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Il tempo umano
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E-book416 pagine8 ore

Il tempo umano

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Info su questo ebook

Un gioiello letterario sull'amore, la passione, la memoria.
Tommaso è un giovane professore universitario di una città dell'Italia centrale. Si innamora di una sua ex-studentessa, la figlia di Alfredo Del Nord, una leggenda della città in cui vive, un imprenditore nato dal nulla che, a partire dalla sua ossessione per il tempo, ha fondato la Dea Nigra, la più importante azienda italiana di orologi di lusso. Tommaso è affascinato dal mondo di Beatrice, dalla figura carismatica del padre di lei, dalla grande villa Del Nord. Ed è proprio alla villa che Tommaso conosce Maria, la sorella di Beatrice, a lei antitetica. Quanto Beatrice, come il suo nome sembra promettere, è dolce e angelica, tanto Maria è sfrontata e irriverente. Tommaso se ne innamora, un amore che attraversa Tommaso in tutte le sue tappe: il desiderio, la conquista, il tradimento, la trasgressione, la separazione, ma anche l'ambiguità di un rapporto che lascerà entrambi pieni di cicatrici. Al centro di tutto un vecchio orologio che sembra nascondere un mistero: saranno i suoi ingranaggi a dare un senso al microcosmo in cui si trovano catapultati?
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2020
ISBN9788830511859
Il tempo umano
Autore

Giorgio Nisini

Giorgio Nisini è nato a Viterbo nel 1974. Scrittore e saggista, insegna Letteratura Italiana Contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. È autore dei romanzi La demolizione del Mammut (Perrone, 2008, Premio Corrado Alvaro Opera Prima e finalista Premio Tondelli), La città di Adamo (Fazi, 2011, selezione Premio Strega), La lottatrice di sumo (Fazi, 2015) e Il tempo umano (HarperCollins, 2020). È direttore artistico dell’Emporio Letterario di Pienza e presidente del Premio “Corrado Alvaro-Libero Bigiaretti”.

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    Anteprima del libro

    Il tempo umano - Giorgio Nisini

    all’istante.

    TEMPO PRIMO

    La purezza

    (1997)

    1

    Per lungo tempo ho pensato che il nostro incontro fosse avvenuto per caso: l’essere passato in quel momento anziché in un altro, l’aver rivolto attenzione a qualcosa che non intendevo guardare. Oggi mi chiedo se sia stato davvero così, o se al contrario non ci sia stata in lei una precisa volontà di forzare il destino. In fondo non sarebbe stato così difficile scoprire che frequentavo spesso quel posto. Ogni tanto ci ripensavo, soprattutto quando arrivava la bella stagione e sentivo una scossa che mi attraversava lo stomaco. Mi sembrava di rivederlo: era uno di quegli alimentari a gestione familiare in cui si trova un po’ di tutto, con gli orari di apertura molto elastici e una luce bassa sugli scaffali che rende l’atmosfera sempre calda e accogliente. Avevo preso l’abitudine di andarci ogni venerdì pomeriggio, subito dopo aver fatto lezione, con una lista dettagliata di cose da comprare e un paio di grosse sacche di tela che utilizzavo per la spesa. Era anche l’unico alimentari della zona ad avere i Wiener Löwe, i würstel confezionati che consideravo i migliori sul mercato. Erano realizzati senza l’uso di carne separata meccanicamente, e per di più avevano un buon sapore di semi di senape che mi ricordava una torta salata che faceva mia nonna il giorno di Natale.

    Non ero un patito di würstel, la mia alimentazione era all’ottanta per cento costituita da verdure, carboidrati e legumi, ma una volta ogni tanto mi piaceva prepararmi una cena in stile bavarese secondo le indicazioni di un mio collega di Würzburg. Mi divertiva molto cucinare. Vivevo da solo da un paio d’anni – da quando avevo uno stipendio fisso come ricercatore universitario – e cucinare era uno dei tanti modi per rendere meno tristi le mie serate e per sperimentare l’innumerevole quantità di ricette che trovavo su internet o in televisione. Odiavo lo stile di vita sciatto e trascurato di molti uomini della mia età.

    Anche mia madre era rimasta stupita dalla capacità di adattamento che avevo sviluppato. Quando venne per la prima volta nel mio appartamento – un miniattico terrazzato in pieno centro storico medievale – mi fece i complimenti per l’ordine e l’armonia che regnavano nella casa.

    «Sei bravo, Tommaso» mi disse osservando incuriosita la disposizione dei mobili e il tipo di arredo. «La tua stanza era regolarmente in disordine, non capisco com’è stata possibile questa trasformazione in così poco tempo. Sono molto contenta.»

    «La mia stanza la dividevo con Enrico, ricordi?» le dissi in un tono risentito. «E certo lui non è proprio il fratello più collaborativo e preciso del mondo. Avevo solo bisogno di stare per conto mio, avere uno spazio in cui nessuno viene a mettere il naso.»

    In realtà Enrico era sposato da qualche anno, e prima ancora aveva vissuto per lunghi periodi fuori città, tra studi universitari, specializzazione e un precedente tentativo di convivenza con una fidanzata norvegese. Tuttavia la stanza che condividevamo fin da bambini era sempre stata la nostra. Anche adesso che si era trasferito in una grande villa in campagna, e che era diventato uno tra i cardiologi più apprezzati della provincia, considerava quella stanza come una sorta di rifugio ancestrale, un territorio della sua adolescenza che lo rassicurava e lo faceva regredire al passato. Non era un sentimento ridicolo, anzi, lo capivo benissimo. Quando ci vedevamo dai nostri genitori la domenica o durante le feste comandate, avevamo entrambi la tentazione di rintanarci lì per qualche ora, anche solo per fare una chiacchierata o per riaprire insieme qualche vecchio scatolone di ricordi.

    Enrico era un buon fratello maggiore. Non avevamo amici in comune, avevamo seguito percorsi professionali diversi, i nostri gusti artistici o musicali erano agli antipodi – lui ascoltava solo pop-rock e new romantic, io tutto ciò che ruotava attorno all’elettronica e al post-punk. Tuttavia c’era una complicità istintiva tra noi che ci teneva legati con un filo sottile; nei momenti di difficoltà ci eravamo sempre aiutati con quel reciproco spirito da clan che solo tra fratelli si sviluppa in maniera spontanea. Da quando si era sposato con Nicoletta, un’insegnante di scienze dalla personalità forte e pragmatica, avevo provato per lui un contraddittorio sentimento di gioia e d’invidia. Non tanto perché trovassi Nicoletta interessante – era una donna adorabile ma troppo lontana dai miei standard relazionali –, quanto perché ammiravo il senso di completezza che si percepiva nel loro rapporto. Era come se avessero trovato un punto di equilibrio su cui poter contare, mentre io, con le mie storie troppo superficiali e vissute senza entusiasmo, continuavo a barcamenarmi in una vita sentimentale che non mi portava da nessuna parte.

    Quel venerdì pomeriggio, dunque – un venerdì di tarda primavera, uno di quei venerdì di fine maggio in cui si sente ormai l’odore dell’estate –, non potevo immaginare che qualcosa sarebbe cambiato. Non potevo nemmeno immaginare le conseguenze di quel cambiamento, la gioia, la follia, la disperazione a cui stavo per andare incontro, il coltello di Kafka che era di nuovo venuto a colpirmi. Del resto non era prevedibile un’infrazione alla quotidianità, mi trovavo dentro una scena vissuta mille volte: la fine di una giornata di lavoro, la rapida passeggiata attraverso il parco del mio quartiere, la spesa nell’alimentari prima di andare a casa. Eppure era stato proprio lì, appunto, nell’alimentari, che l’avevo incontrata; o meglio, che l’avevo vista per la prima volta da una diversa prospettiva.

    Fino a quel momento Beatrice era stata semplicemente una mia studentessa. Non una di quelle studentesse esuberanti e narcisiste che amano mettersi in mostra agli occhi del giovane professore, e neanche una studentessa che mi aveva incuriosito per la sua sobrietà o il suo stile. Semplicemente non l’avevo notata; era una delle tante studentesse anonime e quasi invisibili che seguivano i miei corsi di letteratura. Si sedeva sempre in fondo all’aula dopo aver riposto un registratore portatile sulla cattedra: non prendeva appunti scritti, arrivava con una sua amica e se ne andava appena finita la lezione. Anche il suo nome lo avrei scoperto solo qualche tempo dopo: non avevo mai parlato con lei, non era mai venuta durante il mio orario di ricevimento; tutto ciò che la riguardava non era mai stato, per me, motivo di attenzione.

    Quel pomeriggio, invece, avvenne qualcosa di totalmente imprevisto – potrei dire qualcosa di oscuro, d’imponderabile. Non so perché, non sono mai stato un uomo dai facili impulsi ormonali, ma non appena la vidi accanto allo scaffale della frutta e verdura, a pochissimi centimetri da me, piegata in basso con una gonna molto corta, provai una sensazione del tutto inattesa. Una sensazione difficile da definire. Fu come il presagio di qualcosa che poteva accadere, ma non era detto che sarebbe accaduto: i miei occhi finirono istintivamente tra le sue gambe, in direzione di un paio di sottilissime mutandine viola che contrastavano con la sua pelle quasi diafana. In un attimo Beatrice non fu più la stessa, di colpo la mia immaginazione la trasformò in un essere che non aveva nulla a che fare con la studentessa anonima che frequentava le mie lezioni. Adesso era una donna inginocchiata ai miei piedi, una creatura primitiva che viveva al di fuori di qualsiasi vincolo morale e sociale. Era il fuori contesto ad avermi turbato, l’immediato passaggio dal prima al dopo. Ed era anche il suo sguardo. Quando si accorse di me, come se l’avessi colta in flagrante in un’azione proibita, richiuse le gambe di scatto e si alzò con un’espressione esitante e impacciata, che subito si tramutò in un’espressione di attesa.

    Non ci dicemmo nulla. Mi fece solo un cenno di saluto con il viso, che ricambiai. Ma anche senza parole ci guardammo per un tempo prolungato, secondo il codice di un linguaggio primitivo. Due, tre secondi, forse: un intervallo sufficiente a caricare lo sguardo di un significato che travalicava il puro contatto visivo. Beatrice in quel momento era nuda. Si sentiva nuda, osservata. Sentiva che i miei occhi non la stavano semplicemente guardando. La stavano desiderando.

    Mentre mi allontanavo lungo il corridoio che portava alla cassa mi voltai. Anche lei lo fece, e nel farlo sorrise imbarazzata. Questo reciproco movimento amplificò ancora di più la forza di quanto era accaduto tra noi. Perché qualcosa, non c’era dubbio, era accaduto.

    Uscii dall’alimentari e mi diressi verso casa. Il sole era appena tramontato. Sulla linea dell’orizzonte che s’intravedeva dietro le basse palazzine del quartiere c’era una luce rossa diffusa.

    Mi sentivo potente e avevo fame.

    2

    La settimana successiva andai all’università in uno stato d’animo diverso dal solito. Non posso dire che durante il weekend avessi pensato a lei, ma certamente il ricordo del nostro incontro aveva alleggerito l’atmosfera satura e paludosa in cui ero precipitato da qualche tempo. La mia ultima relazione risaliva all’anno precedente. Per qualche mese avevo frequentato una donna della mia età che subito mi aveva inchiodato con richieste e aspettative che mi avevano fatto fuggire. Voleva che la nostra storia acquistasse fin dall’inizio un senso in prospettiva – così mi diceva sempre: «Dobbiamo ragionare in prospettiva, Tommaso» – il che voleva dire pensare già a un matrimonio e a un figlio senza quella libertà svincolata che cercavo in un rapporto di coppia. L’idea mi toglieva il respiro, presto avevo capito di non essere abbastanza innamorato di lei.

    Le mie lezioni si tenevano dal mercoledì al venerdì in un’aula del dipartimento di Italianistica, lungo un corridoio di tante aule che si susseguivano identiche l’una dopo l’altra. Il resto del tempo lo trascorrevo in sala lettura o in biblioteca a scrivere e a studiare, oppure incastrato nei mille impegni della vita universitaria. Con i miei colleghi avevo un rapporto elastico: si stringeva o dilatava a seconda delle occasioni, passando da rari momenti d’intimità confidenziale a fasi di gelo per ragioni di strategia accademica (più raramente per incomprensioni personali). A me andava bene così: non c’era nessuno con cui avessi legato particolarmente, nessuno a cui dovessi qualcosa o con cui avessi necessità di mantenere rapporti informali. La sola eccezione era un docente di letteratura italiana, con il quale mi ero laureato anni prima e che mi trattava quasi come un figlio adottivo; ma il sentimento non era reciproco, per me restava un professore con cui dovevo rispettare – sotto la scorza della falsa amicizia – un protocollo di comportamenti rigorosamente gerarchico.

    In quei giorni non riuscivo a combinare molto. Avevo provato a concentrarmi su un convegno al quale dovevo partecipare a fine giugno, ma i miei pensieri vagavano da tutte le parti. Ogni occasione era buona per fare una pausa o una passeggiata nel cortile universitario. Ascoltavo musica in un walkman scalcinato e nel frattempo sorseggiavo un caffè bollente osservando il paesaggio umano che mi sfilava davanti. E pensavo, soprattutto; pensavo che anche io ero stato uno studente universitario, sebbene adesso avessi difficoltà a riconoscermi in quella massa anonima di ventenni che si muovevano come zombie senza ideali. Era un mio pregiudizio snob e insopportabile, ma non potevo fare a meno di credere che il loro essere lì, in un luogo di studio e di messa in discussione del mondo da cui venivano, fosse funzionale a ben altro. La loro era una presenza stagnante: cercavano semplicemente di rimediare una laurea per accontentare i genitori o per proseguire l’attività di famiglia. Nella maggior parte dei casi mancava qualcosa di vitale nei loro occhi, un’energia sotterranea che li facesse sentire ciò che erano, dei ventenni appunto, ragazze e ragazzi che dovevano desiderare di rompere tutto anziché lasciarsi sottomettere da una rete di protezione che li faceva sempre cadere in piedi.

    Beatrice era una di loro, il suo modo di vestire e di atteggiarsi la riconduceva chiaramente a uno schema identico a se stesso, non mi serviva sapere molto di lei. Era una questione di intuito – bastava osservare la disciplina ripetitiva con cui veniva in facoltà per capirlo. Aveva un modo diligente di entrare e uscire dalla classe che me l’aveva resa poco interessante. Aveva un’amica – quella con cui veniva a lezione – dall’aria sciatta e insignificante che lasciava supporre discorsi tra loro altrettanto sciatti e insignificanti. Per questo mi aveva stupito incontrarla fuori dall’ambiente universitario, per la sua capacità di far vacillare il mio intuito e sottrarre una chiave di lettura che probabilmente non era corretta. Avevo voglia di rivederla, anche se non sapevo bene con quale obiettivo. Davvero pensavo di corteggiarla? Non mi era mai capitato di andare a letto con una studentessa, ma solo perché non si era mai presentata l’occasione giusta. Sentivo di essere abbastanza cinico e sessualmente spregiudicato per non farmi scrupoli di nessun tipo, né strategici né morali.

    Il mercoledì pomeriggio arrivai a lezione in perfetto orario. Lo ricordo benissimo: ero vestito in maniera informale, con un paio di jeans chiari e una camicia attillata che metteva in risalto quei pochi muscoli rimasti da ex nuotatore dilettante. Continuavo ad avere una sensazione sottopelle di euforia che mi teneva su di giri, ma allo stesso tempo ero inquieto, con un groviglio di emozioni che s’infittiva dentro di me come una specie di contrattura.

    Quando entrai in aula mi accorsi subito che Beatrice non c’era. Non era da lei arrivare in ritardo; e non era da lei arrivare senza la sua amica, che invece già sedeva nell’ultima fila di banchi accanto a una ragazza dai capelli cortissimi. La luce che filtrava dalle ampie finestre laterali illuminava la stanza a metà, il pavimento di linoleum e le pareti color verde acqua creavano un’atmosfera ospedaliera che poco si adattava a quel luogo di pura funzione didattica.

    Chiusi la porta e iniziai a fare lezione, anche se un po’ sottotono e con la delusione che affiorava in ogni pensiero. Mi accorgevo di parlare più lento e più pacato del solito, quasi privo di entusiasmo. Non scrissi nulla alla lavagna e non lessi alcun brano dai romanzi che stavamo analizzando. Non proiettai slide, non feci vedere fotografie o filmati. Illustrai alcune caratteristiche del neorealismo – l’argomento centrale del mio corso di quell’anno – con una cadenza che diventava a ogni istante più monotona e annoiata. Mi stavo annoiando anch’io, in fondo. Tutta l’euforia era stata risucchiata in una pozza di sentimenti a bassa intensità, avevo solo voglia di uscire da lì e tornarmene a casa.

    Quando a metà lezione vidi entrare Beatrice rimasi molto sorpreso. Non era la Beatrice di sempre, era più femminile del solito, anche nel suo abbigliamento (un caso? Una coincidenza?): non la solita gonna sportiva o gli abituali pantaloni di cotone stretch con sopra una maglietta color panna (o color avorio, o qualunque altro colore neutro e insignificante si possa immaginare), ma un abito in organza a strisce bianche e gialle e un paio di décolleté decorate con un fiocco. Aveva anche un nuovo taglio di capelli e una leggera abbronzatura naturale, quattro sottili bracciali al polso destro e una lunga collana con un ciondolo di madreperla. Era insomma più attraente, più luminosa, ma non capivo se lo fosse davvero o se dipendesse invece dalla mia diversa percezione di lei.

    Prima di sedersi si avvicinò alla cattedra, mi fece un gesto di scuse con la mano, poi posizionò il registratore portatile accanto agli altri lasciati dai suoi colleghi. La sbirciai senza alcuna allusione, in maniera asettica, potrei dire: ero ben consapevole di avere addosso gli occhi di tutti i suoi compagni di corso. Durante il resto della lezione non cambiai atteggiamento; ricominciai a parlare come se nulla fosse, spostandomi da un lato all’altro della cattedra come ero abituato a fare, alimentato da un nervosismo di sottofondo che m’impediva di stare seduto. Adesso però c’era qualcosa in più, perché cercavo di dare alla mia voce un tono più autorevole e penetrante – me ne rendevo conto, e nel rendermene conto mi sentivo terribilmente ridicolo. E così al mio sguardo, che di tanto in tanto, senza che riuscissi a controllarlo perfettamente, si concentrava nella sua direzione. Lei se ne accorse, e probabilmente se ne accorse anche la sua amica. Era una questione di tempi, proprio come era accaduto al negozio di alimentari: i miei occhi si posavano su di lei e poi tornavano ad appuntarsi altrove. Avvenne due o tre volte, a intervalli irregolari: spiegavo, e nel frattempo la guardavo per una frazione di secondo in più del dovuto.

    Anche il giorno successivo e quello dopo ancora – che era poi il mio ultimo giorno di corso – continuai a seguirla con lo sguardo in maniera metodica, in una sorta di assedio visivo che non sapevo dove mi avrebbe portato. Ma non mi spinsi mai tanto oltre da farle credere che la stessi corteggiando davvero, rimasi sempre al confine dell’ambiguità. Lei non sembrava infastidita, a volte assumeva espressioni da posa fotografica, come chi sa di essere osservato, altre volte mi sorrideva con una lieve punta di civetteria.

    Un giovedì mattina la vidi comparire davanti al mio studio. Era la prima volta che accadeva. Bussò con cautela alla porta accostata e si affacciò rimanendo immobile sulla soglia.

    «Deve parlare con me?» chiesi con gli occhi rivolti un po’ a lei un po’ al mio computer.

    Beatrice annuì e si avvicinò alla scrivania con un’espressione spaesata. In mano teneva il suo registratore portatile e un libro di Erich Auerbach con l’etichetta stropicciata della biblioteca.

    «Ho seguito il suo corso di letteratura» esordì mettendosi seduta. «Vorrei sostenere l’esame con lei al primo appello, ma ho perso il quaderno in cui avevo segnato la data.»

    Aveva una voce delicata e priva d’inflessioni dialettali. Doveva provenire da una famiglia benestante, di quel benessere da alta borghesia di provincia che dà alle ragazze un’aria velatamente snob, ma anche un’insicurezza di fondo che viene fuori non appena si scontrano con un imprevisto pratico.

    «Trova tutte le informazioni in bacheca» le dissi facendo un gesto vago con la mano. «Qui subito fuori dalla stanza, accanto alla segreteria didattica.»

    Staccai il volto dal monitor del computer.

    «E comunque il primo appello è fissato per l’undici di giugno. Mi raccomando, si prenoti per tempo.»

    Beatrice corrugò la fronte pensierosa. Poi appoggiò il libro e il registratore sul tavolo. Da una borsetta che teneva a tracolla estrasse un’agenda di piccolo formato e trascrisse rapidamente la data. Aveva una grafia calcata e scomposta. Mi chiesi se il fatto che non prendesse mai appunti a lezione fosse un segno di dislessia o semplicemente di pigrizia.

    «Verrò senz’altro al primo appello. È il mio ultimo esame, sa? A luglio mi devo laureare in filologia italiana.»

    Con un cenno della testa indicai il suo libro.

    «Ora capisco perché sta leggendo Auerbach. Cos’è? Introduzione alla filologia romanza

    Beatrice lo voltò verso di me. Era una vecchia edizione degli anni Settanta pubblicata da un editore barese.

    «È un volume dedicato a San Francesco, Dante e Vico, me lo ha consigliato il professor Galluzzi.»

    «Le confesso che non l’ho mai letto» dissi afferrandolo e scorrendo la quarta di copertina. «In ogni caso complimenti per la temerarietà, qui da noi sono in pochi a laurearsi in filologia. Lei è una mosca bianca, sa? Su cosa sta facendo la tesi?»

    Beatrice sorrise senza fare commenti.

    «Sulle liriche d’amore di Cino da Pistoia. Ho sempre amato questo poeta. Fin dai tempi del liceo.»

    Mi accorsi che sul frontespizio dell’agenda c’era un’etichetta con il suo nome. Beatrice, appunto. Il cognome non feci in tempo a leggerlo. In un giro velocissimo di secondi la ripose nella borsetta.

    «Un poeta straordinario, ha ragione» dissi pensando a quante altre Beatrici conoscessi o avessi conosciuto nella mia vita. Mi tornarono in mente due o tre volti che faticavo a mettere a fuoco. «E per il futuro, invece? Ha già dei progetti?»

    Beatrice si strofinò il naso con il palmo della mano. Sembrava pensierosa.

    «Mi piacerebbe vincere una borsa di dottorato. Credo di essere portata per la ricerca, ma ci sono ancora troppe cose in ballo e non voglio sovrapporre gli impegni. Un passo per volta.»

    «Mi sembra ragionevole. Un passo per volta, certo. Quindi ora pensi solo al mio esame e non mi trascuri per Cino da Pistoia. Mi raccomando…»

    «Oh, sì!» disse ridendo. «Per ora solo neorealismo e neo-realismo.»

    Quando si alzò dalla sedia notai che aveva un modo di muoversi appena rallentato, come se tra l’impulso nervoso dato dal cervello al muscolo ci fosse l’interferenza di una lieve esitazione. Con la stessa lentezza si allungò per darmi la mano. Mi alzai anch’io, d’istinto, e gliela strinsi. La sua pelle era calda e generosa, appena inumidita da un tiepido velo di sudore che tradiva un po’ di nervosismo. Fu piacevole questo contatto insieme confidenziale e distaccato, mi diede l’idea che i nostri corpi si stessero già cercando, una forma di confusa intimità che si affacciava timidamente in superficie. Ma non tutto in Beatrice mi trasmise un senso di trasparenza. Nell’attimo esatto in cui i nostri occhi si sovrapposero, proprio quando stava per voltarsi in direzione della porta, intravidi dentro di lei anche un nodo d’inquietudine, una specie di curva emotiva che d’un tratto incupì la sua espressione.

    Dopo che fu uscita dalla stanza non riuscii a combinare più niente. Nel vederla così da vicino, nello scambiare qualche parola con lei, mi si era confermata l’idea che fosse una ragazza interessante e piena di sorprese, sicuramente più raffinata e colta della maggior parte delle sue colleghe. Eppure quel nodo d’inquietudine mi aveva lasciato addosso un turbamento strano, quasi un senso di allarme. Non capivo esattamente in che modo, né capivo – proprio a causa di questa incomprensione – quali sensazioni mi facesse provare: se attrazione allo stato puro, desiderio di dominio, curiosità di scoprire cosa nascondesse dietro le fattezze da brava ragazza. O forse qualcos’altro ancora; qualcosa d’indefinito e torbido che, almeno per il momento, non ero in grado di interpretare.

    3

    Ai tempi dell’università condividevo l’appartamento con uno studente di Pescara. Aveva una fidanzata di nome Annabella che veniva tutti i sabati a pranzo da noi. Era una ragazza esile e dalla pelle chiarissima, dava l’idea di non essere molto sicura di sé: aveva un modo di fare sempre dimesso, un modo di parlare e di guardare che sembrava sospeso a metà, come se le sue parole e i suoi sguardi fossero condizionati dalle prime reazioni di chi aveva di fronte. Non era una persona introversa, ma se non veniva messa a proprio agio dagli altri si isolava in disparte e non dava più alcuna confidenza.

    Ad Annabella piaceva cucinare. Spesso ci preparava un risotto alla marinara con il pesce che suo padre, un ferroviere di Civitavecchia, le portava quando passava dal porto. Quel risotto era la sua specialità, lo faceva davvero bene, ricordo l’odore buono che saliva dalle scale e l’aria allegra mentre lo serviva nei piatti. Anche lei aveva un odore buono, mi ricordava il profumo di una donna d’altri tempi, l’eleganza semplice dei suoi vestiti, certe maniere che lasciavano trapelare una timidezza riservata. Ogni volta che veniva da noi si faceva una doccia e si cambiava con un abito da casa – in genere una tuta o un paio di fuseaux con una felpa viola slavata. Ricordo l’aria un po’ imbarazzata che assumeva quando usciva dal bagno, l’atteggiamento composto, i capelli raccolti da un grosso fermaglio di stoffa.

    Era strano condividere con lei e il suo ragazzo quei momenti di familiarità domestica, mi sentivo il terzo incomodo in una vita di coppia che non mi riguardava: assistevo alle loro effusioni controllate mentre guardavamo la tv sullo stesso divano, ascoltavo i loro sospiri smorzati quando si chiudevano in camera a fare l’amore. Ero un escluso, ma paradossalmente anche un incluso: ero infatti l’unico a stare al confine della loro intimità, la potevo sfiorare con una mano, potevo percepire l’odore di sesso che restava sul corpo di entrambi quando si salutavano.

    Un giorno rimasi da solo con Annabella, il mio amico era dovuto correre all’università per un impegno improvviso. Fin da subito avevo percepito nel suo sguardo qualcosa di vischioso. Aveva cambiato il tono di voce, mi passava vicino sfiorandomi con le dita, come fosse una casualità. Aveva anche un profumo diverso dal solito, non quello buono da donna d’altri tempi, ma un profumo più acido, come alterato da qualcosa di biologico e di ormonale. Poco prima che il mio amico ritornasse, come delusa dalla mia incapacità di rispondere al suo corteggiamento, si chiuse in bagno e si masturbò. Sentii il suo orgasmo coperto a stento dall’acqua della doccia, lo spasmo prolungato che si protrasse oltre ogni misura, la violenza del piacere che arrivò fino alle mie orecchie. Mi masturbai anch’io, con disperazione e ferocia, fuori dal bagno e con i pantaloni calati, a meno di due metri dal suo corpo. E, come aveva fatto lei, anch’io urlai senza alcun ritegno, macchiando il muro e il pavimento con lo sperma. Fu un rapporto sessuale vero e proprio, pur senza contatto; entrambi avevamo sentito i nostri orgasmi ed entrambi ci eravamo eccitati nello stare vicini a così pochi passi di distanza. Io ero proibito a lei, lei a me, e questo ci aveva portati a un’attrazione irrefrenabile. Quando uscì dal bagno non mi disse nulla, si sdraiò sul letto del fidanzato in attesa che tornasse, il viso abbassato pieno d’imbarazzo.

    Dopo quella volta non capitò più che restassimo da soli, ma il nostro modo di guardarci non fu più lo stesso. Ci guardavamo turbati, carichi di eccitazione e sensi di colpa. Anche il suo risotto non fu più lo stesso: lo cucinava con meno amore, caricandolo di spezie e sbagliando la cottura, come se attraverso quel risotto volesse esprimere la frattura che si era creata dentro il suo animo di brava ragazza. Per lungo tempo continuai a masturbarmi pensando a lei, alla sua pelle di latte e al suo odore corrotto che non ho mai più sentito, a quegli urli selvaggi che avevamo condiviso in segreto da tutti, forse anche da noi stessi.

    L’incontro con Beatrice al negozio di alimentari mi aveva ricordato l’orgasmo di Annabella. I due episodi erano stati diversi, ma in un caso e nell’altro c’era stato un momento rubato d’intimità. Anche Beatrice l’avevo colta in un suo gesto privato – il suo piegarsi distrattamente con la gonna rialzata, le mutandine viola esposte per errore al mio sguardo. Non c’era stato nulla di così marcatamente sessuale, non c’era stata una mia reazione così scoperta e fuori controllo; eppure anche l’incontro tra me e Beatrice aveva riguardato la sessualità. La proibizione e la sessualità. Da quel giorno in poi, come era accaduto con Annabella, il nostro rapporto non fu più lo stesso.

    * * *

    La domenica successiva ricevetti una telefonata da uno dei miei più cari amici d’infanzia, Raffaello, che in quel periodo si trovava in Spagna per lavoro (faceva l’operatore per una televisione satellitare). Mi chiese se volevo andare con lui in vacanza a Tenerife nella seconda metà d’agosto. Erano almeno tre anni che non partivamo per un viaggio insieme e da un po’ stavamo cercando l’occasione giusta.

    «Ho conosciuto un regista madrileno simpaticissimo» mi disse con la voce disturbata dal rumore di un’interferenza acustica. «Mi ha invitato nella sua casa a San Juan de la Rambla, una villa a tre piani che affaccia direttamente sul mare. Mi ha detto di portare chi voglio. Ci sono anche la piscina e un campo da tennis in terra battuta.»

    Non avevo la più pallida idea di cosa fare ad agosto, e l’ipotesi di una settimana con Raffaello lontano da tutto e tutti mi apparve come una vera e propria ancora di salvataggio calata da un deus ex machina.

    «Messa così è la vacanza più economica che potesse capitarci. Come faccio a dirti di no? Basta che il tuo regista non sia uno dei soliti esaltati della televisione. Sicuro che possiamo fidarci di lui?»

    «Devi fidarti di me, non di lui!» gridò Raffaello con uno scatto di risentimento che gli fece vibrare la voce. «Guarda che è un professionista molto conosciuto alla TVE spagnola, non si sputtanerebbe mai con uno del suo ambiente. E poi è una persona alla mano e in gamba, non il solito regista spocchioso e pieno di sé. Vedrai che ci divertiremo.»

    Non ero mai stato a Tenerife, e tanto meno a San Juan de la Rambla. Avevo un’idea imprecisa di spiagge assolatissime e locali notturni pieni di ragazzi sballati provenienti da tutta Europa. Quando andai a cercare su internet rimasi stupito nel vedere la posizione dell’isola. Non mi ricordavo che le Canarie fossero così a sud, praticamente di fronte al Sahara Occidentale, tra il ventisettesimo e il trentesimo parallelo, in una fascia di costa che fronteggiava il basso Marocco. Decisi di mandare subito una mail a Raffaello per ringraziarlo con maggiore entusiasmo. Temevo di essere apparso troppo trattenuto, poco prima, e che ci fosse rimasto male; a volte la sua generosità era così spontanea che, per reazione, o forse per senso di colpa, mi comportavo con lui in maniera fin troppo aggressiva. Tuttavia non feci in tempo a scrivergli una sola riga – anzi, a pensare una sola riga – che subito mi balzò agli occhi un messaggio tra la posta in arrivo. Era stato spedito quella mattina. Il nome del mittente era Beatrice Del Nord, l’oggetto recitava: REGISTRATORE DIMENTICATO.

    Per un po’ guardai quella mail senza aprirla. Mi concentrai sul cognome: Del Nord. Non mi era affatto nuovo: mi fece subito venire in mente Alfredo Del Nord, il fondatore della Dea Nigra, la ditta di orologi di lusso che aveva sede nella zona industriale della mia città. Non sapevo nulla della sua vita familiare, se avesse figli o figlie, quanto fosse alta la probabilità che la mia studentessa – perché era chiaro che quella mail era stata scritta dalla mia studentessa – fosse una sua parente. Alfredo Del Nord era un mito qui in provincia, aveva creato un impero economico nel giro di pochi anni, i suoi orologi erano costosissimi e venivano indossati da attori di Hollywood e ricconi di mezzo mondo. Erano soprannominati le Ferrari del tempo, il loro design era sempre all’avanguardia, la meccanica interna aveva la raffinatezza e la precisione della più prestigiosa tradizione orologiaia svizzera.

    Quando aprii la mail notai che era molto sintetica, non c’erano riferimenti personali né allusioni di alcun tipo, se non qualche puntino di sospensione di troppo.

    Gentile professor Serradimigni,

    venerdì nel suo studio ho dimenticato il mio registratore… sono una sbadata, mi perdoni… come posso fare per recuperarlo? Un cordiale saluto, Beatrice Del Nord.

    La rilessi un paio di volte. Non mi ero accorto del suo registratore, probabilmente lo aveva lasciato sulla mia scrivania accanto alla pila di libri, oppure dietro uno dei raccoglitori che usavo per smistare la corrispondenza. Questa sua dimenticanza mi fece sperare che l’avesse fatto apposta: era venuta al mio ricevimento solo per creare l’occasione di rivedermi. Le riscrissi subito, eccitato da questa possibile interpretazione, evitando sottintesi o proposte d’incontro equivocabili. Le dissi soltanto di ripassare a prenderlo durante l’orario di ricevimento.

    Nei giorni successivi controllai più spesso la posta, ma non mi arrivarono altri messaggi. Anche all’università la attesi nella speranza di vederla di nuovo, ma non venne. Il registratore invece lo trovai dietro il monitor del mio computer, piccolo e rettangolare, con il logo della General Electric sotto il comparto d’inserimento della microcassetta. Ogni tanto, la sera, quando mi mettevo a letto, sfiorando quel registratore come se fosse un’estensione di Beatrice, ripensavo al suo sguardo pieno di imbarazzo dentro il negozio di alimentari, e non riuscivo a fare a meno di eccitarmi immaginando tutto ciò che poteva succedere tra noi. Ma era un pensiero che correva troppo in avanti. Nella realtà Beatrice era solo una studentessa con cui avevo scambiato qualche battuta informale. Niente di più. Poteva solo restare una ragazza da desiderare, la protagonista inconsapevole di una mia fantasia, oppure no. In entrambi i casi il mio corpo e

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