Tutti i miei peccati
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Tutti i miei peccati - Francesco Jovine
Tutti i miei peccati
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1948, 2021 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728081297
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
Reverendissimo Padre,
Ero passata ieri a Santa Maria sopra Minerva. Erano le cinque; c’erano forse dieci persone ad attendere il loro turno; dopo mezz’ora, soltanto due donne erano riuscite a confessarsi. Mi sono accorta che avrei dovuto attendere troppo a lungo.
Sono rientrata a casa dopo esser passata da alcuni amici dove la mia figliola era stata invitata a ballare. Dolores a quest’ora dorme; è rientrata stanca e malinconica dal suo pomeriggio; mio marito è a Milano da una settimana. Io sono sola e non riuscirei certamente a dormire se non le scrivessi quello che avrei dovuto dirle al confessionale. Sarei dovuta tornare da lei oggi; ma, riflettendo, penso che ho piú bisogno del suo consiglio che della sua assoluzione di sacerdote. Non interpreti male la mia affermazione. Aspiro veramente alla pace della coscienza, vorrei veramente avere il perdono di Dio, ma capisco che non è possibile ottenerlo fino a quando le condizioni attuali della mia esistenza non potranno modificarsi.
Mi scusi se questa lettera, che prevedo lunga, le sembrerà affastellata e incoerente; ho bisogno di dirle tutto e non posso farlo in poche parole come nella mia prima confessione, venticinque anni fa. Allora le mie colpe erano ricavate lentamente dalla mia prima seria meditazione infantile; oggi si affollano e si accavallano nella mia coscienza, pesantemente, e non sono accompagnate dall’onesto riconoscimento della mia responsabilità in tutto quello che è accaduto.
Talvolta, risalendo la catena dei fatti che mi hanno portato a questa insostenibile situazione, sono portata ad avere pietà di me, a ritenere che tutti i miei peccati dipendano dalla sciagura che mi sorprese a quindici anni. Le racconterò anche quel primo doloroso avvenimento della mia vita che lei ha appreso da mia madre e cercherò di narrarglielo come soltanto io posso farlo.
Lei, che era amico di mio padre, sa che nel 1927 venimmo a stabilirci a Roma; mio padre, allora ingegnere capo del Genio Civile, era stato promosso e assegnato al Ministero dei Lavori Pubblici. Mia madre accolse senza gioia la promozione e il trasferimento; io ne fui felice.
Arrivammo a Roma alla fine di ottobre; io avevo fatto la prima liceale a Chieti e mi iscrissi al «Tasso» in via Sicilia.
Abitavamo nel primo tratto di via Nomentana e facevo la strada a piedi tutte le mattine.
Fin dai primi giorni mi accorsi che la mia preparazione era insufficiente; le mie compagne erano tutte piú brave di me. Il fatto di abitare per la prima volta in una grande città, l’ignoranza degli usi cittadini, la rozzezza dei miei abiti, il mio stesso accento duro, dialettale furono, per i primi mesi di vita romana, una vera sofferenza.
Invidiavo la scioltezza, la grazia delle mie compagne, la loro caustica monelleria, l’affiatamento franco, disinvolto che c’era fra loro, tutto quello che di levigato, urbano esse possedevano e che io non sarei mai riuscita a conquistarmi.
A scuola, perduta in questi fastidiosi pensieri, non potevo seguire le spiegazioni dei professori; non riuscivo, tornata a casa, a dare ordine alle mie scarse nozioni. Perdevo terreno ogni giorno e mi facevo sempre piú angolosa e forastica. Ero triste, abbattuta, ma mi rifiutavo di dare spiegazioni ai miei genitori del mio strano contegno.
Li ritenevo incapaci di venirmi in aiuto. Mio padre, lei lo ricorda, era un uomo semplice, quasi rozzo; lavoratore valentissimo nella sua professione, attaccato alla sua piccola famiglia. A Roma aveva conservato le sue abitudini; non usciva mai di sera, stava in ufficio anche al di là dei suoi obblighi di orario; il suo unico svago era quello di discorrere interminabilmente con mia madre delle persone care che erano stati costretti a lasciare trasferendosi, o dei luoghi della loro infanzia, delle loro case abbandonate in Abruzzo, delle loro terre. E ridevano ricordando tipi, macchiette di compaesani che io non avevo mai conosciuto. Non facevano neanche il tentativo di assimilarsi alla nuova vita. Non ne parlavano quasi mai, ma io capivo che entrambi avevano un inesorabile disprezzo per i costumi della gente che stava loro intorno.
Erano religiosissimi, come lei sa, e praticanti. La messa, la comunione, i digiuni sacramentali, le feste di precetto, tutto osservavano con una gioia e una serenità che raramente ho visto in uomini non interamente dedicati alla vita religiosa.
Anche io li seguivo alla messa, mi confessavo di tanto in tanto; ma non sono stata mai lontana da Dio come in quel periodo. Ero invasa addirittura da pensieri profani.
Ero diventata donna, da qualche mese; mi era fiorita addosso una carne splendente di salute. Ero, anche allora, piuttosto alta di statura, di forme piene, ma snodata ed elastica; allo specchio mi trovavo gli occhi lucenti e la carnagione vivida; e, talvolta, mi provavo ad imitare atteggiamenti ed espressioni delle mie compagne più belle ed ammirate.
Scusi, Padre, se le racconto delle cose frivole, in apparenza; ma lei saprà, per la lunga esperienza del confessionale, che tutta la vita di una donna può dipendere da queste prime manifestazioni della vanità. Dunque, atteggiandomi come le mie compagne, mi provavo a vincere la mia scorza. Ma bastava che uscissi dalla mia camera, che mi infagottassi nei miei brutti vestiti, per sentire la mia angusta educazione come una corazza infrangibile.
Non riuscivo a fare amicizia con nessuna delle mie compagne; le rare volte che scambiavo qualche parola con qualcuna di loro, mi pareva di avvertire nel loro contegno qualcosa di canzonatorio che aumentava la mia nativa diffidenza e la rozzezza sgarbata del mio linguaggio.
La mia sezione era solamente femminile ma le altre ragazze, all’uscita, in certe lezioni comuni al gabinetto scientifico, mostravano di conoscere tutti i compagni delle sezioni maschili; e quando potevano, si univano a loro nel far baccano con spensierata allegria, con risa, con insinuazioni furbesche, allusioni ad una vita cameratesca dalla quale io ero esclusa. Quegli incontri non facevano che accrescere la mia pena.
Era mia vicina di banco una ragazza bionda, piuttosto grassa, con dei grandi occhi grigi, bovini, di carnagione fresca e di tumide labbra, allegra, chiassona. Un giorno in cui, come al solito, ero con la testa fra le nuvole, mi diede un calcio in uno stinco, all’improvviso, e mi disse con voce sorda e perentoria: – Svegliati, mummia; il professore ti ha chiamato –. Mi alzai come un automa dal banco e mi avvicinai alla cattedra. Il professore mi disse: – Lei vuole essere interrogata, signorina Rostagno? – Credevo che mi avesse chiamata, – risposi io. – No, veramente, ma giacché si trova qui... – Non sapevo nulla, barbugliai qualche sciocchezza. Tornai al banco singhiozzando. In quel momento ci fu il finis e la mia compagna mi si buttò addosso e mi abbracciò: – Su, bambinona, non è la fine del mondo; andiamo, è uno scherzo. Ti avrà dato zero; uno piú, uno meno, che fa? – E mi veniva abbracciando con le sue grasse braccia profumate e mi asciugava le lacrime.
Anche le altre mi si misero intorno, mi fu cacciata in bocca una caramella, alcune improvvisarono intorno a me un girotondo costringendomi a ballare con loro. Un chiasso d’inferno. Si trovò a passare il preside che tolse a tutte un voto in condotta.
La punizione comune, quei gesti di canzonatoria ma forse cordiale fraternità mi piacquero allora e sperai che potessero ripetersi.
Ma non accadde nulla per qualche mese.
Un giorno, sbirciando il quaderno di appunti della mia vicina Rosa Paternò, vidi scritto sull’orlo della pagina «22 settembre; incipit tenente F. B.» e un altro giorno su un’altra pagina: «Da mihi basia, Francisce; mille deinde unum».
Rosa Paternò prendeva appunti in latino della sua vita amorosa. Mescolava Dante e Catullo con i suoi incontri con il tenente F. B.
Dopo quella scoperta la guardai piú attentamente, le guardai la bocca, il seno, ammirai la tranquilla vita ritmica del suo corpo, invidiai i suoi scoppi di allegria decisa, tumultuosa. Oltre le ore di scuola immaginavo le mie compagne in convegni dolcissimi con giovani uomini che le attendevano nei giardini pubblici, nei caffè semibui delle vie intorno a Villa Borghese. Incominciai ad occuparmi della vita della classe con furtiva attenzione; guardavo di sottecchi avanti, indietro, cercavo di sorprendere il piú piccolo gesto; vedevo con trepidazione il passaggio di misteriosi biglietti da un banco all’altro, e i sorrisi, l’ammiccare furtivo degli occhi, i segni di intesa.
All’uscita vedevo le ragazze andarsene a coppie, a gruppi; ma poi i gruppi, le coppie si separavano e ciascuna, cautamente, imboccava una straduccia, un vicolo, e forse si arrestava ad un angolo, in attesa. Io le avrei seguite tutte per sorprendere il loro segreto.
Il martedí e il giovedí le lezioni finivano alle dieci; era stato un cambiamento di orario capitato a metà di gennaio, improvvisamente. Io che rientravo sempre a casa dopo la fine delle lezioni, quel giorno, era un tempo bellissimo, presi a girare per le strade per guardare i negozi, la gente, beandomi di quella inattesa libertà.
Mi piacque tanto quella passeggiata mattinale che non dissi nulla, a casa, del cambiamento, ripromettendomi di adoperare quelle due ore per me, per quel pigro, delizioso gironzolare per giardini e strade. Qualche volta, presa da una irrefrenabile curiosità, mi fermavo in classe mentre le mie compagne erano allo spogliatoio o in cortile; ed esploravo come una ladra i banchi, i quaderni, i libri. E in quasi tutti i quaderni trovavo in margine quelle annotazioni in latino, in italiano, delle date, dei segni misteriosi, degli appunti trascritti con alfabeto greco.
Quelle venti ragazze vivevano una vita intensa, incantevole. Le ore di lezione non erano che un gioco, una specie di pretesto familiare per occultare un espandersi dolce e libero delle loro esistenze. Io sola vivevo una vita solitaria, disperata.
Venne la primavera. Sotto i grembiuli scolastici, dischiusi, incominciarono ad apparire vestiti vivaci; le zazzerette delle compagne si aggrovigliavano bizzarramente sulle fronti, sugli orecchi. Durante gli intervalli le ragazze si ammiravano reciprocamente gli abiti nuovi. Mani delicate ed affettuose stiravano un lembo di vestito, creavano una onda bizzarra nelle chiome.
— Ecco, dovresti farti un’accorciatina qui, far rimontare questa ciocca. – Lo scollo è troppo stretto. – La spalla è troppo rotonda. – Su la testa, amore! – Si incitavano ad essere belle come se la grazia comune potesse dar forza alla loro amorosa congiura.
Io portavo i capelli lunghi, avevo una crocchia pesante che mi gravava sul collo e mi dava l’aria di una serva di campagna.
Mio padre mi aveva proibito di farmi tagliare i capelli. Un giovedí, erano forse le undici, vagavo come al solito, in quelle ore di libertà, per le strade tra piazza Barberini e piazza Fiume. A un tratto, mentre guardavo una vetrina, mi accorsi di avere alle spalle un uomo. Mi spostai leggermente verso sinistra; l’uomo si spostò con me. Era un ufficiale di marina, giovane, alto, di viso scuro e magro che sorrideva vagamente alla mia immagine riflessa nel cristallo.
Mi voltai di scatto e lui portò la mano al berretto. Ripresi la mia strada dicendo a me stessa che la presenza di quell’uomo era del tutto casuale; un gesto di semplice cortesia il suo saluto. Mi fermai ancora; l’uomo mi raggiunse e mi si parò davanti. Feci uno scarto a destra e mi misi a correre quasi fossi impazzita.
Per qualche giorno non lo vidi. Ma il lunedí seguente lo ritrovai all’angolo di via Sicilia; mi si avvicinò e mi disse, guardandomi tranquillamente negli occhi:
— Io non sono una belva. Lei è fuggita l’altro giorno come se temesse di essere sbranata.
Risposi stupidamente:
— Avevo fretta.
— E stamattina?
— Anche stamattina.
— Allora scapperà come l’altro giorno?
Aveva un fare mite, cordiale, leggermente ironico. Io lo venivo guardando e ammirando e gli camminavo a lato, lentamente.
— L’altro giorno lei si è comportata come una bambina selvaggia. Ma da dove viene, lei?
— Sono abruzzese, – dissi.
Lui si mise a ridere come se il fatto lo divertisse molto e poi disse in dialetto:
— Ma sono abruzzese anche io. Gira gira, una ragazza che mi piace, è abruzzese. Se lo sapesse zio don Angelo... Poi le racconterò chi è zio don Angelo.
Smise di parlare in dialetto e tornò al suo italiano neutro con le esse leggermente sibilanti che in un primo momento me lo avevano fatto scambiare per un settentrionale.
Mi disse:
— In fondo lei non era molto lontana dalla verità; ho fatto tutto il liceo a Bologna e i primi cinque anni di Università. Mi sarei dovuto già laureare; ma per adesso faccio il soldato.
Parlava con un distacco tra il sorridente e lo sprezzante e fumava ininterrottamente.
— Lei si meraviglia che io sia in marina? Sono nato a Puntapenna e alla visita mi hanno riconosciuto delle qualità marinaresche. Ma sono di complemento; fra sei mesi spero di essere fuori di questa vita. Ho ventisette anni, mi era scaduto il ritardo concesso agli studenti, non c’era niente da fare.
Io lo ascoltavo incantata. Il fatto che il tenente De Francisci fosse delle mie parti, che parlasse di se stesso subito, con quella aperta franchezza, mi aveva rassicurato. Stemmo circa un’ora insieme; però quando lo lasciai non gli promisi di rivederlo. Ma tutti i giorni lo trovai ad attendermi all’angolo di via Romagna; mi seguiva per qualche passo e poi diceva: «Buon giorno» e mi si metteva a lato.
A volte rimaneva taciturno per lungo tempo. In quei giorni aveva le palpebre orlate di rosso e il viso pallido. Io non osavo fargli domande.
Mi accompagnava verso casa, senza pregarmi di deviare; a un tratto mi porgeva la mano e mi diceva: «Ciao» e si allontanava spedito come fosse stato contento di liberarsi della mia presenza.
Una