Salve amici della notte, sono Porzia Romano - Contiene la pièce teatrale “Salve amici della notte, sono Tullio Romano”
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In un racconto che dura una notte, negli stralci di un diario e un’intervista radiofonica non programmata, la protagonista si racconta, denunciando una mala sanità e le sofferenze fisiche e psicologiche che ha dovuto subire negli anni.
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Anteprima del libro
Salve amici della notte, sono Porzia Romano - Contiene la pièce teatrale “Salve amici della notte, sono Tullio Romano” - Rita Angelelli
Angelelli
Prefazione
Sono in viaggio. Uno dei miei soliti, purtroppo. Un viaggio che aggiunge nuova sofferenza a quello che già mi porto dentro. Ho passato anni bui alla rincorsa di una vita migliore e mi sono trovata ad affrontare da sola un sacco di imprevisti.
Eppure qualcosa ho imparato.
Ho imparato a fuggire dalle aspettative, non servono a un cazzo.
Ho imparato che, se vuoi il bene, devi per prima cosa volerti bene.
Ho imparato che la sofferenza aiuta a crescere e a guardare gli altri con occhi diversi.
Ho imparato ad accettare i cambiamenti, anche quelli negativi.
Adesso è vero che qualcosa è cambiato, ma il dolore è sempre presente. È un dolore che mi attanaglia le viscere e sale dal ventre fino al cervello. E quando va così, i pensieri sono cattivi, sempre. E non rendono la mia vita migliore.
Qualcuno mi ha detto che ho sempre l’aria di una che ce l’ha con il mondo intero. Ed è vero! Ma vorrei vedere loro nei miei panni, soprattutto le persone che mi guardano con invidia.
Non sopporto i pietismi e spesso preferisco mostrare la rabbia piuttosto che il dolore, o la solitudine, o tutto quello che mi fa piangere. Non passa giorno senza che io versi lacrime; sono la mia liberazione, il mio sfogo. In quel momento sento scorrere la vita, sento il pianto scendere sul mio volto ed è come se riuscissi a espellere le tossine, il veleno che invade il mio corpo. Ho paura della sofferenza, ma non ho paura della vita, ho solo il timore di non poter accompagnare i miei figli verso una vita migliore.
La malattia è una brutta bestia, più della morte a volte. Quando sei morto almeno non soffri più, non senti più il peso degli sguardi altrui; quando sei morto qualsiasi specchio è inutile… come può un morto vedere il proprio riflesso?
A volte penso che sarebbe stato meglio che fossi davvero morta durante quel lungo periodo passato in ospedale, invece, nonostante tutto quello che ho passato, sono ancora viva. E mi guardo.
E quello che vedo non mi piace. Non perché sono grassa e non esattamente bella, o perché non sono più giovane, o perché non credo di essere l’ideale di donna che un uomo sognerebbe. Non mi piace quello che vedo perché, se tolgo i vestiti, nel riflesso dello specchio mi appare un corpo deturpato da mani incapaci. E dire che mi ero affidata a un professionista serio. O almeno, lo credevo serio.
Quando andai da lui per la prima volta per una visita specialistica, avevo un sacco di speranze. Me lo avevano dipinto come un chirurgo esperto, dicevano che era un genio e aveva il bisturi magico. Nella sala d’aspetto del suo studio in centro città, all’interno di un palazzone antico ma ristrutturato alla perfezione, di magnifica fattura, vidi appesi alle pareti un sacco di diplomi e una serie infinita di attestati di specializzazione, ottenuti negli anni in università spesso estere e con nomi altisonanti e impronunciabili, tra cui una del Texas, tra le migliori in campo estetico e ricostruttivo.
Mi son detta: Caspita, questo mi rifà nuova. Detto fatto. Dopo una visita accurata mi informò che mi avrebbe operata di persona assieme alla sua équipe; che avrebbe studiato come rimuovere le cisti infette e quindi come ricostruire l’apparato genitale, in modo da arginare il progredire della mia malattia.
Sono entrata in ospedale con tanto coraggio e la speranza di una guarigione. E invece è stato l’inizio di un lungo calvario che dura ormai da sette anni.
A distanza di qualche anno da quel 2008, la malattia, parzialmente regredita, suonò di nuovo il suo campanello di allarme. Stavolta al seno. E lui, quello stesso medico che ancora mi curava con medicinali che il mio fegato cominciava a rifiutare, mi disse che avrebbe provveduto a una riduzione mammaria: dovevo stare tranquilla, avrebbe pensato lui a risolvere ogni cosa.
Io mi sono fidata, ho messo tutta me stessa nelle sue mani. E lui ha combinato un bel disastro.
Qualcuno mi ha detto che me la sono voluta. Ha aggiunto anche che, quando ormai sei destinata a una certa vita, non puoi far nulla, devi soccombere e rassegnarti.
Stronzate!
C’è quindi chi pensa che avrei dovuto accettare tutto senza cercare di cambiare lo stato delle cose.
Puttanate!
Mi hanno anche fatto capire che ad andare contro i mulini a vento a testa bassa si ottiene solo di farsi male.
Che stupidaggine!
Che dicano pure quello che vogliono!
Io oggi sono qui a combattere contro l’insolenza e la superficialità di un medico che non ha saputo trattare con la sua paziente, a lottare contro una sanità che non riconosce appieno la mia menomazione, contro una società che non vede in una deturpazione fisica la presenza di un danno morale.
Che ne sanno i periti delle assicurazioni di quanti specchi ho dovuto togliere dalla mia casa per non essere più costretta a vedere le cicatrici che segnano il mio corpo?
Che ne sanno l’ospedale e i