’università gli riempiono la testa di parole e parole, tante di quelle parole che dalle orecchie finiscono giù nello stomaco, poi nelle viscere e alla fine strozzano il culo!

    Sono Rosario e Guidelmo, che gli sono piombati addosso sbraitando i loro lazzi. Lo stringono con forza, fingendo di lottare, come facevano da ragazzini, quando le macchie del Pedevenda erano il loro terreno di caccia. Loro tre assieme, alla conquista di tutto, ogni giorno, estate dopo estate, fino al tramonto e oltre.

    No Margherita, non sono ancora dottore. Sono solo studente in filosofia e medicina – si schernisce Pietro –E non è vero che a Padova l’aria sia così cattiva....

    Ma non dice perché è tornato ad Abano. Non per gli amici, o le ragazze: per le nozze, certo, ma anche per un motivo che nessuno conosce. Tranne, forse, la sposa – Maria la muta.

    La scorge vicino a un carretto addobbato di fiori, con il pianale incorniciato da un lungo ramo curvato ad arco, avvolto di vischio e campanule: il palco da dove gli sposi daranno il via ai festeggiamenti. Le svolazzano attorno come farfalle due damigelle di poco più giovani. Cinguettano che è ora di cominciare, che Cesco lasci perdere i suoi paesani e se la porti sul carretto.

    Pietro accenna ad avvicinarsi quando, poco oltre le ragazze, vede qualcuno che non avrebbe mai più voluto vedere.

    Meno che mai oggi.

    Sono tre cavalieri. Avanzano piano, al passo, tra la gente, l’aria spavalda, scambiandosi battute mentre osservano i doni, le vivande, le griglie che crepitano.

    Nessun dubbio. Sono loro. Otto anni dopo, i diavoli sono tornati.

    ‐ 2 ‐

    Quel giorno avevano deciso di cacciare lepri. Ognuno per proprio conto: chi ne catturava meno pagava pegno. Di solito toccava a Pietro, perché non era bravo con le trappole. Ma stavolta aveva trovato un declivio poco esposto, a mezza costa, con un’erbetta così croccante che le lepri dovevano per forza venire a mangiarsela.

    Stava nascondendo un legaccio in un cespuglio quando udì lo scalpitio degli zoccoli. Veniva dal tratturo che correva una decina di braccia sotto di lui, stretto tra la parete rocciosa del colle e quella verde, impenetrabile, irta di rovi e rami, del margine della boscaglia.

    I tre cavalieri cavalcavano appena sfalsati, al trotto, prendendosi tutta la larghezza del sentiero. Uno aveva in testa un cappellaccio da lanzichenecco e portava una lama svizzera a tracolla. Il secondo, con una mazza ferrata legata sulla schiena, era calvo, il cranio attraversato da una lunga cicatrice. Il terzo, dai capelli neri lunghi fin sulle spalle, casacca di cuoio, spadone infoderato alla sella, aveva il cavallo migliore: si capiva che era il capo.

    Non era il solo a fissarli. Proprio sotto a dove s’era acquattato, una famigliola di contadini stava facendo altrettanto. L’uomo teneva in spalla un sacco di castagne e stava dicendo a moglie e figlia di addossarsi alla collina. La donna spingeva la bambina dietro di sé, al riparo della propria gerla. La piccola aveva un falcetto appeso al collo e stringeva orgogliosa un mazzetto di fiori di campo.

    I cavalieri avanzarono, rallentando l’andatura. I contadini si strinsero ancor più alla scarpata del colle, abbassando il capo. Solo la fanciulla, incuriosita, li osservava uno ad uno, e per un istante incrociò lo sguardo del calvo.

    I tre proseguirono, scomparendo dietro una curva.

    I contadini ripresero il cammino, sollevati. Prima di tornare a casa dovevano ancora setacciare i prati più umidi in cerca di carletti e bruscandoli, che era ormai tempo. Il padre lo ripeté alla moglie e alla figlia, incitandole ad affrettare il passo.

    Ma ecco, di nuovo, i tre i cavalieri. Tornavano indietro.

    Stavolta arrestarono i cavalli davanti alla famigliola, gli zoccoli che slittavano sul fango. Il cavaliere dai capelli lunghi insinuò il muso del suo sauro tra il padre e le due donne. Il contadino gli offrì delle castagne, anche se i ricci gli pungevano le mani. Il capobanda si chinò verso di lui, come per accettare l’omaggio, ma invece, improvvisamente, lo colpì con un manrovescio del guanto ferrato in pieno volto, facendolo stramazzare a terra.

    Le donne gridarono, la bambina tentò di fuggire, ma il calvo, sceso da cavallo così come il compare, le tagliò la strada ridendo. Rideva e le si avvicinava. Rideva e oscillava il bacino avanti e indietro.

    La madre si lanciò verso la figlia per farle da scudo, ma il lanzichenecco la agguantò e, prendendola per i capelli, la costrinse a prostrarsi dinanzi a lui, faccia a terra.

    Il calvo costrinse la fanciulla addosso al terrapieno. Piangendo, lei lo implorava di non farle del male. Lui le sfilò il falcetto dal collo e– sghignazzando come un ubriaco – le squarciò la tunica dall’orlo al colletto. Poi si calò le brache e la prese così, sollevandola dal suolo a braccia aperte, schiacciandola con tutto il suo peso contro le rocce.

    Sembrava crocefissa.

    Lui spingeva sempre più veloce, più forte, lei urlava, singhiozzava e gemeva.

    Dopo un tempo che a Pietro, da là sopra, sembrò eterno, l’ansimare furioso dell’uomo si trasformò in un rantolo di soddisfazione e lasciò scivolare la sua preda a terra.

    Todesco, è tua... grugnì.

    Il lanzichenecco fece per avvicinarsi alla bambina, ma con un urlo strozzato la madre gli si gettò tra le gambe. Per un attimo il mercenario vacillò, ma si liberò sferrandole un calcio sul volto. Poi raccolse da terra la figlioletta, seminuda. La prese per le spalle, la costrinse ad accucciarsi e, con un ululato di trionfo, la violentò anch’egli.

    Finita l’opera, allontanò quel mucchietto di carne e ossa sanguinante, si riaggiustò le brache, il cappellaccio e rimontò in sella.

    Ringraziate che vi lasciamo la vita, pezzenti – gridò il cavaliere con i capelli lunghi –E se qualcuno vi chiederà cos’è successo, dite che i demoni di Ezzelino stanno tornando. Ditelo pure all’abate e al vescovo: torneremo e ci riprenderemo tutto!

    Quindi i tre spronarono i cavalli e ripartirono al galoppo.

    La fanciulla era rimasta stesa in mezzo al sentiero. Il padre cercava di coprirla con i resti della tunica, la donna biascicava come una litania il suo nome, le rialzava il capo, le carezzava la fronte.

    Lei non piangeva né si lamentava più. Aveva la bocca aperta, ma non ne usciva alcun suono. I grandi occhi scuri, sbarrati, fissavano il cielo senza vederlo.

    Senza forse vedere neppure quegli altri occhi spalancati, poche braccia sopra di lei, annegati nei suoi.

    Pietro non aveva avuto la forza di intervenire, gridare, di fare nulla.

    Ma quello sguardo cieco lo aveva marchiato a fuoco – come se Gesù Cristo stesso, crocefisso di nuovo in forma di bambina, lo avesse condannato in eterno per la sua viltà.

    Non solo. Il peso sconosciuto che gli gravava sul petto non era soltanto la paura di un ragazzo di dodici anni di fronte a tre uomini armati. No. C’era dell’altro. Un subbuglio interno che lo sconvolgeva.

    Era vergogna.

    Si vergognava di sé stesso per essere stato rapito dal martirio di quel corpo acerbo e indifeso. Non essere riuscito a distogliere lo sguardo dai minuscoli capezzoli eretti, dalle scie vermiglie che scendevano lungo le gambe sottili.

    Si rialzò barcollando, dimenticò la trappola e, prima camminando a tentoni, poi correndo tra i rami che lo schiaffeggiavano, fuggì nel bosco.

    ‐ 3 ‐

    I tre cavalieri si arrestano accanto al carretto con Maria e le damigelle. Ad un cenno di quello con i capelli lunghi gli altri lanciano dei fischi prolungati e, sbracciandosi come per radunare delle pecore, richiamano la gente nello spiazzo. Quando i più si sono avvicinati il loro capo prende la parola.

    Una buona giornata a tutti voi e soprattutto agli sposi. Io sono Bressano dei Buzzaccarini, e questi sono i miei aiutanti di campo. Vedo che avete preparato una bella festa: complimenti. Però... però, mi pare ci sia stata una dimenticanza. Una dimenticanza non da poco, devo dire, perché non ci è stato richiesto alcun permesso né, tantomeno, nessuno ha avuto la cortesia di invitarci. Male, molto male. Ciò è contro il diritto e la consuetudine. Avremmo quindi ogni motivo di essere risentiti... e lo siamo, certo che lo siamo. Ma siamo pure magnanimi, e di indole accomodante, quindi cercheremo di rimediare insieme a questa offesa. In fondo, è stagione di matrimoni, e si dà il caso che anche un mio fratello minore si sposi. Devo confessarvi che la sua promessa ha ancora dieci anni, ma poco importa: mentre lui farà esperienza con le sguattere, lei ci porterà in dote tutti gli averi di famiglia. Un buon contratto nuziale, no? Ma... forse questo a voi non interessa. Interesserà invece di sicuro lo scambio che, nella nostra generosità, vi proponiamo per saldare il debito d’onore che avete contratto: legherete un bue o una vacca a ogni carro di cibo che vedo qui attorno e, da bravi, in fila come per la processione dell’Annunciazione, andremo assieme al nostro palazzo di Padova. La mia famiglia accetterà con benevolenza i vostri doni, macelleremo le bestie, mangeremo e ci ubriacheremo, brindando alla buona sorte dei due matrimoni. Non è un patto ragionevole?

    Mentre Bressano Buzzaccarini parlava Pietro si è man mano avvicinato, accompagnato da Guidelmo e Rosario. Ad ogni passo, l’angoscia che gli aveva stretto lo stomaco alla vista del terzetto si è trasformata in un’onda di calore che dal petto è risalita alle spalle, e poi su fino alla testa. Una vampa che non sa trattenere.

    Un patto ragionevole, messer Buzzaccarini? Cosa c’è di ragionevole in una rapina? Questo è territorio del libero Comune di Padova, non vostro. Qui non potete vantare alcun diritto. Questa gente non vi deve nulla.

    Dall’alto della sella Bressano si sporge verso Pietro, incuriosito, fermando con un gesto della mano i due compari, che stavano già muovendosi verso di lui.

    E chi saresti tu, ragazzo, che vieni qui a parlare di diritto e incitare la plebe alla rivolta?

    Pietro da Abano, figlio del notaio Costanzo. E non sono più un ragazzo, ho vent’anni e studio filosofia e medicina a Padova. Ma qui sono cresciuto e questa è la mia gente. E alla mia gente dico – Pietro alza la voce, il capannello attorno si è infittito, le persone lo ascoltano – di non obbedire a costui e a quelli che vogliono imporre di nuovo gli usi di Ezzelino il sanguinario, che tanti qui ha affamato e massacrato. Ora siamo governati da uomini saggi... anche se a volte ho dei dubbi, poiché hanno concesso a voi e ad altri amici del tiranno di tornare, nonostante il doppio disonore del tradimento e della sconfitta...

    Disonore? Tradimento? Ma lo sentite? Deve ancora capire cos’ha in mezzo alle gambe e osa parlarmi così? Insultare un Buzzaccarini davanti ai servi? Bamboccio, le leggi valgono fin dove si possono imporre, e quei bottegai comunali non osano mettere il naso fuori dalle mura di casa. Quindi qui la legge siamo noi! E che la Comunanza si provi a fermarci: gli ritorneremo in un cesto le teste di quei pupazzi che chiama milizia, poi ci riprenderemo la città e vendicheremo Ezzelino. In quanto a te, giovane e insolente filosofo... ti offro il modo di spiegare le tue ragioni a palazzo, visto che sarai tu a condurre il primo carro di compensazione dei danni.

    La folla è aumentata, ora ci sono quasi tutti. La piccola Maria è stretta tra la madre e il padre. Atterrita, fissa Bressano e i suoi scagnozzi.

    Rosario e Guidelmo sono nervosi, uno tira per la casacca Pietro, l’altro spia i movimenti del calvo e del lanzichenecco.

    Ma Pietro non si muove. Fronteggia il cavaliere.

    E se rifiuto?

    Ti scannerò qui, subito. E questi due gentiluomini faranno altrettanto con chiunque cerchi d’impedirlo.

    Istintivamente, i contadini attorno ai cavalieri arretrano d’un passo, mugugnando. Poi il brusio si placa, e nel silenzio solo Pietro rimane fermo davanti ai tre. Impallidito, ma senza abbassare lo sguardo.

    Già, perché tanto è quella la fine che mi aspetterebbe, vero? Cosa ne dite, amici, qualcuno vuole scommettere sul mio ritorno? O sul ritorno dei vostri carri? O su quello che aspetta voi e i vostri figli per i prossimi giorni, mesi o anni? Se gli permettete di prendersi questo cibo, dopo si prenderà anche le vostre vite. Peggio ancora: sarete due volte schiavi, suoi e della paura. Ogni giorno rivedrete questi momenti e vi maledirete. Lo so bene io... Io, che vidi costui e i suoi compari stuprare senza pietà una bambina. Una bambina che è diventata la donna di cui oggi stavamo festeggiando le nozze. Per paura io allora non dissi nulla, lo confesso, ma Maria da quel giorno ha perso la parola e costoro ne sono i colpevoli, impuniti.

    Parlando dello stupro Pietro ha abbassato la voce, ma le sue parole hanno acceso ugualmente un mormorio che si è sparso tra gli astanti come un’onda. Qualcuno urla Vendetta!, altri chiedono silenzio.

    Falsità, non è vero nulla! Ti stai inventando tutto, mentecatto. E ora risponderai delle tue menzogne! ringhia Buzzaccarini mettendo mano alla spada. I suoi compari lo imitano con un ghigno beffardo. Rosario e Guidelmo, fanno altrettanto con i pugnali.

    Amici, so che temete di perdere anche quel poco che avete o perfino le vostre famiglie – insiste Pietro rivolto alla folla – Avete diritto alla paura. Come Maria, come me. Ma come me avete solo l’alternativa se morire subito o un po’ ogni giorno. E allora basta! Difendiamoci! E che un messo corra subito ad avvertire la Comunanza: la repubblica farà rimangiare la lingua ai nuovi tiranni, altro che il banchetto di Cesco e Maria!

    Ora il cerchio di popolani è tornato a stringersi attorno ai tre cavalieri. I loro cavalli sono innervositi, quello di Buzzaccarini nitrisce. Lui estrae la spada, il calvo impugna la mazza e il lanzichenecco la daga. Le madri trascinano via i più piccoli. I ragazzini si stringono ai padri.

    Fermi – grida il mugnaio – non facciamo pazzie. Amici, non invitare i banchieri Buzzaccarini è stata una mancanza di riguardo, dobbiamo ammetterlo. E se celebrano nozze così importanti... il nostro umile banchetto, in fondo, può aspettare. Anzi: possiamo rifarlo migliore. Io per primo sono pronto a donare altri due, no, altri quattro sacchi di farina bianca. Così non succederà niente a nessuno. Messer Buzzaccarini è un uomo d’onore: ha detto che Pietro deve solo seguirlo al palazzo, non è vero? Quindi vedrete che tornerà sano e salvo a fare festa con noi. Senza bisogno di mettere mano alle armi.

    Ma questo cibo è nostro! Abbiamo già pagato l’affitto al vescovo e le decime al Comune. Lo avevamo conservato apposta, non ci resta altro protesta un contadino.

    I buoi ci servono per arare e le vacche per il latte dei bambini. Come faremo senza? urla un altro.

    Calma, fratelli, calma – esorta il parroco facendosi avanti – Prima di tutto pensiamo al matrimonio di Maria e Cesco. Non roviniamo un giorno santo. Nessuno si macchi di peccato... nemmeno del peccato di superbia. Quindi, se il banchetto si può ripetere, allora avanti, provvediamo. La benedizione di Dio vigila su questi giovani, nulla succederà di male.

    Li senti, ragazzo? Ascolta la voce dell’esperienza e della fede – Buzzaccarini adesso punta la spada verso Pietro –O preferisci morire perfino contro la volontà dei tuoi paesani? Sarebbe il più stupido dei sacrifici. Quindi, avanti villici, attaccate i carri ai buoi, senza altre discussioni inutili.

    A quell’ordine un paio di contadini iniziano a muovere un carretto carico di selvaggina, alzano le stanghe per legarle al basto di un bue.

    Ma nessun altro si muove.

    Nessuno tranne un vecchio con una lunga tunica grigia. Scalzo, i piedi incrostati di fango, ha grigi anche i radi, lunghissimi capelli lisci. Il volto è un teschio macchiato di ciuffi bianchi ispidi, senza ciglia né sopracciglia.

    Si affianca a Pietro, e si rivolge al cavaliere.

    Non sfidare Aponus, Bersano.

    Che ci fai qui, Gerione? Non immischiarti, togliti di mezzo.

    Ricorda il verdetto dei dadi. Non sfidare Aponus.

    Smettila, vecchio pazzo. Vattene, tu e il tuo dio, prima che dimentichi la pietà per i tuoi anni.

    Così dicendo, Buzzaccarini sposta la spada verso il volto di Gerione. Ma l’oracolo delle Terre calde non arretra. Invece alza le mani ossute, con gli indici levati.

    Uno, uno e uno. I dadi ti hanno risposto tre volte uno. Ricordi cosa significa, vero? Il colpo del cane: sventura. E ora tu stesso cerchi quella sventura. Lascia stare questa gente e torna a casa, o il vaticinio si compirà. Non sfidare Aponus!.

    Taci, per dio, taci, vecchio menagramo, o la sventura sarà la tua.

    La spada di Buzzaccarini è sopra la testa dell’oracolo.

    Non sfidare Ap...

    Gerione non termina la frase. Una piattonata sul capo lo fa cadere in ginocchio. Del sangue cola sulla tunica, Pietro si china a soccorrerlo. Un sasso e il grido Assassino! gli sibilano sopra la testa.

    Chi è stato? Prendetelo! ruggisce Buzzaccarini. Il ciottolo ha colpito il suo cavallo, che scalcia, sempre più agitato.

    Il calvo lancia la sua cavalcatura tra la gente. Rotea la mazza, la folla sbanda, ma la gran parte dei contadini non fugge. Uno, dalla casacca rossa, ha un’altra pietra in mano, e grida.

    Assassini! Avete rovinato Maria, il mio matrimonio, ci portate via tutto e avete anche ucciso un sant’uomo! Maledetti!

    Cesco è furioso come non sapeva di poter essere. E come non sarà più. Mentre sta per lanciare il secondo sasso, la mazza chiodata dell’armigero calvo gli sfonda la tempia destra. Crolla a terra senza un lamento. Attorno si fa il vuoto.

    Qualcun altro vuole giocare alla guerra? – grida Buzzaccarini – Ci sono altri eroi desiderosi di crepare davanti ai loro mocciosi, così imparano la lezione? Caricate quei carri e tornatevene a casa, se non volete che bruciamo subito i vostri tuguri... E tu, chi sei, donna? La sposa? O devo dire la vedova?.

    Maria sta camminando verso di lui e la folla si apre al suo passaggio. Ha la bocca e gli occhi spalancati, orbite nere di odio. La veste candida è striata di rosso. Le mani, macchiate del sangue di Cesco, sono protese verso il cavaliere.

    Il lanzichenecco e il calvo vorrebbero sbarrarle il passo ma sono attorniati da presso dai contadini, i cavalli non riescono a districarsi.

    Maria continua ad avanzare, incurante degli insulti e delle minacce di Buzzaccarini, dei richiami disperati della madre, del mormorio della folla.

    Si ferma solo di fronte a Bressano. E dalla sua gola esce un gorgoglio gutturale che si trasforma in un urlo altissimo, disarticolato e orribile.

    Muoriiiiiii, grida Maria con una voce che non sapeva di possedere, squassata dai fremiti, gli occhi arrovesciati, bianchi.

    Il cavallo di Buzzaccarrini s’impenna, cerca di colpirla con gli zoccoli, si alza quasi in verticale. Il cavaliere vacilla, è sbilanciato dalla spada, qualcuno gli sfila una staffa dal piede, perde la presa delle redini, viene disarcionato. Cadendo, il corpo descrive uno scomposto arco all’indietro e precipita sul carro che i due contadini stavano preparando.

    La sua bestemmia è troncata dalla stanga che gli sfonda la schiena. Ricade al suolo come un burattino rotto.

    Per un istante il tempo si ferma. La piazza è un presepe di statue rivolte verso il cavaliere disarcionato. E verso Maria, di fronte a lui, le mani insanguinate ancora alte.

    Poi tutto riprende vita. Buzzaccarini prova a rialzarsi, ma non ci riesce, sputa sangue, le gambe non gli ubbidiscono. Allora striscia verso la spada, ma i contadini gli si avvicinano, scalciano via l’arma. Spuntano dei bastoni, delle pietre nei pugni chiusi.

    Gli sono addosso e iniziano a colpirlo con la rabbia cieca del popolo in rivolta.

    Nel frattempo il lanzichenecco ha lanciato il suo cavallo verso il carro travolgendo chiunque si frapponga. Il calvo fa altrettanto, mena mazzate, grida. Le donne fuggono urlando verso i campi, qualcuno inciampa nel corpo di Cesco. Il padre di Maria prende la figlia per la vita e se la carica in spalla. Pietro trascina via Gerione. Il parroco s’inginocchia e traccia segni di croce in aria. Il mugnaio scappa inseguito da due ragazzi.

    Il lanzichenecco e il calvo cercano di arrivare al loro capo, ma la pressione della massa ostacola le cavalcature, sono bersagliati dalle fionde, più volte colpiti, si avvicinano dei forconi. Un rapido sguardo d’intesa, una salva di bestemmie e, colpendo alla cieca, riescono a girare i cavalli e a fuggire al galoppo.

    I contadini lanciano grida di vittoria, alzano i pugni al cielo. In uno è stretta una mano mozzata di Buzzaccarini. A terra rimangono decine di uomini, non si sa quanti morti. Mogli e madri si affannano a procurarsi acqua per lavare le ferite e strappano i vestiti per farne fasciature.

    Rosario sgombera dalle vettovaglie un carretto a due ruote aggiogato ad un asino e ne prende le redini, mentre Guidelmo ferma Pietro, che si stava allontanando con il vecchio oracolo barcollante.

    Vieni con noi, hai bisogno di qualcuno che ti guardi le spalle.

    Pietro, ancora sgomento, è interdetto. Poi accenna un sorriso e aiuta Gerione a salire sul carretto.

    Se proprio volete mettervi nei guai anche voi... grazie, andiamo, non dico di no.

    Ma fatti pochi passi, davanti a loro si para la famiglia di Maria.

    Portala via con te, presto, te ne prego. – implora Pietro il padre della ragazza, avvinghiata alla madre – Verranno a cercarla per vendicarsi, per ucciderla. Deve andare via anche lei, come te. Il paese vi proteggerà, cercheremo aiuto da Padova... ma adesso, per amor di Dio, portatela al sicuro.

    Pietro guarda la figura minuta, il vestito da sposa insanguinato, i visi stravolti dei genitori. Rivede la disperazione impotente di quel giorno lungo il sentiero, quegli occhi enormi che allora lo guardavano senza vederlo e adesso neppure osano mostrarsi. Fa un cenno ai due amici. Rosario prende in braccio la giovane e la posa delicatamente accanto a Gerione. La madre le sistema l’abito sulle gambe, le dona un’ultima carezza, tra le lacrime.

    Poi, mentre il gruppetto si allontana sulla via delle paludi calde, s’inginocchia in mezzo alla strada e prega.

    ‐ 4 ‐

    Pietro guida il carretto che procede lentamente, sobbalzando a ogni buca. Rosario cammina accanto all’asino, mentre Guidelmo sta di retroguardia.

    Ora tacciono, ma prima avevano detto a Pietro che erano orgogliosi di lui. Che si era comportato da uomo. Che Bressano aveva avuto quel che si meritava. Che i tempi erano cambiati, ora c’era la Comunanza, i signori dovevano stare attenti. E che in fondo era stato un incidente, nessuno aveva toccato Bressano, i Buzzaccarini avevano ben poco di cui vendicarsi. Ma, se proprio, in caso... e avevano mostrato i coltelli sotto la giubba.

    Pietro ha risposto a monosillabi.

    Guidelmo e Rosario sono vestiti a festa, camicia a maniche larghe e brache scure attillate. Roba comprata al mercato a Padova, mica fatta in casa. Sono alti e robusti, Guidelmo moro e Rosario rossiccio: eppure potrebbero essere fratelli. Le famiglie abitavano vicine, sulla via Galzignana, e i padri – uno moro e uno rossiccio – tornavano dai campi a orari diversi, perché lavoravano come braccianti in parcelle differenti. Così erano nati quattro figli in una casa e sei dall’altra, di alterne paternità. Ne erano sopravvissuti la metà, tutti maschi. Guidelmo e Rosario erano diventati i capi di una piccola banda in cui l’unico bambino con le scarpe era il figlio del messer notaio.

    Cacciavano rane per farne collane viventi con cui spaventare le bambine, poi, crescendo, avevano imparato a costruire archi con i rami di salice, frecce di nocciolo, reti di liane, trappole mimetizzate per il sottobosco. Le prede erano diventate bisce e vipere, lepri, fagiani e, una volta, un daino. Era caduto in una buca irta di legni appuntiti: trafitto, agonizzante, con i grandi occhi acquosi implorava aiuto e pietà. Ma mentre Rosario lo immobilizzava, Guidelmo lo aveva sgozzato. Pietro era rimasto inorridito e al contempo stregato dall’esplosione di quel fiotto quasi nero, caldo, che in un istante s’era portato via il respiro del daino. Il sangue è vita, aveva imparato.

    Da allora s’era trasferito definitivamente a Padova e dei due amici aveva ricevuto solo notizie sporadiche.

    Le ombre lunghe del tramonto primaverile, dolce e insensibile alle miserie umane, si staccano dal crepuscolo arancione. Maria è rimasta rannicchiata in un angolo del carretto, la testa tra le braccia, mentre Gerione si è ripreso e si guarda attorno, inquieto. Tra poco sarà buio, il buio che i viandanti evitano.

    Allontanandosi da Abano, i pochi contadini che camminavano nella loro stessa direzione sono scomparsi nelle casupole tra i campi, divenute sempre più rade e ora completamente sparite.

    La strada costeggia con ampie curve le estreme propaggini dei colli, avvolte di boscaglia già invisibile. Sull’altro lato, a meridione, l’ultimo sole colora ancora la pianura: prati verdi, campi arati marroni e sagome nere di alberi lontani. Pietro ha visto Venere accendersi in cielo, sorgere una mezza luna; vorrebbe accelerare e incita l’asino, ma senza risultati apprezzabili.

    Gerione si è rialzato e gli si siede accanto. Gli sussurra qualcosa, poi parla a voce alta.

    Dobbiamo dividerci. Per guadagnare tempo e metterci al sicuro. Dovete andarvene dal Pedevenda subito, stanotte.

    Sì, ma per rifugiarci dove? Pensavo a Torregia... dove mio padre amministra delle proprietà, i mezzadri ci daranno asilo.

    No, proprio per questo là ti cercheranno di sicuro. Ed è troppo vicino. Ascolta, invece: mi lascerete a casa, al Montirone, quindi proseguirete per Montagnon. Passato il castello che fu dei monaci di Nonantola, dovrete raggiungere le terme romane. Vicino alle rovine dell’anfiteatro troverete un edificio con delle colonne che pare abbandonato, ma voi busserete ugualmente. Così: prima tre volte, poi due, poi una...

    Ma gli uomini di Buzzaccarini arriveranno sicuramente al tuo tempio, ti tortureranno per sapere dove siamo diretti. Non possiamo abbandonarti, devi venire anche tu.

    Lasciami finire, giovane Pietro. Lasciati guidare dalla saggezza di Aponus. Anche se adesso credi nella magia che chiamano scienza, tu hai conosciuto il potere del nostro dio. E hai appena visto cos’è accaduto a Bressano... Allora, là giunti, consegnerete al suo destino, di cui altro non posso dirti, questa sfortunata fanciulla, e continuerete lungo le paludi calde fino al Monte della Stupa, l’ultimo colle di un gruppo disposto a ferro di cavallo. Era sacro agli antichi perché nelle sue grotte sgorga l’acqua risanatrice che viene dal seno della Grande Madre. Oggi è un luogo temuto, perché dicono comunichi con gli inferi, ma sono le solite paure diffuse dai sacerdoti delle nuove religioni, per sostituire i loro idoli agli dei primigeni. Per voi sarà un ottimo rifugio. Lì sarete alle porte di Battaja, dove inizia il canale scavato dai padovani, e troverai certamente una barca per la città. Là sarà più facile nasconderti .

    Piano, piano, Gerione – interviene Rosario, fermando bruscamente asino e carretto –. E noi? Dovremmo tornarcene a casa e abbandonare Pietro mentre quei tagliagole gli danno la caccia? E chi dice che quelli non correranno anche loro a Battaja? Il tuo dio dell’acqua calda?

    Non bestemmiare ciò che non comprendi, stolto! Proprio perché gli scherani di Buzzaccarini potrebbero arrivare fino all’imbarcadero voi dovrete restare a terra: per fuorviarli, andando altrove. Così coprirete la fuga del vostro amico e lo aiuterete. Se è ciò che davvero volete...

    Perché? Cosa vuoi insinuare, vecchio?! – si accende Rosario – Siamo compari di Pietro da quando eravamo così piccoli che le lucertole ci parevano mostri, ma noi le catturavamo e lui le apriva per vedere cosa c’era dentro. Credi che lo tradiremmo proprio ora? E dopo che tutta Abano ci ha visto partire assieme?

    Piuttosto – gli fa eco Guidelmo – chi ci assicura che non sarai tu a tradire? Che non ci mandi addosso quelle canaglie per salvarti? Pietro, io dico di liberarci subito dello stregone e fare a modo nostro, non quello che vuole lui.

    Calma, amici, calma. Nessuno tradirà nessuno. E per Gerione garantisco io. È vero: con voi ho passato i momenti più belli della giovinezza, ma grazie a lui ho scoperto la mia strada: scoprire i segreti della natura. Sì... quelli che cercavo pure nelle viscere delle lucertole. Quindi faremo così: Montirone ormai è vicino, lasceremo Gerione al suo tempio e Maria dove ci ha detto, poi si vedrà. Intanto andiamo avanti. Vai asino, oohh vai, issa!.

    Dietro di loro, in lontananza, una figura umana si rialza con circospezione da dietro il bordo della carreggiata.

    La strada adesso è leggermente soprelevata rispetto alle campagne circostanti. Dai fossati si alzano vapori grigiastri che sanno di putrefazione. Fa più caldo.

    Sulla destra, dopo una curva, appare una collinetta. Una foschia lattiginosa ne risale i fianchi, ricoprendo cespugli e alberi. In cima, nel cielo ormai color ferro, si staglia una colonna sormontata da un ampio braciere e avvolta dalle spire di due serpenti marmorei.

    La nebbia si leva dalle polle d’acqua che affiorano in diversi punti dell’altura, si addensa, si sfilaccia ed evapora, come una danza di spettri effimeri. Il liquido, caldissimo, scorre incanalato in sottili condotte di pietra a cielo aperto verso fessure in cui sparisce, ritornando alle profondità della terra.

    La collinetta è circondata di panche e banchetti disseminati di recipienti: tazze, anfore, grezzi vasi di terracotta e raffinati crateri greci. Alcuni manufatti d’argilla – mani, dita, nasi – sono omaggi votivi, gli altri servono ai pellegrini per bere o bagnarsi.

    È il colle di Montirone, sede dell’oracolo di Gerione, creato da Ercole in persona. Qui sgorgò per la prima volta l’acqua miracolosa che avrebbe portato fortuna e fama al Pedevenda.

    Negli anni, quando poteva, Pietro ha continuato a far visita al vecchio maestro. Gerione – l’attuale Gerione, che nei secoli se ne sono succeduti decine – come i suoi predecessori ha tramandato la leggenda delle origini della sorgente calda. Tra le tante, la storia che da ragazzino Pietro preferiva. Raccontava di come Euristeo avesse ordinato ad Ercole – giunto ormai alla decima fatica – di rubare i bellissimi buoi di un mostro con tre teste che viveva nella remota Tartesso, ai confini del mondo. Il furto riuscì, ma l’orribile ed esperto pastore seguì le tracce della sua mandria per mezzo mondo, finché non la raggiunse. Ercole, che pure nutriva rispetto per l’orco, fu costretto a ucciderlo, andando così oltre le consegne. Allora Era, la regina degli dei, infuriata, mandò uno sciame di mosche assassine ad ammazzare i buoi. Ma Ercole riuscì a sconfiggere anche quelle. Poi però, stanco di tanto combattere, si fermò a ritemprarsi con le acque medicamentose del luogo dov’era giunto, il Pedevenda. Diede il nome di Aponus – colui che toglie il male – al dio delle sorgenti calde venerato dalla la gente del posto, costruì un tempio in suo onore, e proclamò che da allora la divinità intrappolata sotto terra avrebbe parlato attraverso un custode: un indovino di nome Gerione che avrebbe divinato il futuro gettando nell’acqua magica dei dadi sacri, le trie.

    Pietro ferma l’asino, salta giù dal carretto e lo inclina per facilitare la discesa di Gerione. Ma il vecchio, in piedi sul pianale, esita, si ferma, sembra annusi l’aria, che puzza di uova marce. Poi, per tre volte, fa un largo gesto circolare con la mano sinistra attorno a Maria, ancora accoccolata nel suo angolo, infine scende anch’egli e si dirige verso la collinetta.

    Andate, presto: sta calando la notte con i suoi spiriti. Attenti a quelli dei crocicchi, che spesso sono malevoli. Vai, giovane Pietro, non temere per me, sono vecchio, ma difeso da Aponus, e non solo...

    In quel mentre, una figura spunta dal sentiero che aggira l’altura fumosa. Un uomo, che indossa una lunga tunica grigia come quella di Gerione, ma sembra il suo esatto opposto: la lanterna che tiene in mano illumina spalle larghe, capelli crespi neri, carnagione ambrata e braccia muscolose.

    Il prossimo Gerione sarà al mio fianco, se ce ne sarà bisogno, assieme alle forze che abitano sotto questa terra. Addio, andate!

    Senza dire una parola, il giovane robusto raggiunge l’anziano oracolo. Lo abbraccia, lo sorregge, e insieme s’incamminano lungo il sentiero, svanendo nella nebbia sulfurea.

    ‐ 5 ‐

    La strada che costeggia il Pedevenda ora è una tenue striscia grigia che, quando le nuvole nascondono la luna, quasi scompare. Nonostante i vapori, l’aria è più fresca. Proseguono verso occidente, Pietro e Rosario camminando ai lati dell’asino, Guidelmo dietro al carretto. Con l’oscurità hanno quasi smesso di guardarsi attorno: adesso l’allarme passa attraverso l’ascolto dei possibili rumori.

    Maria è una chiazza chiara nel cassone.

    Da tempo spia Pietro di nascosto. Ha il cuore e la mente scossi da un subbuglio sconosciuto. Se lui non si fosse opposto al cavaliere, Cesco sarebbe ancora vivo, forse la abbraccerebbe stretta, forse le avrebbe messo sulle spalle la sua giubba nuova per riscaldarla, forse, forse... Però quel giovane ha avuto il coraggio di accusare quella gente orribile davanti a tutti, lui sapeva tutto, li aveva visti, l’aveva vista, quel maledetto giorno. E adesso la stava portando in salvo. Non sapeva dove, ma si fidava di lui. Era diverso dai ragazzi di campagna, ignoranti e cattivi. Come quelli che quando la incontravano la umiliavano, mettendosi a quattro zampe, imitando i cani in calore. Pietro aveva occhi che vedono dentro, che vogliono sapere, sinceri. Era buono.

    Tu credi agli spiriti dei crocicchi, Pietro? rompe il silenzio Rosario quando, poco più avanti, ne scorge uno.

    Spesso, se la gente non capisce qualcosa, dà la colpa agli spiriti. E siccome, specie di notte, agli incroci si nascondono i predoni o si sbaglia strada, diventa colpa degli spiriti.

    Vuoi dire che demoni e spiriti sono solo creature degli stregoni?

    Non so, non lo so ancora. Sono questioni che vanno studiate a fondo, ignoriamo così tanto del mondo... Il male c’è, lo vediamo ogni giorno, ma è opera del diavolo o nasce con noi? Oppure proviene dagli astri, che tutto influenzano, compreso il carattere e le forme di un neonato? È merito delle stelle se... abbiamo un naso invece che tre?

    Macché nasi! – interviene Guidelmo veemente – Domenica il parroco ha fatto una predica di fuoco perché ha saputo che delle donne si erano radunate al plenilunio in non so quale incrocio. Ha detto che, dopo aver ballato in cerchio cantando inni sacrileghi, si erano denudate e si erano accoppiate con un caprone dagli occhi di brace e poi tra di loro, ululando come lupi... Altro che sbagliare strada! Erano possedute! E tu, Pietro, con tutte le tue domande senza risposte, sai perché il demonio preferisce i crocicchi? Perché hanno la forma della croce del Cristo, ma gettata a terra. Gli spiriti maligni ci sono eccome, lo sanno tutti.

    Guidelmo ha appena finito di parlare che il carretto giunge all’incrocio. Ma, proprio in mezzo, l’asino si ferma. Mentre Pietro e gli amici cercano inutilmente di smuoverlo, Maria si alza dritta in piedi. Non dice nulla ma, come un fantasma insanguinato, indica la strada a destra. Dove, lontana, balugina una luce incerta.

    "È il monastero

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