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Chiamatemi Gullo
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E-book435 pagine6 ore

Chiamatemi Gullo

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Info su questo ebook

Guglielmo Mori, per gli amici Gullo, è un diciannovenne abruzzese con la passione per i giochi di ruolo ed i fumetti. Quando decide di iscriversi alla facoltà di Filosofia dell’Università di Chieti e Pescara lo fa per sfida, per dimostrare a tutti che può farcela. Inizia così per lui un’avventura fatta di incontri, emozioni mai provate e scoperte sconvolgenti, accompagnato in ogni esperienza dal suo nuovo ed inseparabile gruppo: Simone, Enrico Frangipane detto Frangi, Gabriele e Paolo, una cerchia di nerd incalliti come lui. Proprio tra le mura dell’istituto incontrerà la donna che gli farà perdere la testa: la professoressa Aida Gigli, assistente alla cattedra di Filosofia teoretica, bella e misteriosa. Una donna indecifrabile, che nasconde una verità sconcertante che metterà a dura prova i sentimenti che il protagonista prova per lei. A partire dai primi dubbi, le bugie e i fraintendimenti che accompagneranno la loro conoscenza, inizierà per Gullo un processo di crescita che gli farà capire che la vita può rivelarsi molto più complessa di quanto ci si possa aspettare.
LinguaItaliano
Data di uscita23 mag 2018
ISBN9788828328124
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    Anteprima del libro

    Chiamatemi Gullo - Martina Testa

    Martina Testa

    CHIAMATEMI GULLO

    UUID: 6989ab90-5e88-11e8-9200-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    1.

    Se a 16 anni qualcuno mi avesse chiesto che cosa avrei voluto fare da grande, gli avrei risposto che non lo sapevo.

    Ero un adolescente in piena crisi esistenziale, che si sentiva adulto pur non riuscendo a capire gli adulti, e che aveva le idee chiare solo su ciò che non voleva e non gli piaceva. Non sapevo se mi sarebbe piaciuto diventare un medico o un insegnante, ma ero sicuro che non sarei mai diventato un matematico, visto che odiavo la matematica.

    Non mi piacevano diverse altre cose, tipo i secchioni leccaculo, le ragazze che se la tiravano, i baci dei parenti dati in luogo pubblico e le ipocrisie. Avevo una mia personalissima opinione anche sulla società in cui stavo crescendo e non era affatto rosea. Pensavo che il mondo fosse uno schifo, mi vedevo circondato solo da ingiustizie e stronzate e per tutta una serie di ragioni, forse soltanto per la fase di ribellione che ogni adolescente, anche il più particolare come io ritenevo di essere, si trova ad affrontare, mi sentivo così dannatamente solo che avevo deciso di trovare conforto in Dio. Sì perché Lui, dall’altissimo dei cieli, era l’unico con cui potessi sfogarmi.

    La cosa bella era che non era il classico Dio che tutti pregavano, no, il mio era più speciale perché me l’ero creato a puntino: non mi cazziava se fumavo o bigiavo la scuola, gli andava bene che non andassi ogni domenica a trovarlo in chiesa e accettava placido e sereno le mie fantasiose e, soprattutto, sporadiche preghiere. Insomma, era proprio il massimo.

    Questo periodo mistico della mia vita durò un annetto pieno e, visto l’ambizioso progetto, fu anche un momento particolarmente impegnativo. Mi ero, infatti, adoperato in tutta una serie di progetti come il rifarmi il letto una volta a settimana, liberando dal gravoso impegno la mia progenitrice, mangiare la zuppa di cavolo nero una volta al mese, perché faceva bene alla salute, e ascoltare musica celtica per ritrovarvi quello che secondo me era il vero e genuino rapporto con sé stesso. Inoltre, avevo trasformato la mia agenda Bastardi dentro in un diario in cui annotavo ogni giorno, dopo scuola, tutte le mie riflessioni sul disagio adolescenziale.

    In quell’anno diedi il meglio e il peggio di me e fu proprio in uno di quei momenti infausti che presi una decisione di cui mi sarei in futuro sempre pentito.

    Una mattina, mentre chino sul lavandino del bagno, mi sciacquavo i denti col colluttorio, mi venne la brillante idea di tatuarmi il nome di Dio sul braccio destro. Luca detto Lucone per via della stazza, mio amico e vicino di casa, si era tatuato un mese prima un serpente spigato sulla caviglia e andava in giro in bermuda, col sole e con la pioggia, a vantarsene con tutti, scatenando invidie e spirito di emulazione. Il tatuatore, un tizio abbastanza losco che si faceva chiamare Il piccione per suoi reconditi e paranormali motivi, aveva la sua base operativa vicino, manco a farlo apposta, alla chiesa del quartiere e pensai che fosse un segno. A dire il vero non ne conoscevo altri. Ci andai un pomeriggio accompagnato da Lucone e, forse perché già era suo cliente, mi fece un bello sconto.

    Lo studio pareva la cantina dove mia nonna Maria teneva le forme di prosciutto a stagionare e quell’architettura così rustica mi mise subito a mio agio.

    Dopo un paio d’ore in cui, steso su un lettino, ero rimasto pietrificato a guardare l’espressione concentrata del Piccione che puntellava la mia spalla secca, potei uscire soddisfatto e con un senso di maturità conquistata. Ma quando lo mostrai orgoglioso ai miei amici rimasero tutti basiti; non credevano che qualcuno me lo avesse fatto, pensavano che lo avessi scarabocchiato io con un pennarello Uni Posca. Ci rimasi male. A parte che mi sarebbe stato impossibile disegnare con tanta precisione sulla mia spalla, per di più destra, ma poi c’erano volute due ore piene e solo per sentirsi dire che era una schifezza. Solo molto tempo più tardi seppi che il vero nome de Il piccione era Gino Lupini, bidello in pensione che si era creato un mercato di tatuaggi col passaparola tra gli ex studenti del suo istituto. Andò così, ma comunque per almeno qualche mese, quelle due linee nere storte sul mio braccio mi fecero sentire tosto. Specialmente quando al mare dovevo fare le contorsioni per non farmi vedere il braccio dai miei. Ovviamente mi beccarono subito: due scappellotti sulla nuca da mia madre, una strigliata da papà, e anche la bravata del tatuaggio ebbe il suo infelice riscontro.

    Anni dopo, quando lasciai la mia famiglia per trasferirmi all’università, mia mamma ancora mi rinfacciava quella ragazzata e sul binario quattro del treno diretto a Chieti mi guardò commossa e scuotendo la testa, invece di salutarmi e basta, disse col solito aplomb: «Guglielmo, quando torni vorrei non vedere più quel coso.»

    A suo avviso le avevo fatto un grave torto, una macchia indelebile sulla sua carriera di madre e sulla mia di figlio ma, a voler essere onesti, neanche lei era stata così clemente con me quando, il giorno della mia nascita, aveva deciso di chiamarmi Guglielmo. Andiamo, ero nato negli anni Novanta, non nell’Ottocento, cosa avevano di male nomi come Luca, Marco, Andrea, Giovanni, ecc.? Non mi parevano brutti. Guglielmo invece era pessimo: brutto, antiquato e suonava male con qualsiasi cognome a cui provavo ad associarlo. Il mio era Mori ma ero sicuro che sarebbe suonato male anche con Totti, Pitt o Ronaldo. Quando provavo a recriminare, facendoglielo notare, lei riattaccava la tiritera del nome più importante della sua vita, senza mai dimenticarsi i riferimenti alla componente letteraria e autobiografica del mio nome. Sì perché mia mamma da giovane era stata un’aspirante scrittrice che aveva dovuto appendere la penna al chiodo quando aveva capito che la sola idea di scrivere un romanzo non avrebbe pagato come un romanzo fatto e pubblicato, anzi: non avrebbe pagato proprio; così aveva ripiegato, per così dire, sull’insegnamento. La sua vena artistica, però, ogni tanto riprendeva il sopravvento: uno di quei casi si presentò nel periodo della mia nascita. Guglielmo era stato il protagonista della bozza del suo primo e unico romanzo mai completato a cui era così nostalgicamente affezionata: era un tipo intelligente, campione di tennis, abbronzato e sportivo, uno con tutti gli attributi al posto giusto insomma. Io ero uscito esattamente all’opposto. Non solo; durante il periodo delle medie il mio nome mi stava così sul cavolo che avevo tentato diverse volte un assalto all’anagrafe per cambiarlo, questo finché i miei non mi scoprirono, facendomi saltare il progetto e mandando in fumo il mio sogno di un nome migliore. Mi incavolai così tanto che progettai una vendetta coi fiocchi: avrei riprovato ad entrare alla Anagrafe, ma questa volta avrei cambiato il cognome in segno di protesta nei loro confronti. Ovviamente finì tutto con un nulla di fatto e dovetti accontentarmi di abbellire il nome: da quel momento in poi il popolo mi avrebbe chiamato Gullo, e solo quando si trattava di cazziarmi i miei tiravano fuori Guglielmo, che di sicuro era, rispetto all’altro, un nome più impegnativo e più consono a quel tipo di situazione. Peccato solo che qualche anno dopo uscì in tv un reality sul calcio intitolato Campioni che seguiva la vita e gli allenamenti di un gruppo di ragazzotti di belle speranze, sotto la vigilanza del grande allenatore Ciccio Graziani. La sfiga volle che uno di quei ragazzi si chiamasse proprio Gullo e per un certo periodo, quando capitava di presentarmi a qualche mio coetaneo dovevo puntualmente sorbirmi la fatidica frase: «Nooo, come Gullo di Campioni

    Vagli a spiegare che l’avevo pensato prima di lui. Semmai era stato lui a copiare me.

    2.

    Il giorno in cui decisi di iscrivermi all’Università di Chieti e Pescara ancora non potevo sapere che quella scelta mi avrebbe sconvolto la vita.

    Era l’ultimo mese prima della maturità scientifica e io, al massimo della svogliatezza avevo abbandonato i libri da diverso tempo. Non lo facevo per partito preso, non erano di mio interesse, tutto qua: le uniche materie che mi piacevano erano letteratura e filosofia. Con filosofia poi avevo instaurato veramente un gran rapporto; non era la classica materia ingessata, bloccata in nozionismi ammuffiti triti e ritriti, era un modo di pensare, ti dava gli strumenti per capire la vita e ci entrai così dentro che, da un momento all’altro, iniziai a chiedermi come sarebbe stato studiarla all’Università. Rimase nel mio mondo delle idee per un certo periodo, mentre i miei genitori intanto perdevano progressivamente le speranze sulla possibilità che potesse accadere un miracolo simile. Poi, una sera mentre ero a farmi una birra con i miei amici del periodo, non ricordo come, uscì proprio questo discorso. Non erano cattivi ragazzi ma non credevano proprio che fossi adatto al mondo accademico, tutto qua.

    «Ah,Gullo,ci prendi per il culo?Dov’è che vorresti andare tu?» mi chiesero sghignazzando. Pensavano veramente che stessi dicendo una cazzata.

    Sembra strano ma quella battuta mi fece scattare qualcosa dentro. Lì per lì ci risi anche io ma quando tornai a casa avevo bell’e preso la mia decisione.

    «Tu provi, vedi com’è, se ti piace. Fai come se fosse un anno di prova.» mi disse mia sorella.

    Lei, Anna, era il mio punto di riferimento; 3 anni più di me, il mio opposto in gonnella. Bravissima a scuola, volenterosa, la classica figlia modello. Io ero il secondo figlio, quello scapestrato. Infatti, tra le pareti domestiche, si udiva mamma strillare solo il mio nome, mai quello di Anna o, comunque, non con lo stesso tono. Ma non sono mai stato invidioso, lei per me è sempre stato il massimo. Eravamo un po’ come i fratelli di quella serie americana che Anna mi costringeva a guardare con lei su MTV: lei cheerleader, bella, a capo della confraternita femminile più in vista del campus e lui intelligente sì, ma anche bruttino e discretamente sfigato. Ora, non che io fossi un emerito cesso, ma riguardava più che altro una cosa mentale; cioè, eri figo se ti sentivi figo e, inutile dirlo, visto che non mi sembrava proprio di rispecchiare il tipico adone da copertina, non mi ci sentivo. Dalla mia avevo l’altezza ereditata dagli antichi avi, la quale era distribuita su un fisico magro e senza la benché minima ombra di muscolo. Avevo ripreso la carnagione chiara di mamma e i capelli folti, color castano miele, di mio padre, che vantavano un ciuffo ribelle e svolazzante che aveva fatto impazzire qualche donzella alle elementari e alle medie; era un po’ il mio marchio di fabbrica. Gli occhi erano di uno strano colore, che non si riusciva a stabilire se fosse scuro o l’opposto. Non erano neri, ma neanche azzurri. Mentre, infatti, Anna era stata fortunata anche in questo, riprendendo il colore azzurro di mamma, io mi ero beccato un indefinito color verde sottobosco che, a seconda della luce, virava al giallo senape o al giallo poltiglia. Una volta una tipa aveva detto che avevo gli occhi come i leoni e, dopo molti anni, ancora non riuscivo a stabilire se fosse o no un complimento.

    Le valigie pesavano una dannazione e mentre le trascinavo dalla stazione alla nuova casa, e dal cancello della nuova casa alle scale della sempre, stessa, casa mi maledii per aver impedito ai miei di accompagnarmi. Volevo fare il tosto ed eccomi accontentato: da quella sera probabilmente non sarei stato in grado di alzare più le braccia per un bel pezzo. Per fortuna la porta d’ingresso si aprì per magia prima che iniziassi a smadonnare per ritrovare le chiavi: un tipo alto, con un aspetto strambo, mi salutò con un accento pugliese.

    « We, sei quello nuovo?» mi chiese tutto allegro.

    «Si, ciao. Piacere Gullo.» dissi sfoderando il mio sorriso più promettente.

    «Piacere compà, Alfonso. Stavo andando al supermercato, ma visto che ci sto ti accompagno prima dentro.» si presentò con fare amichevole.

    Il tizio aveva una faccia simpatica, era alto, scuro e se non fosse stato per la bella pancia prominente, avrei detto che fosse magro. Mentre salivamo le scale mi informò che viveva in affitto in quella casa da un paio d’anni e che lavorava in un’azienda di Chieti.

    «Io me ne vorrei tornare a casa, ma per ora il lavoro l’ho trovato qui.» concluse pacifico.

    La casa, per essere precisi, non era proprio a Chieti, bensì in una frazione vicina, ma gli affitti erano più bassi ed era collegata molto bene con il centro, l’università e la stessa Pescara.

    Il portone scricchiolava, i mobili erano vecchi ma quando vidi la camera mi piacque subito. Era enorme, un bel lettone matrimoniale, persino due armadi. Fermo sulla porta mi bloccai a fantasticare sulla libreria che avrei potuto riempire di titoli filosofici perché, pur non essendo troppo ordinato, avevo comunque una certa precisione nel sistemare le mie cose.

    «Allora, ti piace compà?» chiese Alfonso con uno sguardo così fiero che pareva che me l’avesse arredata lui.

    «Cavolo se mi piace! Mi troverò alla grande.»

    «Buono. Qui affianco c’è la mia stanza, è bella grossa anche la mia. Sai com’è, ho la fidanzata in Bulgaria e quando viene dobbiamo stare comodi.» mi disse con un sorrisetto malizioso.

    «Ah, è bulgara? Lontanuccia, eh.» constatai, lasciando fluttuare nell’aere il doppio senso.

    «Eh, che vuoi, l’amore non ha confini geografici. L’ho incontrata al mare. Ci vediamo poco ma passiamo tutte le sere su Skype. D’altronde se voglio continuare a starci insieme...» aggiunse scoppiando improvvisamente a ridere a crepapelle.

    Un tipo davvero sui generis ma sembrava apposto. Mi fece vedere il resto della casa che consisteva in due mini bagni, una cucina sui toni del giallino spento e altre due stanze: la sua e quella di un altro coinquilino, Federico, che adesso non era in casa.

    «Ok, allora mi sistemo. Ho un po’ di roba da scaricare.»

    «Certo compà, fai pure. Io vado. Ci si vede più tardi, ceniamo insieme? Io mangio sempre per le 20 che dopo devo collegarmi con Katrina. Poi te la faccio vedere, è una bomba.» Alfonso mi fece un occhiolino malizioso che mi sembrò più significativo di tante altre parole.

    Rimasto da solo mi occupai per prima cosa di trovare un posto adeguato al mio favoloso lettore dei cd e prima di togliere le cose dalla valigia me ne sparai uno dei Greenday che da quando li conoscevo continuavano a caricarmi di adrenalina.

    Dopo aver messo a casaccio nell’armadio la mia collezione di tute, sistemati spazzolino e dentifricio in bagno e i viveri che mi aveva fornito mamma nella dispensa, decisi di testare la comodità del nuovo letto e mi addormentai mentre Billy Joe mi chiedeva do you know the enemy?

    Il risveglio fu traumatico. Dai meandri della mia mente assonnata sentii un forte colpo che mi innescò la tachicardia, dopo di ché vidi una proiezione di Alfonso catapultarsi in camera; quest’ultima immagine fu’ abbastanza convincente da destarmi.

    «Oh, compà, ammazza quanto dormi! Sono quasi le otto, mi stavo preoccupando.»

    «Ho il sonno pesante, eh?» dissi con un sorriso che nascondeva il nervoso per essere stato svegliato in modo così traumatico.

    «Abbastanza. Ho preso un pollo alla rosticceria, ti va?»

    E con quella proposta mi rasserenai e Alfonso mi tornò subito simpatico.

    Cenammo con pollo e birra, mentre alla tv trasmettevano una puntata di Smalville su Italia 1; come al solito una replica. Ancora non ero riuscito a capire se fosse perché la Mediaset aveva la passione per le repliche in generale o se perché ero io, da affamato di serie tv qual ero, ad aver visto già tutto prima ancora che venisse trasmesso.

    Notando la gioia negli occhi di Alfonso davanti a quel pollo e la velocità con cui lo ingurgitava, pensai di aver trovato un ottimo compagno di abbuffate.

    Ho sempre avuto una fame vorace, continua, che faceva spesso rabbia visto che mangiavo come un maiale ma rimanevo sempre magro. Mia madre per un periodo si convinse addirittura che avessi preso il verme solitario, perché per lei era impossibile che un ragazzo alto 1.80 che pesava sui 78 chili non riuscisse a trovare pace dopo aver mangiato, facciamo un esempio, due pizze ai quattro formaggi con aggiunta di speck e un piatto di pasta in una sola cena. Senza considerare lo spuntino della mezzanotte, altra mia necessità irrinunciabile.

    Per quasi tutta la cena Alfonso parlò della sua fidanzata super gnocca, ed era così entusiasta che iniziai a scalpitare per poter vedere anche io questo prodigio della natura.

    «Dai, allora quando viene me la fai conoscere.» commentai incoraggiando ancora di più la sua loquacità.

    «Sicuro, sicuro. Tu invece? Hai la donna?»

    «Attualmente nada. Sarà un mese che sono solo.»

    «Ah, ma dai, sei giovane, non puoi stare da solo. Qualche sera usciamo insieme e ne becchiamo qualcuna, eh?»

    « Ok

    Cercai di interrompere lì quella conversazione perché mi aveva fatto venire un senso di disagio tremendo. Mi pareva di esser ritornato ad avere 11 anni, quando mio padre cercava di spiegarmi il significato degli istinti sessuali e l’approccio con l’altro sesso con parole che volevano sembrare buttate lì a caso e che invece dimostravano proprio esser frutto di un attento studio.

    Avevo perso la testa solo una volta nella mia vita ed era durata, contrariamente a quanto non avrei mai potuto immaginare, abbastanza. Un anno e mezzo di relazione in cui ero stato completamente e disperatamente cotto di una che già dal nome non prometteva troppo bene: Laura Insidioso. Ma si sa come vanno queste cose, no? Il bel fisico, gli occhi grandi e quei capelli così morbidi non mi ci avevano fatto soffermare troppo. Il cognome avrebbe convinto a far tirare indietro anche i più scaramantici e io avrei dovuto fare così se mi fossi fermato a pensare che, se avevo avuto problemi col mio nome, figurarsi con quello di una rossa che ti guardava come se volesse dirti ti mangio il cuore e te lo risputo.

    E come volevasi dimostrare, infatti, un anno e mezzo dopo, mentre la riaccompagnavo a casa in tarda serata, se ne uscì dicendomi che tra noi non andava, che non riusciva a starmi dietro, che ero troppo nerd. Esatto, usò proprio questa parola. Io che non mi ero mai posto il problema se lo fossi o meno, pensai che stesse scherzando. Andiamo, si poteva mollare una persona perché era nerd? Poi, ad essere onesti, giocavo molto a Pes, è vero, collezionavo i fumetti degli X-men ma oltre questo non avevo altre abitudini che mi riconducessero a quella categoria. Ma Laura Insidioso non scherzava, mi lasciò sul serio. Ci misi altri 6 mesi per riprendermi e quando il periodo critico sembrava essere passato la rividi in giro con un tipo che, se io ero un nerd, lui poteva benissimo essere il joystick che usavano i nerd per giocare alla Play. Insomma, più nerd dei nerd. Ma tanto era, non potevo fare niente. Dunque, sconfitto e ferito nell’orgoglio lasciai perdere le paturnie d’amore e l’interesse verso l’altro sesso, che non mi avevano portato da nessuna parte, e mi fiondai ancora di più su Kant e gli altri miei amici filosofi.

    BRPPP...

    Il rutto esplose nella stanza con la violenza di un fulmine nella tempesta e mi fece ritornare al presente. Guardai Alfonso che mi rispose con una diplomatica alzata di spalle:

    «Sono stato campione di rutto libero.»

    «Ah, ti credo. Questo non riesco a batterlo nemmeno io.» e la sua espressione tranquilla mi istigò una risata incontrollata che mi fece capire che era meglio finirla lì con le birre.

    «Alfi, io sparecchio e me ne vado a letto, se no domani non mi alzo. Devo andare in facoltà.»

    «Vai a fare il filosofo, eh? Bravo. Io ora vado dalla mia Katrina. Ci si vede domani.» e dandomi una pacca malferma sulla spalla barcollò fino alla camera.

    Come prima serata, non male. Avevo un coinquilino che non si formalizzava in convenevoli e la mia prima cena lontano da casa era finita in rutto libero e puzzo di pollo fritto su una maglietta che mamma non avrebbe potuto lavarmi. Come avrebbe detto il buon vecchio Mike, Allegria!.

    3.

    Inspiegabilmente, la mattina dopo mi svegliai prima che la storica stronzissima sveglia iniziasse a trillarmi nell’orecchio. Ero un tipo dai nervi abbastanza saldi ma devo ammettere che al mio primo giorno d’università mi scoprii a provare una certa emozione. Alfonso non era in casa ma dall’uragano che sembrava esser passato in cucina pensai che fosse uscito da poco. L’altro inquilino non dava segni di vita percettibili e pensai stesse ancora dormendo. Mi feci un bel caffè, mi vestii col meglio che trovai nell’armadio che per me consisteva in una felpa blu scuro della Converse e un paio di pantaloni della tuta dello stesso colore, e andai alla fermata a prendere l’autobus.

    Impiegai poco a trovare la mia facoltà: lo storico istituto di Filosofia si ergeva in tutta la sua rispettabile imponenza appena dopo il cancello di ingresso. Fiumane di studenti si riversavano all’interno del cortile facendomi subito ricredere sul fatto che fossi stato un essere prodigioso a svegliarmi così presto. La lezione che avrei dovuto seguire era un modulo base di filosofia e, da come lessi sulla mia guida, si sarebbe dovuta tenere in aula 4, al piano terra e, per forza di cose, trovai subito pure quella.

    Mi ritrovai davanti a un buchetto di stanza con i banchi vecchi color bianco sporco così simile all’aula in cui avevo patito 5 anni di liceo che, per un attimo, mi ritrasportarono a quel periodo, facendomi venire voglia di alzarmi e andarmene.

    Fortunatamente, venni attirato da una discussione tra due ragazzi seduti in penultima fila; parlavano animatamente, erano visibilmente alterati e uno dei due era così rosso in faccia che pensai stessero per partirgli le coronarie. Come potevo andarmene? E infatti mi andai a sedere proprio vicino a loro con una certa nonchalance.

    Da quanto capii, i due erano in pieno scontro ideologico: il tizio con gli occhiali e la lunga barba marrone difendeva la filosofia, mentre l’altro, un mingherlino con la r moscia prendeva le difese della pedagogia. Il pedagogista attaccava dicendo che la pedagogia era necessaria anche nello studio della filosofia e che, addirittura, era imprescindibile dalla preparazione di un laureato in filosofia. L’altro, alquanto alterato, ribatteva che la filosofia era nata prima dei tempi, ancor prima della scienza e che non era importante studiare materie insulse: e qui una non molto velata offesa alla disciplina pedagogica. Mi stavo divertendo un bel po’ ad ascoltarli perché si stavano veramente incazzando senza che ne capissi a fondo il motivo. Cioè, andava bene difendere il proprio corso di laurea, era anche giusto, ma quei due sembravano avessero trasformato l’aula in un incontro verbale di Smack Down.

    Ero così comodo stravaccato sul mio banco che non mi porsi proprio il dubbio che, forse, ascoltarli in maniera così palese avrebbe potuto attirare la loro attenzione, proprio non ci pensai.

    Invece, come volevasi dimostrare, i due ci fecero caso eccome e fui costretto a prenderne atto quando, all’improvviso, il filosofo si voltò di scatto verso di me, facendomi la domanda da un milione di euro:

    «Scusa, tu che ne pensi? Tutte queste disquisizioni banalmente ridondanti che non vogliono accettare la superiorità di una disciplina come quella filosofica

    Lo ammetto, quella mattina ero sprovvisto del codice per decriptare il linguaggio cifrato delle occasioni speciali. Per un momento immagino che la mia testa prese l’aspetto di un enorme punto interrogativo, quella solita che mi veniva sempre quando sentivo qualcuno mettere parole a caso; era come assistere al gioco del Paroliere invertito. Sembrava che i due tipi avessero stravolto il gioco originario, che consisteva nel trovare il maggior numero di parole di senso compiuto su una griglia, impegnandosi a crearne di nuove senza il minimo nesso. Ma pensai che non potevo deludere i miei interlocutori. Perciò mi risollevai dalla sedia, assunsi un’aria forbita e mi schiarii la gola:

    «Be’ penso che, vista l’assoluta concatenazione del principio causa-effetto, la filosofia può avere un’esistenza slegata dai fondamenti basilari della materia umanistica pedagogica, benché non possa sentirsi svincolata da ciò che comporta la sua natura intrinseca di progenitrice dei saperi.»

    Mi compiacqui abbastanza della mia inventiva; mentre parlavo e pensavo che potevo finirla lì, le parole continuavano a germogliare in forme sempre più complesse, pareva quasi ci prendessero gusto e io, ovviamente, le lasciai fare. Quei due però parvero alquanto turbati perché restarono imbambolati a guardarmi, boccheggiando come pesci. Al ché mi sentii in dovere di incalzarli: «Non siete d’accordo con me?»

    Come d’incanto parvero ricominciare a respirare e subito il filosofo si affrettò a rispondere:

    «Ah, sì, sicuramente...» sembrava volesse proseguire ma venne interrotto dal professore di filosofia, il dottor Masi, che, dopo essersi fatto aspettare 20 minuti, fece la sua entrata trionfale in classe. Portava 4 bei libroni, due per braccio, e si impossessò subito della sedia presentandosi con uno sguardo gioviale.

    Mi risparmiai, così, di continuare quella conversazione no sense: Gullo 2- Comitato dei sapientoni 0.

    Mentre prendevo distrattamente un quaderno per gli appunti, sentii una risata sommessa venire dalla mia sinistra: mi voltai e vidi un ragazzo moro che mi guardava con aria divertita. Aveva gli occhi blu, due spalle che solo a guardarle si capiva che erano sottoposte a tante sedute di palestra, e due piercing, uno sul sopracciglio sinistro e un altro sull’orecchio. La t-shirt colorata con la scritta Bohemian Rhapsody e lo sguardo sveglio mi ispirarono subito innata simpatia. Abbassando la voce, commentò:

    «Che numero! Ho pianto dal ridere. Li hai proprio azzittiti quei due sfigati. Io mi chiamo Simone, piacere.» e mi tese la mano.

    «Gullo, ciao. È la mia prima lezione ma mi sto divertendo discretamente.»

    «Per forza. Io sto al secondo anno ma ricordo che l’anno scorso mi sembrava di stare nel paese dei balocchi. Qua dentro è una gabbia di matti.»

    «Ah, sì? Tipo?»

    «Per dirtene una: questo prof pare sia un ottimo insegnante ma durante gli esami esce fuori di testa se ti chiede i biscotti e tu non glieli porti.»

    «I biscotti?» Mi sa che avevo capito male.

    «Sì, vuole che gli offri i biscotti. Guai se non ce l’hai, ti boccia prima ancora di farti dire il tuo nome.»

    «Che storie! Mi sa che è il primo esame che darò.»

    «Vai, ci sarò anch’io con la scorta della Mulino Bianco. È l’unico esame del primo anno che devo ancora dare, non mi ispirava per niente.»

    «Ma scherzi? Uno che impazzisce se non gli porti i viveri! Geniale!»

    Ero letteralmente affascinato. Chi l’avrebbe mai detto che mi sarebbe piaciuta subito quella facoltà? Amore a prima vista.

    Dopo la lezione di filosofia andai a seguire quella di antropologia filosofica e non mi parve niente male. Simone mi accompagnò visto che, a suo dire, la lezione che doveva seguire era troppo pallosa; sembrava avessi trovato al primo colpo un amico. Lui viveva con la famiglia qui a Pescara e aveva la battuta facile come la mia. Dopo le due ore di antropologia andammo a prenderci un panino al bar dell’università; quelle lezioni erano state così intense da avermi lasciato con una fame assurda, tanto che mi sembrò di comprendere anche Masi e i suoi attacchi di pazzia.

    «Direi che come inizio è proprio niente male.» dissi a Simone mentre sprofondavo comodamente nella sedia del tavolino.

    «Già. Vedrai che sarà sempre meglio. Ma devo informarti sugli elementi che girano in facoltà.»

    «Vai. Sono curioso.»

    «Be’, devi sapere che in questa facoltà si fronteggiano due entità distinte e separate. Da una parte, e sicuramente migliore, c’è il gruppo di studenti di filosofia e dall’altra quello di pedagogia perché, come saprai, il rettore ha avuto la grande idea di accorpare in un unico istituto due corsi di laurea.»

    «Da come discutevano quei due, non mi è sembrata una grande idea.»

    «Appunto.» Simone rise «Partiamo dalla prima categoria, gli studenti di filosofia: diffida da quelli con l’aria intellettuale e i mocassini. Sono i peggiori.»

    «Che creature mitologiche sono?» risi a mia volta.

    «Sono quelli con cui non si può fare un discorso di filosofia senza cadere nel banale. Sono quelli legati ai testi universitari che dicono di discutere di filosofia e invece ripetono le lezioni a memoria e se provi a fargli un’obiezione ci restano male e se la prendono.»

    «Penso che mi divertirei a farci qualche discorsetto. Io non conosco ancora nessuno qui, ma mi pare che nessuno si ricorda che c’è sempre un risvolto pratico nella sfera filosofica»

    A quella frase Simone si illuminò e mi strinse la mano: «Oh, bravo. Mi pare di capire che tu rientri tra gli studenti di filosofia regolari. Oltre te ce ne sono diversi altri che ti presenterò.»

    «Non vedo l’ora. E dell’altra categoria che mi dici?»

    Simone fece un sorrisetto emblematico, bevve un sorso di coca-cola dal bicchiere e mi informò:

    «Dunque: la cosa positiva di quelli che studiano pedagogia è che molte sono donne e alcune anche parecchio carine. Il resto è rappresentato da altrettanti fanatici, vedi quelli di filosofia, in fissa con Rousseau e l’Emilio e tutte quelle cavolate. Ovviamente guardano chiunque appartenga a Filosofia con disprezzo.»

    « Apperò! Prima devo aver beccato l’eccesso dell’uno e dell’altro gruppo in aula.» constatai.

    «Esatto. Ma direi che non te la sei cavata male.»

    «Capirai, mi ci diverto troppo! E quando non devi studiare, studiare e studiare, che fai?»

    Un’aria beffarda si dipinse sul suo volto: «Ah, non è che io studi troppo, specifichiamolo. Diciamo che, quando non sto in facoltà, sto col mio gruppo a provare canzoni.»

    «Figata. E come vi chiamate?»

    «Siamo i No religion in hell. Suoniamo da un paio d’anni. Io sto alla chitarra, poi c’è Luca R. al basso e Luca C. alla batteria. E se ti stai chiedendo se ho preso apposta due ragazzi con lo stesso nome ti dico di no.»

    In realtà mi stavo chiedendo che tipo di canzoni cantasse un gruppo con un nome così infernale. Simone sembrava un tipo tranquillo; insomma non un secchione ma comunque un ragazzo innocuo e pensare che avesse una band me lo fece vedere sotto un’altra luce. Inoltre, dall’espressione che aveva assunto mentre parlava, capii che per lui fosse molto importante. Comunque, decisi di togliermi subito il dubbio:

    «Un nome tosto, eh. Che musica fate?»

    «Tranquillo, non facciamo canzoni stile Marilyn Manson. Solo che sin da ragazzino mi piacevano i gruppi maledetti, sai tipo i Nirvana. Quelli che picchiano forte con gli strumenti insomma.»

    «Rock quindi?»

    «C’hai preso. È più un soft rock ma quando ci riunimmo per scegliere il nome pensammo ci volesse qualcosa d’impatto, di forte, che colpisse.» Simone si interruppe per qualche secondo, come se stesse pensando a qualcosa; poi riprese: «Be’, pare che ci abbia portato fortuna. Sai com’è, col passaparola ci hanno iniziato a conoscere. All’inizio facevamo solo cover dei Greenday, dei Linkin Park e simili, ma dopo un po’ qualche locale ha iniziato a chiamarci per fare serate e ci siamo buttati anche a scrivere da noi.»

    «Forte, cantate il genere che mi piace, poi mi farai sentire qualcosa. Chi è che li scrive?»

    Simone si batté un pugno sul petto: «Principalmente io. Poi si prova e se c’è qualcosa da modificare lo decidiamo e facciamo insieme.»

    Era obiettivamente una cosa figa. Non avevo mai avuto aspirazioni da cantante, lo ammetto, ma ero sempre stato affascinato da queste band musicali, alcune capaci di creare veri e propri capolavori. Ancora adesso, quando ascolto le mie canzoni preferite, non posso fare a meno di ammirarne la genialità. Per me ogni volta è così. Mi sono sempre chiesto da dove gli arrivi l’ispirazione. Ci pensano per tanto tempo prima di scrivere qualcosa di riuscito oppure si lasciano cogliere dall’emozione del momento?

    Ora, non conoscevo ancora la musica di Simone e del suo gruppo ma già solo l’idea che avesse una band e che ci andasse in giro a suonare me lo fecero ammirare.

    La giornata continuò senza che mi annoiassi neanche per un attimo; Simone mi presentò alcuni del suo gruppo: Enrico, che era al primo anno come me e, notai, abbastanza allineato agli standard della facoltà, con i suoi pantaloni a scacchi, gli occhi piccoli nascosti da uno

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