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Andata e ritorno
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E-book129 pagine1 ora

Andata e ritorno

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Info su questo ebook

Scrivendo questo libro voglio far sapere alle persone come superare gli eventi che bloccano momentaneamente la loro vita.

Si parla dell’esperienza di premorte e si parla della figura del Narciso manipolatore.

Due tematiche in certi casi all’ordine del giorno specialmente la seconda, che troppo spesso sfocia in episodi di cronaca nera.

In questo libro cerco di dare ai lettori degli indizi per ritrovare la pace e se stessi dopo un’esperienza forte come quella della premorte e come riuscire a perdonarci per aver accettato la violenza subita:

- Come capire i segnali

- Come prendere in mano la propria vita

- Come rinascere una seconda volta
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2020
ISBN9788831670463
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    Anteprima del libro

    Andata e ritorno - Paola Fendoni

    Bio­gra­fia

    AN­DA­TA E RI­TOR­NO

    Ro­man­zo

    di Pao­la Fen­do­ni

    TI­TO­LO | An­da­ta e Ri­tor­no

    AU­TO­RE | Pao­la Fen­do­ni

    ISBN | 978-88-31670-46-3

    Pri­ma edi­zio­ne di­gi­ta­le: 2020

    © Tut­ti i di­rit­ti ri­ser­va­ti all'Au­to­re.

    Que­sta ope­ra è pub­bli­ca­ta di­ret­ta­men­te dall'au­to­re tra­mi­te la piat­ta­for­ma di sel­fpu­bli­shing You­can­print e l'au­to­re de­tie­ne ogni di­rit­to del­la stes­sa in ma­nie­ra esclu­si­va. Nes­su­na par­te di que­sto li­bro può es­se­re per­tan­to ri­pro­dot­ta sen­za il pre­ven­ti­vo as­sen­so dell'au­to­re.

    You­can­print Self-Pu­bli­shing

    Via Mar­co Bia­gi 6, 73100 Lec­ce

    www.you­can­print.it

    in­fo@you­can­print.it

    Qual­sia­si di­stri­bu­zio­ne o frui­zio­ne non au­to­riz­za­ta co­sti­tui­sce vio­la­zio­ne dei di­rit­ti dell’au­to­re e sa­rà san­zio­na­ta ci­vil­men­te e pe­nal­men­te se­con­do quan­to pre­vi­sto dal­la leg­ge 633/1941.

    Chi ta­ce e pie­ga la te­sta muo­re ogni vol­ta che lo fa, chi par­la e cam­mi­na a te­sta al­ta muo­re una vol­ta so­la. (Gio­van­ni Fal­co­ne)

    Non è mai sta­ta mia in­ten­zio­ne in­se­gna­re al­le per­so­ne o di­re lo­ro co­me vi­ve­re, né mi pia­ce da­re con­si­gli sui cam­bia­men­ti ne­ces­sa­ri, nem­me­no se me lo chie­do­no.

    Pre­fe­ri­sco piut­to­sto gui­dar­le dan­do quel­lo che ri­ten­go un buon esem­pio e crea­re un am­bien­te si­cu­ro af­fin­ché pos­sa­no en­tra­re in con­tat­to con la lo­ro ve­ri­tà per­so­na­le.

    Nel ca­so di que­sto li­bro, ho vo­lu­to con­di­vi­de­re la mia sto­ria spe­ran­do di es­se­re d’aiu­to per tut­te le don­ne che stan­no at­tra­ver­san­do il mio stes­so cal­va­rio. E so che, pur­trop­po, so­no tan­te.

    Pri­ma di con­di­vi­de­re quel­lo che ho im­pa­ra­to dal­la mia espe­rien­za vor­rei pre­ci­sa­re che non ri­ven­di­co as­so­lu­ta­men­te nes­su­na ve­ri­tà uni­ver­sa­le o scien­ti­fi­ca, né vo­glio as­su­me­re il ruo­lo di scia­ma­no spi­ri­tua­le.

    Il mio uni­co sco­po è quel­lo di aiu­ta­re, non di con­vin­ce­re.

    Si vi­ve so­lo due vol­te. Una vol­ta quan­do si na­sce e una vol­ta quan­do si guar­da la mor­te in fac­cia.

    (Ian Fle­ming)

    Era il 29 mar­zo del 1999: una da­ta che re­ste­rà im­pres­sa nel­la mia me­mo­ria co­me il gior­no in cui, a 34 an­ni, so­no mor­ta e ri­na­ta. Quel­la not­te ar­ri­vai in co­ma in Pron­to Soc­cor­so.

    Seb­be­ne fos­si in uno sta­to d’in­co­scien­za, ero con­sa­pe­vo­le di tut­to ciò che suc­ce­de­va at­tor­no a me, com­pre­sa l’ur­gen­za che la mia pa­to­lo­gia im­po­ne­va e la fre­ne­sia del per­so­na­le. Quel­lo che non sem­pre ac­ca­de in que­sti ca­si è che, a un cer­to pun­to, fu co­me se la mia co­scien­za aves­se de­ci­so di se­pa­rar­si dal cor­po fi­si­co. Fu co­me sdop­piar­si, e l’al­tra me ini­ziò a sol­le­var­si, e a guar­da­re dall’al­to tut­to ciò che mi sta­va ca­pi­tan­do. Sta­vo vi­ven­do quel­la che mol­ti de­fi­ni­sco­no una "espe­rien­za

    ex­tra­cor­po­rea". In­cre­di­bi­le che la pro­ta­go­ni­sta sta­vol­ta fos­si pro­prio io.

    Ve­de­vo me­di­ci e in­fer­mie­ri af­fac­cen­dar­si at­tor­no al­la mia ba­rel­la, sen­ti­vo le ur­la, gli or­di­ni im­par­ti­ti e quel­li ese­gui­ti; le fac­ce pre­oc­cu­pa­te, le espres­sio­ni di scet­ti­ci­smo e quel­le di com­pas­sio­ne. È un la­vo­ro du­ro, quel­lo nei Pron­to Soc­cor­so… for­se non ci si abi­tua mai. Ave­vo pau­ra? No, non di­rei.

    Si sta­va be­ne las­sù, e non c’era più do­lo­re. Non è du­ra­to mol­to, all’im­prov­vi­so qual­co­sa mi ha ri­chia­ma­ta den­tro e co­sì, non pro­prio per mia espres­sa vo­lon­tà, so­no tor­na­ta in quell’in­vo­lu­cro di car­ne, os­sa e sof­fe­ren­za.

    In quei mo­men­ti ca­pii che, an­che se il mio cor­po si era fer­ma­to, ogni co­sa era per­fet­ta nel gran­de af­fre­sco del­la vi­ta.

    Per­ché non mo­ria­mo mai ve­ra­men­te.

    Men­tre ero bloc­ca­ta in quel let­to d’ospe­da­le, ri­cor­di fram­men­ta­ri mi si af­fol­la­va­no nel­la men­te: un al­ter­nar­si di ri­cor­di del­la me bam­bi­na e di quel­la adul­ta, un qual­co­sa di or­mai lon­ta­no nel tem­po che si so­vrap­po­ne­va a ri­cor­di vi­vi­di, re­cen­ti. Nel mar­zo dell’an­no pri­ma mi ero se­pa­ra­ta dal pa­dre di mia fi­glia, e an­co­ra cer­ca­vo di ge­sti­re do­lo­re, de­lu­sio­ne, rab­bia, im­po­ten­za, tut­te emo­zio­ni che non ave­vo an­co­ra ela­bo­ra­to, tan­ti per­ché sen­za an­co­ra ri­spo­ste, quel­le ri­spo­ste che in fon­do già co­no­sce­vo ma che mi ri­fiu­ta­vo di ac­cet­ta­re per pau­ra di do­ver am­met­te­re un fal­li­men­to, e un’al­tra vi­ta da ri­co­min­cia­re.

    Poi tut­to si oscu­ra e mi ri­tro­vo bam­bi­na spen­sie­ra­ta, con la vo­glia di sco­pri­re il mon­do, cu­rio­sa di ca­pi­re, di sa­pe­re e co­no­sce­re la vi­ta.

    Un’in­fan­zia in par­te tran­quil­la e fe­li­ce, ma an­che fra­sta­glia­ta da ri­cor­di tri­sti, a vol­te do­lo­ro­si… La ma­lat­tia di mia mam­ma che spes­so la co­strin­ge­va in ospe­da­le, e l’am­bu­lan­za che la por­ta­va via. Io e le mie so­rel­le, quan­do rien­tra­va­mo da scuo­la non sa­pe­va­mo mai se l’avrem­mo tro­va­ta. E ogni vol­ta era do­lo­ro­so; io ave­vo so­lo 8 an­ni e den­tro mi re­sta­va un do­lo­re in­fi­ni­to, la­ce­ran­te. Mio pa­pà ci ac­com­pa­gna­va a tro­var­la in ospe­da­le a Mi­la­no tut­te le do­me­ni­che, ma ca­pi­ta­va che do­ves­se ri­ma­ner­ci an­che me­si. Quan­do poi fi­nal­men­te tor­na­va a ca­sa era una fe­sta: al­la do­me­ni­ca ci pre­pa­ra­va i no­stri piat­ti pre­fe­ri­ti e il dol­ce non man­ca­va mai… Pur­trop­po il lu­ne­dì, quan­do si ri­tor­na­va a scuo­la, ri­tor­na­va an­che l’in­cu­bo di non po­ter­la ri­tro­va­re al rien­tro.

    Per quan­to ri­guar­da­va il mio fu­tu­ro e la vi­ta che avrei de­si­de­ra­to, sen­ti­vo già da ra­gaz­zi­na che la stra­da den­tro di me era già ben chia­ra e de­li­nea­ta ma la fret­ta, la non ac­cet­ta­zio­ne del­le re­go­le, il non vo­ler es­se­re sot­to­mes­sa a im­po­si­zio­ni ge­ni­to­ria­li, tut­to que­sto mi ha por­ta­ta a sba­glia­re de­vian­do il per­cor­so che era già sta­to trac­cia­to. Ca­ta­pul­ta­ta a so­li 21 an­ni in un ma­tri­mo­nio che non era ciò che de­si­de­ra­vo so­lo per scap­pa­re da quel­lo che cre­de­vo di non po­ter in quel mo­men­to cam­bia­re; trop­po im­ma­tu­ra, in­si­cu­ra, fra­gi­le, ho ca­stra­to la mia vi­ta met­ten­do nel cas­set­to il so­gno di en­tra­re in Po­li­zia, un qual­co­sa che an­co­ra og­gi fa tan­to ma­le. Ter­mi­na­te le me­die sa­pe­vo be­nis­si­mo co­sa fa­re, nel­la mia vi­sio­ne mi ve­de­vo un’adul­ta ispet­tri­ce di po­li­zia; Dio, quan­to ho ama­to quel­la vi­sio­ne, ho sem­pre cre­du­to che aven­do un ca­rat­te­re for­te ed es­sen­do li­gia al­le re­go­le quel­la sa­reb­be sta­ta la pro­fes­sio­ne adat­ta a me. Ri­cor­do di es­se­re an­da­ta in Que­stu­ra con mio pa­dre a pren­de­re in­for­ma­zio­ni in me­ri­to; io già fa­ce­vo ar­ti mar­zia­li per pre­pa­rar­mi al­la fu­tu­ra car­rie­ra, ma ave­vo al­tre scuo­le da fa­re pri­ma di ar­ri­va­re al mio so­gno. Non è an­da­ta co­sì, pur­trop­po.

    In­trap­po­la­ta in una vi­ta mol­to di­ver­sa da co­me me l’aspet­ta­vo e, peg­gio, in­ca­pa­ce di di­re ba­sta per pau­ra di cam­bia­re di­re­zio­ne.

    E co­sì, in quel let­to d’ospe­da­le, i ri­cor­di dell’in­fan­zia ini­zia­ro­no a so­vrap­por­si al­le mie vi­sio­ni, quel­le che già da bam­bi­na mi fa­ce­va­no ve­de­re le co­se pri­ma che ac­ca­des­se­ro.

    Co­me pos­so spie­gar­mi tut­to ciò?

    Le mie vi­sio­ni pur­trop­po non era­no qua­si mai al­le­gre: in li­nea di mas­si­ma era­no vi­sio­ni di mor­te. Ti­po che po­co pri­ma di man­ca­re, le per­so­ne con le qua­li ave­vo avu­to un con­tat­to ve­ni­va­no a far­mi vi­si­ta, a sa­lu­tar­mi; su­bi­to do­po ar­ri­va­va la no­ti­zia che Ti­zio o Ca­io era mor­to. Non era­no tut­te co­sì, a vol­te era­no co­me pre­mo­ni­zio­ni, fla­sh sul fu­tu­ro. Ri­cor­do be­nis­si­mo un gior­no in cui ero con i miei ge­ni­to­ri che all’epo­ca ave­va­no un al­le­va­men­to di pol­li. Ero in quin­ta ele­men­ta­re, e sta­vo an­dan­do con lo­ro a ven­de­re le uo­va. Ri­cor­do che, pas­san­do da­van­ti a una vil­let­ta dis­si a mia ma­dre Io quan­do sa­rò gran­de abi­te­rò lì, in quel­la ca­sa. La co­sa stra­na era che non co­no­sce­vo af­fat­to i pro­prie­ta­ri di al­lo­ra. An­ni do­po, quan­do ero al­le su­pe­rio­ri, co­nob­bi quel­lo che sa­reb­be di­ven­ta­to mio ma­ri­to ed era pro­prio lì che abi­ta­va, in quel­la vil­let­ta che da bam­bi­na ave­vo in­di­ca­to a mia ma­dre co­me la mia fu­tu­ra ca­sa.

    Un’al­tra vi­sio­ne che eb­bi da bam­bi­na ri­guar­da­va un so­gno. So­gnai che men­tre pas­seg­gia­vo con mia cu­gi­na di ri­tor­no dal­la scuo­la, ci fer­ma­va un uo­mo. Non ri­cor­do i par­ti­co­la­ri ma le sen­sa­zio­ni sì: an­go­scia e pau­ra, per­ché era co­me se mi vo­les­se ra­pi­re. Il gior­no do­po, pro­prio rien­tran­do da scuo­la con mia cu­gi­na, un’au­to si fer­mò sul la­to de­stro del­la stra­da e un uo­mo mi chie­se del­le in­for­ma­zio­ni: in quel mo­men­to la real­tà si spen­se e io vi­di chia­ra­men­te la por­tie­ra che si apri­va e del­le brac­cia che mi af­fer­ra­va­no. Mi mi­si a gri­da­re scap­pia­mo, scap­pia­mo! e fug­gim­mo co­me due as­sa­ta­na­te ver­so ca­sa, do­ve spie­gai a mio pa­dre cos’era suc­ces­so. Lui chia­mò la po­li­zia e de­nun­ciò

    l’ac­ca­du­to; qual­che gior­no do­po ci dis­se­ro che que­gli in­di­vi­dui era­no sta­ti fer­ma­ti e ar­re­sta­ti per­ché no­ti ra­pi­to­ri di bam­bi­ni.

    Mi tor­na in men­te un al­tro epi­so­dio di me bam­bi­na, per cer­ti ver­si di­ver­ten­te quan­to im­ba­raz­zan­te per i pro­ta­go­ni­sti. Era una tran­quil­la gior­na­ta d’esta­te, io an­da­vo al­le ele­men­ta­ri, la scuo­la era fi­ni­ta ed ero a ca­sa con la mam­ma. Og­gi ven­go­no del­le per­so­ne a tro­var­mi: mi rac­co­man­do, non far­mi fa­re brut­ta fi­gu­ra si rac­co­man­dò e io ov­via­men­te la tran­quil­liz­zai. An­dai in ca­me­ra mia a gio­ca­re e ri­cor­do a un trat­to di aver sen­ti­to del­le vo­ci fa­mi­lia­ri per­ciò mi av­viai in cu­ci­na. Mia mam­ma era lì con una cop­pia di si­gno­ri: mi sba­glia­vo, non ave­vo mai vi­sto

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