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«Non ora, prima voglio...»: Storia di una nuova armonia
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E-book193 pagine2 ore

«Non ora, prima voglio...»: Storia di una nuova armonia

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Info su questo ebook

Marco è un giovane uomo e si sta realizzando: è sposato, ha un figlio, pratica sport e ha da poco cambiato lavoro. Ma da qualche mese prova fastidio a respirare e ha continui dolori fisici. «Spera sia una brutta polmonite» gli dice un infermiere. Invece è altro. 
«Io ho quello che noi chiamiamo comunemente tumore?» chiede a una dottoressa.
«Sì» risponde lei. Quel sì cambia tutto.
È lʼinizio di un percorso chiamato cancro, che prevederà lunghe e pesanti terapie, miglioramenti, ricadute, tanti ricoveri, infiniti controlli, speranze, dolore, domande senza risposte e riflessioni a briglia sciolta.
Inizia un dialogo con se stesso, per prendere consapevolezza di ciò che sta vivendo, e con suo figlio, perché sappia, quando sarà grande, cosa ha vissuto il suo papo, e i valori che ha trovato il modo di trasmettergli. Il percorso di Marco non è ancora finito, ma di una cosa è sicuro: la sua non è la storia di una battaglia, non ha ricette segrete di felicità e non ha insegnamenti da dare.
È la storia di una nuova armonia.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2024
ISBN9791281462076
«Non ora, prima voglio...»: Storia di una nuova armonia

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    Anteprima del libro

    «Non ora, prima voglio...» - Marco Giardino

    Dedica

    di Milena Mancini, attrice

    e Vinicio Marchioni, attore

    Esistono i mostri del passato, del presente e quelli che ti mangiano da dentro. Forse quelli del passato possiamo riuscire a lasciarli andare, quelli del presente cercare con impegno di cambiarli.

    Ma quelli che ti obbligano a lottare per sopravvivere, e a ingerire veleno per estirparli, possono inaridirti, ti rubano non solo pezzi di carne, ma dell’anima. Nelle migliori delle ipotesi lasciano il fisico, ma possono rimanere incollati agli occhi, si può cedere alla cattiveria, all’egoismo e si può smettere di credere nei sogni.

    Perché la malattia è quel mostro che da dentro ti ruba l’oggi, il domani e i sogni. Il coraggio non risiede solo nel combattere una guerra, ma nel condividere i momenti più difficili, facendo diventare quel coraggio di tutti e aprirci gli occhi sulla vera essenza della vita. E Marco Giardino quel coraggio ce l’ha.

    Attraverso la sua penna è capace di condividere quel mostro che ha provato a mangiarselo vivo. Ha combattuto, ha resistito e ha cambiato pelle. Marco con amore e semplicità condivide la sua storia, che diventa di tutti e, pagina dopo pagina, anche il lettore diventa migliore e grato alla vita.

    Vita che spesso, troppo spesso, si lascia scivolare via senza dargli il valore che merita.

    Grazie Marco,

    con stima.

    Milena e Vinicio

    Prefazione

    di Antonio Giuliani

    comico, cabarettista e attore

    Nella mia vita ho sempre lavorato, fin da subito. Appena terminata la scuola dell’obbligo, a tredici anni mia mamma, come una sorta di datore di lavoro, mi disse che aveva parlato con l’inquilino del piano di sopra e che avrei iniziato a lavorare nei cantieri edili, un lavoro massacrante che ho fatto per diciotto anni.

    Poi con il tempo scoprii di avere delle qualità come attore comico e intrapresi la strada che mi ha portato al mio attuale lavoro. Ringrazio il Signore per avermi dato il privilegio di avere una madre onesta e amorevole, che mi ha cresciuto insegnandomi i valori della vita, soprattutto il rispetto della dignità umana. Ancora oggi, all’età di 84 anni, mia mamma mi ripete quel sano valore che mi disse la prima volta ben ventotto anni fa: «Ricordati, che se anche hai lavorato e sofferto tanto per arrivare dove sei arrivato, senza peraltro l’aiuto di nessuno, devi ridare indietro alla vita un po’ di quella fortuna che lei ha dato a te».

    Così, con gli anni, ho cercato di aiutare il più possibile quelle persone che sono meno fortunate di me, conoscendo storie di persone, e soprattutto di bambini, da farmi sentire veramente un uomo piccolo piccolo… e una di queste storie, che mi ha veramente colpito nell’anima, è quella di Marco Giardino. Così, quando tramite un’amica comune mi chiese di realizzare questa prefazione, accettai subito sperando di poter essere utile, nel mio piccolo.

    Be’, la cosa veramente incredibile è che telefonando per la prima volta a Marco, non sapendo lui se l’avrei chiamato o tanto meno se avessi accettato, quando rispose e mi presentai come Antonio Giuliani, sentii la sua felicità solo perché stava parlando con me, vi rendete conto?

    Una persona che soffre e lotta da anni contro una malattia terribile, sentirlo emozionato per questo, mi ha fatto capire ancor di più, che noi facciamo una tragedia anche solo per la cosa più futile che ci capita nella vita, che c’è chi per un semplice raffreddore fa del vittimismo lamentandosi di continuo!

    Così vi invito a leggere questo libro, per far tesoro della positività di Marco, ritenendoci fortunati ogni giorno per quel che abbiamo, senza mai dimenticare che c’è chi lotta ogni minuto contro malattie terribili, senza lamentarsi mai, e che desidererebbe avere solo un piccolo raffreddore.

    Antonio

    Capitolo I - La pallina oltre la linea

    Ricordo ancora la faccia del mio commercialista quando gli portai le fatture con le spese sanitarie del 2019: «A Marco ma che ti stai inventando? Ma ti sei sbagliato? Che è tutta ’sta roba?».

    «No Miche’, non mi so' inventato niente, magari... ho un po’ di acciacchi, che ne so...».

    Il mio primo ricovero nell’agosto 2019. Febbretta e debolezza, troppa. Tutto bene, mi dissero. Passerà. Nei mesi successivi la situazione invece peggiorò.

    Da mesi, la sera avevo difficoltà a respirare. Puntuale, tutte le sere, tra le 20 e le 20:30, a ridosso della cena, sempre uguale, rimanevo senza respiro, un dolore lancinante. Così, tra febbraio e settembre 2020, ebbi il mio periodo da pallina del flipper: rimbalzavo da una parte all’altra in cerca di spiegazioni e iniziai a sentire di tutto. Per me qualcosa nel mio corpo non andava.

    «Mangia meglio!».

    Analisi del sangue: sballate.

    Sospetto citomegalovirus da mononucleosi.

    Sospetta coda di qualcosa. Ce po’ sta’!

    Gastroenterite.

    Coda del citomegalovirus.

    Intolleranze a cibi.

    Cervicalgia.

    Ancora cervicalgia.

    Brutta cervicalgia.

    Iniziai a non credere più a ciò che mi dicevano.

    Stress.

    Intolleranza al dolore.

    Presunti attacchi di panico.

    «Te stai a fissa’!».

    Ancora: reflusso gastrico.

    Cure su cure.

    Cortisone su cortisone.

    Ripeti cure.

    Riprendi il cortisone.

    Cambia le cure.

    «Vai da questo medico, no, cambia medico, torna dall'altro, no quello no, sì quello è bravo, almeno era bravo, vai lì, no, no l'altro...».

    Poi ricordo un paio di voci differenti: la mia fisioterapista Azzurra, che mi dice: «Marco, questi bozzetti prima non li avevi, non mi piacciono! Te li ho trattati la settimana scorsa ma sono ancora qui, fatti controllare».

    La seconda è quella del mio amico Vincenzo Cardinale, professore e gastroenterologo all'Umberto I: «Marco, ma in tutto questo tempo ti hanno mai fatto una TAC? No? Ma è assurdo! Corri immediatamente a farla!».

    La frase che Vincenzo mi disse per telefono mi rimbombava nella testa. Perché non avevo fatto una TAC? Lo ammetto, sono uno di quelli che corre al pronto soccorso appena possibile. In tempi normali. Ma non vivevamo tempi normali. Era il 18 settembre 2020, in Italia e nel mondo c’era qualcosa chiamata pandemia e prima di andare al pronto soccorso bisognava passare telefonicamente per la guardia medica.

    Telefonate con la guardia medica.

    «È normale. Se ti passa succhiando un cubetto di ghiaccio è gastrite».

    «Se ti viene solo la sera è panico. Non esiste in nessun manuale di medicina nessuna patologia che ha sintomi ricorrenti alla stessa ora. Torna domani dal medico di base».

    Quanto vorrei riparlare con quel presunto medico!

    Subito dopo la telefonata con Vincenzo, dissi a mia moglie che sarei andato al pronto soccorso. I dolori continuavano a ripetersi, ma da qualche giorno accadevano due volte a sera. Stessi sintomi, ma ripetuti. Altre volte avevo preso cortisone e antidolorifici. Fin quando stavo sotto cura stavo bene.

    «Te stai a fissa’, lo vedi». Se stai bene non puoi stare male.

    Appena smettevo il cortisone, il dolore ricominciava a premere. Quel pomeriggio poi mi sentivo più debole del solito, per la prima volta feci veramente fatica ad arrivare alla mia auto, uscendo dal lavoro. Salitella infame spezza fiato per salire ai parcheggi delle terrazze, così le chiamano. Mi dovetti fermare tre volte per arrivare alla macchina, facendo finta di fare qualcosa al cellulare, non ce la facevo a respirare.

    «Vado al pronto soccorso» dico a mia moglie appena tornato a casa «ma mi sa che sarà lunga, tanto vale che ceno con calma».

    Raccontai al primo infermiere a cui consegnai la scheda all’ingresso tutti i rimbalzi che avevo fatto in veste di pallina del flipper.

    Lui era sbracato sulla sedia. «E mi vorresti far credere che stai così da tutto ’sto tempo e non hai ancora fatto ’na TAC? Non ci credo, devi cambia’ medico di base oppure stai raccontando cavolate. Vabbe’, comunque come da protocollo se hai la febbre e problemi a respirare vai al percorso Covid».

    Sì, erano mesi che la febbretta mi perseguitava. Di certo non poteva essere il Covid.

    «Sarei già morto se fosse Covid, che dici? O sono il primo ad aver contratto una variante non letale?».

    Mi opposi ad andare nel percorso Covid, avevo paura di contrarlo proprio lì, essendo già debole di mio. Riuscii a contrattare a gran fatica di restare nel tendone del percorso Covid. Lì, sul bancone delle infermiere che accoglievano i pazienti, notai uno schermo che riportava le immagini dall'interno del reparto Covid. Una sala piena di lettini addossati, altro che distanziamento sociale. Persone che attendevano l'esito del tampone molecolare per otto o dieci ore.

    Se finora non ho preso il Covid, lo prendo lì dentro. Io non ci entro.

    Sentivo di essere arrivato davanti a una linea di confine, oltre la quale la mia pelle era in pericolo. Non solo per il Covid, ma per la situazione in generale. Sei mesi che respiravo a fatica, febbretta continua, debolezza crescente da più di un anno. E soprattutto intense sudorazioni notturne che mi portavano a cambiare anche due magliette a notte e a girare e rigirare il cuscino. A questo punto era davvero solo l’anomalo caldo o la nuova casa all’ultimo piano con terrazzo sopra?

    Dovevo capire che cosa avevo.

    Mi sentivo come se stessi lentamente scivolando via. Come se un dolore crescente e sfiancante mi stesse trascinando. Avete presente quando d'estate al mare ti sdrai sul materassino, sei rilassato e vuoi solo riposare, ma la corrente ti porta al largo e non sai come tornare? Ecco, mi sentivo come se stessi su quel materassino e all’improvviso venissi riportato a riva, ma la spiaggia su cui approdo è una terra dura, piena di vetri e io sono scalzo.

    Eravamo in stallo, in un battibecco, pur se calmo e educato: le infermiere volevano farmi entrare nel reparto Covid e io resistevo. Arrivò una tizia con un'etichetta sul camice su cui lessi professoressa.

    Capirai pensai è arrivato pure il sergente!.

    Mentre continuavo a tenere il punto, circondato da camici bianchi, un'infermiera ebbe il coraggio di dire: «Professore’, in effetti non ha 37,5 di febbre».

    Silenzio.

    Non so se quell’infermiera oggi lavori ancora lì, vista la faccia che fece la professoressa. Ero riuscito a ottenere il permesso di passare la notte nel tendone, fuori. Una sorta di pre-sala d'attesa del Covid. Scelsi una sedia su cui attendere. Mi dicevo di toccare meno cose possibili per non prendere il Covid. La sedia era scomoda ma rimasi fermo, poi però mi sdraiai toccandone almeno altre due. Insomma, ’sto Covid me lo dovevo prendere.

    La notte stava passando e io ero rimbalzato lì, tra una visita e l'altra. Prelievi del sangue, controllo al cuore, TAC. Ancora pallina da flipper.

    Erano le quattro e mezza di mattina ormai, mi affacciai all’ingresso, con qualche preoccupazione addosso e riuscii a far sbilanciare un infermiere. Stava smontando dal turno e mentre andava via, voltandosi, mi disse di sfuggita: «Spera sia una brutta polmonite» e continuò a camminare verso la fine del corridoio.

    «Sennò?» chiesi, alzando il collo per mantenere il contatto visivo.

    «Eh, vatte a riposa’ che se non è quello so’ affari tua» disse senza voltarsi «è altro e prima che trovi la strada giusta... Non ti ho detto nulla!».

    Lui sparì e io rimasi fermo. Aprii la bocca per dire grazie ma non emisi alcun suono.

    Sperimentai il mio primo black-out in testa: avrò capito bene?

    La pallina stava per fare l’ultimo rimbalzo prima di iniziare a rotolare?

    Una volta al museo MAXXI vidi un’opera che mi colpì per la sua semplicità, la sua essenzialità, la sua inequivocabile verità. Era una pallina rossa poggiata in terra con accanto un cartellino che spiegava cosa fosse: Palla di gomma (caduta da due metri) nell'attimo immediatamente precedente il rimbalzo di Gino De Dominicis.

    La pallina era lì ferma, mentre tutti noi visitatori ci muovevamo, parlavamo, ci confrontavamo, osservavamo e lei rimaneva lì, ferma, silenziosa, immobile, ritratta in movimento prima del rimbalzo.

    In quel momento, alle quattro e mezza del mattino in una sala del pronto soccorso, io mi trovavo nell'istante esatto prima dell’ultimo rimbalzo verso l'inizio di una nuova, devastante vita.

    Passò ancora qualche ora. Vidi una dottoressa che usciva per comunicare a un ragazzo lì fuori la sua negatività al Covid. Approfittai per chiederle se ci fossero notizie che mi riguardassero. Non mi aspettavo affatto di essere positivo al Covid, semmai mi aspettavo una bella polmonite, come aveva detto quell’infermiere. Sicuro, polmonite, due settimane di antibiotico, un mesetto sotto controllo, niente sport per un po’ e pure questa sarebbe passata. Questo speravo, anche se tutti i tasselli tornavano alla mente e nell’anticamera dell’anticamera del cervello iniziava a plasmarsi qualcosa che non potevo non sentire. Era un dolore strano, un dolore grande, diverso e mai sentito prima.

    «Dottoressa, ci sono novità?» le chiesi con gli occhi appiccicati dal sonno, quasi zompettando, pronto per tornare finalmente a casa.

    «Ah, lei è Giardino?» rispose.

    Facevo fatica a sentirla: aveva una doppia mascherina e la visiera, ed eravamo vicini a dei motori, forse dell'aria condizionata o forse ventole, non so, so solo che erano giganti, di quelli che fanno vuuuuuuu tutto il tempo e sparano aria h.24, immensi, tutto iniziava a essere grande, più grande di me. Facevano un gran baccano e tra i motori, le mascherine e il sonno non capivo quasi niente. Però ero contento di essere in quel casino piuttosto che nel reparto Covid.

    «Sì sono io» urlai.

    «Giardino lei ha un Sivuuumovvuuuuupssssmam».

    «Cosaaa? Non la sentooo» risposi e mi avvicinai a lei con l'orecchio.

    «Un CivuuuMOvu, è gichin seria».

    «Mi scusi, cosa ha dettoooo?». Facevo fatica a sentire la mia stessa voce. Misi l'orecchio praticamente all'altezza del suo petto.

    Manname a casa che so’ stanco dissi a me stesso solo ’sto motore me sta a fa’ veni’ il mal di testa....

    A quel punto avevo orecchio, spalla e occhio destro verso il suo volto. Dovevo capire bene, così potevo tornare a casa a dormire. La dottoressa si allargò la seconda mascherina e scandì una parola di cui non conoscevo il significato, ma il suo sguardo era serio e iniziò a spiegarmi cosa fosse con parole dal suono scientifico. La cosa iniziava a non piacermi.

    Dovevo capire. Dovevo tirare una linea e capire se mi trovavo di qua, al sicuro, oppure di là, non al sicuro. Non so se vi capita di abbassare o alzare il livello di attenzione quando parlate con una persona, per capire se si deve reagire a ciò che dice, oppure continuare a rimanere comodi nel proprio raggio d'azione. Realizzai che dovevo impegnarmi di più, scomodarmi e abbandonare l'idea che il mio obiettivo fosse tornare a casa a dormire. Davanti avevo una persona tutta bardata di bianco che mi stava dicendo qualcosa di importante e io la sentivo poco e la capivo meno.

    Dovevo fare una domanda secca che implicasse un o un No come risposta. Dovevo far luce per capire, così presi un bel faro e lo puntai verso di me e con molta fermezza dissi: «Un attimo, non conosco le parole che sta usando. Io ho quello che noi persone comuni chiamiamo tumore?».

    Annuì e disse: «Sì. Chiami sua moglie e quando arriva ci chiami, ci parliamo noi non lei».

    Continuò a parlare, aggiunse altro ma io

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