Quei sette giorni di rabbia e gioventù
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Anteprima del libro
Quei sette giorni di rabbia e gioventù - Enrico Anastasi
11
1
Non è certo passata un’eternità, ma ricordo ancora con grande nostalgia i tempi del liceo, quando durante le lezioni chiedevo al professore di turno il permesso di andare in bagno, e allora andavo a fumarmi una bella sigaretta trasgressiva, quella sigaretta che non mi era lecito fumare perché ero minorenne e perché ero a scuola e perché era un vizio e per tutti gli altri cazzo di motivi di cui a me non importava niente. Perché la sigaretta era un piacere, ed era un piacere ancora più grande fumarla con quel senso di trasgressione addosso, magari in compagnia dei ragazzi delle altre classi che condividevano assieme a me quell’atmosfera da uomini all’interno di un cesso sempre lordo, con le porte distrutte e le discussioni improntate alla volgarità e alla blasfemia, quasi senza neanche un filo logico.
Bei tempi, quelli. Nessuna responsabilità, nessun pensiero.
Cazzate.
Le responsabilità c’erano pure allora, né mancavano le preoccupazioni. Detestavo sentir dire frasi del tipo vorrei avere io la tua età, senza pensieri, e in quelle occasioni – inutile nasconderlo – avrei voluto mandare tutti affanculo.
La convinzione di chi afferma che gli adolescenti non abbiano cose importanti per la testa denota ignoranza e scarsa comprensione del mondo giovanile. E, diciamocelo, anche un poʼ di memoria corta. In quella fase abbiamo o abbiamo avuto tutti i nostri pensieri. E non cʼè cosa che avvenga in quel periodo che non possa essere considerata fondamentale per la propria crescita – è quello il tempo in cui si impara a reagire alla vita.
Allora erano trascorsi soltanto due anni, ma sembrava passata davvero un’eternità. Due anni e un mesetto circa, facendo bene i calcoli: gli esami orali erano caduti il 6 luglio, e quel giorno il calendario riportava la data del primo di agosto, per cui ero uscito da quella merda di scuola da settecentotrenta giorni e poco più.
Erano successe tante cose, nel frattempo. In primis, lʼuniversità. Giurisprudenza. Avrei voluto fare Medicina, a dire il vero – avevo anche seguito dei corsi preparatori in vista dei test d’ingresso buttando all’aria un’estate intera, ma la graduatoria finale non mi aveva premiato e allora avevo ripiegato su un incerto futuro da avvocato, sperando che mio padre campasse ancora per una quindicina d’anni per potermi avviare alla carriera senza problemi di sorta.
Il mio sogno, lʼavrete capito, non era proprio l’avvocatura. Il mio sogno, però, era fare soldi. Non che avessi problemi di denaro, per carità: mio padre, avv. B., mi aveva fatto vivere fino ad allora nel massimo agio. Ma papà non sarebbe campato in eterno; il suo cuore aveva iniziato a fare le prime bizze, e ʻbizzeʼ era un termine eufemistico dal momento che nellʼultimo decennio era sopravvissuto a due infarti ed era in grado di raccontarlo agli amici del bar per il miracolo di chissà quale santo che si era intestardito a salvaguardarlo. Per non parlare del fatto che da un po’ di tempo a quella parte sentivo il suo alito puzzare di alcool – non lo trovavo ubriaco ma certo la lucidità che dimostrava era ridotta al lumicino quando s’incazzava perché non mi ero impegnato abbastanza nello studio di quella ciofeca di materia nella quale avevo portato a casa un bel 27, e, cazzo!, 27 è un ottimo voto anche se ottenuto con un piccolo aiutino dettato dal cognome abbastanza noto tra i professori universitari.
E poi, mia madre. Le avevano diagnosticato un tumore all’utero, qualche mese prima. Che bellezza. Si era fatta operare a Roma, aveva iniziato la chemioterapia ed era scesa giù a Messina poco prima di Natale, poi era risalita, era ridiscesa e sarebbe dovuta tornare nella capitale dopo l’estate per altri controlli. Continuavo a dire ai miei amici che stava bene, quando me lo domandavano, che era sulla via della guarigione, ma da un anno ripetevo le stesse frasi e, tra i continui saliscendi nord-sud di mia madre, qualcuno iniziava a sorridermi con quellʼinconfondibile senso di pietà che tanto detestavo. Ero molto preoccupato, ovviamente, e nel tentativo di non darlo a vedere sfogavo tutto in quelle sigarette che ormai erano diventate un vizio, lo riconoscevo, certo ormai non rappresentavano più una trasgressione perché alla veneranda età di ventun anni mamma e papà avevano scoperto e legittimato la presenza di quella entità nella vita del loro figliuolo – e, del resto, quale lezione di moralità fargli se anche papà fumava e beveva e se anche mamma ogni tanto si lasciava andare durante le giocate a carte con le amiche al sabato pomeriggio.
Di lì a qualche giorno sarebbe tornato per le vacanze mio fratello, più grande di me di quattro anni. In quel periodo aveva trovato lavoro a Perugia, allʼinterno dello studio di un ingegnere, e a quanto ne sapevo non se la passava male.
Famiglia a parte, mi ero anche fidanzato. Be’, forse ʻfidanzatoʼ era una parola grossa, specialmente se usata con riferimento a una ragazzina di sedici, quasi diciassette anni, con la testa un po’ da bambina che con le bambole non gioca più perché inizia a maneggiare i bambolotti.
Stavamo assieme da tre mesi, l’avevo conosciuta a un diciottesimo lʼaprile precedente trovandola abbastanza carina da credere di poterci concludere qualcosa, solo che materialmente non ci avevo concluso niente, o quasi, ed era finita che ci eravamo fidanzati seriamente. Litigavamo spesso, per le ragioni più elementari e stupide di questo mondo: a volte si rifiutava di uscire perché doveva studiare – ma se si trattava di andare a spasso con le amiche ecco che lʼassimilazione dello scibile umano passava in secondo piano –, e intanto io pensavo a tutte le cose che lei, di concedermi, non immaginava nemmeno, e a varie altre ragioni che mi facevano andare su di bestia e che mi avevano spinto già un paio di volte a cornificarla, salvo poi pentirmene per una questione di coscienza, senza mai confessare il misfatto e continuando a portare avanti quella storia tanto noiosa quanto inutile.
Non ero innamorato di lei, o almeno così credevo; dʼaltra parte non ero mai stato innamorato in vita mia, e dovevo ammettere che, forse era il suo modo di camminare, o le sue labbra che mi ispiravano fantasie particolari, insomma non me la sentivo per il momento di troncare con la morettina – a proposito, il suo nome era Marika – la cui presenza nella mia esistenza, in certi frangenti, neanche tolleravo.
La mia vita, capite bene, era un bel casino. Ma, in fondo, la vita di chi non lo è. E quell’estate cominciai a capire che il tempo dell'adolescenza era finito – che bisognava crescere davvero, guardare in faccia la realtà, accettarla o raggirarla a seconda delle necessità – a volte, affrontare il nichilismo della propria esistenza e non farsi cogliere di sorpresa dall’istinto suicida di buttarsi dall’alto di un dirupo urlando un VAFFANCULO al mondo, mentre precipiti verso gli scogli e senti il respiro mancare nel tuo andare incontro alla morte.
Quell’estate mi capitò di piangere spesso – unʼestate i cui ricordi nitidi, per la verità, si riducono a quella settimana che trascorsi a Lipari, tra le Isole Eolie.
Nei miei programmi, come per molti di voi che decidono di staccare un poʼ dalla routine e sono in animo di partire, avrei trascorso le mie giornate a godermi la vita, rilassandomi al gusto delle canne, facendo un casino che neanche ai tempi della scuola – magari avrei anche rimorchiato alla faccia della mia stupida ragazzina rimasta a prendere il sole ai piedi del Pilone, lì a Messina.
Beʼ, come andò quella vacanza è la storia che, birretta in mano e sigaretta in bocca, sto per iniziare a raccontarvi.
Ah, perdonatemi... per caso volete favorire?
2
La mattina del primo dʼagosto prendemmo dunque lʼaliscafo delle dieci. Io, Valerio e Luciano indossavamo pantaloncini corti e magliette; Mirko aveva invece un paio di jeans, cosicché sentivamo tutti più caldo soltanto a guardarlo.
«Perché, dico, perché?», faceva Luciano, scuotendo la testa.
«Perché cosa?»
«Perché quei jeans?»
«I cazzi vostri?»
Mirko tirò fuori dalla tasca un pacchetto di Marlboro e si accese una sigaretta.
«Siamo in estate, cʼè un caldo che si scioglie la pelle, e saremmo curiosi di capire perché cazzo non ti sei messo un pantaloncino. Te ne sei portato qualcuno almeno?»
«Ce li ho qui, nella valigia.»
Luciano tirò un sospiro e scosse la testa. Io sorrisi e mi voltai verso il porto di Messina dal quale ci stavamo allontanando.
Lʼaria era immobile, afosa, i capelli già sudaticci. Valerio e Luciano li avevano rasati quella mattina stessa, prima di partire da casa, e di lì a poco il sole avrebbe cominciato a colorare le loro pelate; io li portavo corti, a spazzola, mentre Mirko aveva preferito non toccare i suoi ricci biondi che, magro comʼera, gli davano un aspetto decisamente disordinato.
Lʼavevo conosciuto ai tempi del liceo, tra i tavolini del bar di fronte alla scuola. Era di un altro istituto, situato a un centinaio di metri dal mio, ma prima di farsi trovare presente alla lettura dellʼappello la mattina passava da lì per salutare amici, amiche e farsi una cannetta. Fu così che iniziammo a frequentarci, tramite Valerio e Luciano che erano stati suoi compagni alle medie, fumando marijuana in un angolo lì vicino tra la mia voglia di viaggiare e lo sfogo delle sue bestemmie, molto originali in tema di aggettivi che esprimeva per qualsiasi cazzata gli succedesse, per lui quasi un intercalare.
Valerio e Luciano erano stati miei compagni di classe al liceo. Poteva ben dirsi che se noi tre avevamo preso quel bel pezzo di diploma era stato soltanto grazie ai nostri genitori: avvocato il mio, medico chirurgo primario al Policlinico quello di Valerio, notaio il papà di Luciano.
Eravamo tre teste di cazzo, e le cose, col tempo, non è che fossero cambiate.
«Ho intenzione di scopare come un riccio questa settimana», faceva Valerio, accendendosi una Camel.
«Ma che devi fare. Se trovi una con cui leccarti possiamo già gridare al miracolo», lo schernì Luciano.
«Io starei zitto al posto