C'è aria di neve
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Anteprima del libro
C'è aria di neve - Valeria Bozzoli
Valeria Bozzoli
C’è aria di neve
UUID: ea6f9d70-2184-11e6-98a0-0f7870795abd
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)
un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Prologo
La casa padronale con la storia di Eva e attorno le case basse e uguali dei contadini, con le finestre strette.
E dietro ogni porta le storie di Anna, Virginia, Ines, di Iris, di Annetta o di Angela e di tutte le altre, figlie della povertà, della guerra ma anche della speranza e della ricostruzione.
Sono porte aperte alla vita quotidiana, condivisa nelle fatiche, nelle gioie e nei dolori.
Aperte ai sogni.
Il cerchio dell’aia come il cerchio della vita, dalla nascita alla morte, senza forzature.
La povertà così dignitosa e troppe volte perdente.
Non c’è bisogno di bussare per farsi aprire, non c’è bisogno di chiedere per raccontare, non c’è intrusione nell’intimità di alcuna.
Ognuna ha trovato chi nella famiglia, chi nel proprio talento, chi in una passione, chi in una delusione la forza di ribellarsi e trovare la propria strada con coraggio.
Anche Annetta, soprattutto Annetta.
Come solo le donne sanno fare, da sempre.
Quelle scarpe rosso corallo
Virginia se ne stava alla finestra ogni stagione, ogni giorno, ogni ora.
Rubava il tempo alle faccende di casa, ai lavori che sua madre le imponeva ogni mattina.
Non c’era molto da vedere in realtà, ma il niente era tutto.
Nella sua fantasia sapeva trasformare ogni cosa.
L’aia davanti era un palcoscenico di vita vissuta, ma per lei era il palcoscenico della sua vita futura.
Le lenzuola stese sui fili ad asciugare, pesanti di acqua e di fatiche, così ruvide e così preziose.
Solo una leggera brezza mattutina alzava gli orli man mano più leggeri.
Lei danzava tra quelle lenzuola, si lasciava avvolgere sfiorandole appena, rincorreva le ombre attenta a non lasciare segni.
Erano una ricchezza quelle lenzuola, la dote che ogni ragazza da marito si portava nella nuova casa con il matrimonio.
Per Virginia erano solo l’occasione di un momento giocoso, lei sola, ombra tra le ombre, con un’insofferenza verso quel mondo così uguale, senza nuove visioni, senza un futuro diverso. Guardare dai vetri era come porre un filtro alla realtà, le permetteva di starsene fuori, come uno spettatore, deformando le immagini, colorando i suoi pensieri, musicando i suoi sogni.
In realtà continuava a fare le stesse cose ogni giorno, né appassionata né infastidita.
A sua madre andava bene così. L’aiutava in casa, cresceva i fratelli più piccoli, come aveva fatto lei a suo tempo.
Per suo padre erano problemi di donne, niente più.
Aveva bei capelli, gli occhi scuri, un fisico asciutto, ma l’insieme era scialbo, senza personalità o più semplicemente un frutto acerbo.
Per questo non si guardava mai allo specchio, né cercava nel suo corpo un che da valorizzare. Preferiva guardarsi nei suoi vetri che le restituivano un’immagine sfuocata quasi bella. Con il sole riflettevano sui suoi capelli sfumature dorate, preziose.
Anche le nuvole in cielo ne uscivano deformate e trasformate.
Vedeva il mare attraverso i suoi vetri. Le nuvole in cielo erano le onde del suo
mare sconosciuto. Ne avevano i colori, quelli scuri della tempesta o le sfumature azzurre della quiete. Ne avevano le forme, una leggera rassicurante increspatura o un accavallarsi le une sulle altre, scivolando leggere nel nulla.
Ne avevano il profumo intenso o il gusto amaro della salsedine.
Il bianco spumoso delle nuvole era la schiuma biancastra del mare in tempesta.
Se mai un giorno l’avesse visto davvero il suo mare, sarebbe stato come rivedere il suo cielo, con gli stessi occhi, lo stesso entusiasmo, lo stesso stupore.
Adesso il suo futuro galoppava su quelle nuvole, leggero, gioioso, speranzoso.
Erano i vestiti che non aveva, erano carrozze e cavalieri, principi e principesse.
Sogni di bambina che crescevano con lei, faticosamente.
Né sua madre, né la scuola l’aiutavano in questo percorso. Solo lei e la sua fantasia.
Altro non c’era.
Le stagioni scandivano il passare del tempo, così come i prodotti della terra o come i lavori delle persone che conosceva, con una consuetudine che poteva essere certezza o soltanto una noiosa armonia.
Caterina aveva la sua stessa età, esile, capelli castani chiusi in una treccia sottile, infagottata in abiti troppo grandi.
Abitava due porte oltre la sua, stessa vita, stessi fratelli da accudire, stesse prospettive di futuro.
Eppure le bastava la messa della domenica, un nastro nei capelli ed era felice.
E quella bicicletta appoggiata al muro di casa.
Sempre allo stesso posto.
Lei l’avrebbe usata per un’ora al massimo o forse più. Senza tempo.
Quanto desiderava una bicicletta tutta sua, ma nemmeno a pensarci.
Di soldi in casa non ce n’erano, figurarsi poi per una bicicletta per lei.
Era un po’ alta con la fattura da uomo, il telaio macchiato di ruggine e la catena sporca e unta di grasso.
Ma ormai era talmente abile e sicura da saltare in sella con un guizzo, furtiva.
Anche lei era nata in quella grande corte.
Le case dei contadini erano basse e uguali, aperte più al freddo dell’inverno che al sole dell’estate. Umide, i muri delle stanze non riscaldate macchiati di muffa e le grandi cucine annerite dal fumo della stufa. Le finestre strette, con qualche fessura di troppo.
La sua casa era una stanza grande al piano terra e un corridoio pieno di tutto, un comò a ribalta per la farina, le uova in un cassetto, lo zucchero, le mele, le damigiane per il vino, la legna in un angolo ad asciugare. E in fondo portava all’orto e al pollaio.
Una scala stretta portava alle due stanze di sopra, una per le due figlie più grandi, l’altra per i suoi genitori e i due figli più piccoli.
Una casa modesta, una tavola modesta e un padre scontento che pure era capace di regalare una carezza sui capelli e un mandarino a Natale.
La domenica la cucina era una stanza diversa.
Un profumo di buono, di dolce e di pane appena sfornati.
Sua madre con il fazzoletto in testa e l’asse per la sfoglia che occupava la metà del tavolo. Al centro un cumulo di farina bianca e attorno a cerchio le uova.
E i fratelli attorno al tavolo in attesa.
E poi quel cumulo di farina si allargava sul tavolo e si ricomponeva a cerchio, vuoto al centro con le pareti alte a raccogliere quelle uova che sua madre rompeva una ad una con gesti antichi, rituali.
E lo sbattere ritmico della forchetta e la farina a pioggia e poi le mani ad impastare e quel panetto giallo e lucido, dorato, tondo e poi ancora piatto e poi sempre più largo e sottile.
Alla fine la sfoglia copriva tutta l’asse e avvolgendola sul lungo matterello la srotolava piano davanti alla finestra in controluce, per controllarne lo spessore, la fattura.
Solo allora la appoggiava con delicatezza sull’asse e per un attimo la ammirava compiaciuta e orgogliosa, così preziosa, così speciale.
Aveva il colore dell’oro, liscia e lucida come seta.
E loro lì incantati ad aspettare.
E finalmente i ritagli di sfoglia sulla piastra della stufa a cuocere, un po’ di zucchero sopra e pregustarne il piacere ogni volta.
Anche suo padre era un po’ meno ruvido ed ombroso.
Solo sua madre passando loro accanto li accarezzava con gli occhi e con orgoglio tagliava il pane e riempiva i piatti con gesti semplici e rassicuranti.
Uscire da quella corte era come uscire da quel mondo per entrarne in uno nuovo a portata di bicicletta.
Caterina poteva prendere la piccola strada in mezzo ai campi o l’altra più grande che portava verso la città.
Due mondi così diversi, l’uno più familiare e conosciuto, l’altro più lontano ma pieno di aspettative e di opportunità.
Ma dall’alto di quella bicicletta con la gonna che si alzava o si appiccicava alle gambe, i capelli sciolti, le braccia nude, anche la campagna le appariva diversa.
I moscerini sulla faccia, fermarsi all’ombra di un filare di gelsi, le more così dolci e succose e le labbra sempre più nere e appiccicose, le ciliegie sugli alberi in un’esplosione di colori e di sapori.
I piedi accaldati, rinfrescarsi nelle canalette dell’acqua, una sciacquata al viso, uno spruzzo nei capelli, e poi coricarsi a terra al sole, con gli occhi chiusi per il riflesso.
La bicicletta appoggiata con cura ad un albero.
Le stagioni della sua vita passata e quella a venire davanti