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Flash di un'alba
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E-book227 pagine3 ore

Flash di un'alba

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Info su questo ebook

Si può ricostruire un periodo storico a noi lontano, descrivendone aspetti di vita quotidiana nella quale si mischiano desideri, comportamenti, progetti e valori di un agire collettivo che ha coinvolto, affascinato e motivato “un’intera generazione”. Essa, in un’Italia postbellica che era un cumulo di macerie non solo materiali, è stata attrice e testimone insieme, di un periodo di rinascita della società, permeato dalla speranza e dall’ottimismo. Il paese viveva così la propria alba, come noi più piccoli biologicamente, vivevamo la nostra.

Mi sono chiesto se i ricordi potessero apparire come un esercizio retorico e nostalgico. Diventano tali se ci limitiamo alla rievocazione; sono importanti invece se offrono lo spunto per un confronto con il presente. Questa verifica è fondamentale per pensare il proprio futuro.
LinguaItaliano
Data di uscita3 dic 2014
ISBN9788891166135
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    Anteprima del libro

    Flash di un'alba - Gino Benvenuti

    prefissata.

    I Primi ricordi

    Le uniche testimonianze dei primi anni della mia vita sono alcune fotografie: una di quando avevo sei mesi con una gigantesca banana bionda, tutto nudo sul lettino del fotografo imbestialito, a dire di mia madre, perché vi feci una pisciata incredibile, un'altra di quando all'incirca avevo tre anni, già abbastanza pasciuto, nella quale portavo un cappello di pelo munito di copri-orecchie legati sotto il mento che mi valse il soprannome di piccolo russo, un'altra ancora in cui era vestito alla marinara in piazza del Duomo, con mia madre che indossava un cappotto bianco, delle scarpe con la zeppa e una borsa a busta. Mi teneva per mano e mi osservava mentre facevo l'occhiolino al fotografo. Altri tenui ricordi sono alcune immagini ormai sfuocate che mi riportano all'asilo delle suore dove una sciagurata caduta mi procurò un trasporto d'urgenza verso l'ospedale Meyer da cui tornai con alcuni punti di sutura sulla fronte (in quel punto ancora oggi mi cresce un capello), a uno spintone ricevuto da mia madre che aveva gridato qualcosa contro un drappello di poliziotti davanti alla fabbrica Salvadori dopo l'attentato a Togliatti mentre ero per mano con lei. Sicuramente nella mia infanzia i ricordi più frequenti sono legati alle uscite con colui che chiamavo nonno Adolfo, perché mia madre, vedova con due figli, andava a servizio per molte ore al giorno e mia sorella frequentava una scuola di avviamento commerciale. Era il padrone di casa e noi abitavamo con lui in subaffitto. Morì quando avevo poco più di 9 anni.

    Santa Susina*

    -Domani è Santa Susina e si va a scuolina... capito Nini!**- ridacchiò mia madre mentre mi provavo il grembiulino nero e il collettino bianco sistemato con dei bottoni automatici come per sottolineare, che ormai la pacchia era finita e dal giorno seguente, per me come per altri, la vita avrebbe subito una brusca interruzione imponendo nuovi ritmi e nuovi compiti. Quella volta il detto toscano riguardava me e questo evento era irripetibile. Ricordo i giorni precedenti il mio battesimo scolastico che furono vissuti con grande contentezza, ma anche con apprensione come tutte le esperienze inedite. Per me questo evento, fu un misto di paura e curiosità com'è naturale che fosse, per una creatura infantile. Una volta sistemato il grembiulino, feci visita a uno dei miei amici nel condominio che come me se lo stava provando.

    La mattina seguente mi alzai prestissimo e mia sorella prima di uscire di casa, mi salutò facendomi gli auguri. Nonno Adolfo, che nella sua vita aveva fatto anche il calzolaio, mi aveva preparato una tracolla con una striscia di cuoio che odorava ancora di tintura, per la cartella di fibra con una fibbia metallica. La portai per il puro gusto di farla vedere, essendo ancora vuota. Non fui il solo con questo proposito, perché anche altri avevano già una cartella di pelle che profumava di nuovo e ostentavano con soddisfazione.

    Nessuno sapeva scrivere e nemmeno cosa doveva comprare ma era importante mostrarla, e fare dei paragoni. Con grande anticipo mi ritrovai nel piazzale della scuola elementare maschile G. Garibaldi che si presentava come un bell'edificio a due piani con ampie finestre, un grande giardino con un alto muro di cinta e due giganteschi lecci. Nella parte più lontana dalle classi, c'era un piccolo edificio adibito a palestra e successivamente anche a refettorio per coloro che erano più bisognosi.

    In attesa di essere chiamato, vidi anche amici che non frequentavo tutti i giorni ma che incontravo all'oratorio dove, tra una partita e l'altra a pallone, apprendevo i primi rudimenti del catechismo cattolico. Alcuni li salutai e ne ignorai altri. Non poteva che essere così perché ognuno portava con sé abitudini, frequentazioni diverse ma soprattutto perché a fronte della novità, le preferenze scattarono come riflesso condizionato e forma di difesa. Nei momenti di difficoltà, è naturale che uno cerchi di fare gruppo con gli amici di tutti i giorni.

    In quel piazzale che andava riempiendosi facendo aumentare il brusio ciarliero, era riunito un campione dell'infanzia del quartiere. Se l'evento scolastico ci accomunava, era anche vero che non tutti arrivavamo con gli stessi requisiti sociali a quell'appuntamento. Si notavano i segni di una selezione che, impietosamente, la società aveva in parte stratificato all'interno di ognuno di noi. Parlavano da sé soprattutto il vestiario dei genitori e il loro modo di dialogare. Per i bambini, il grembiulino nero con il colletto bianco, sembrava funzionare da denominatore comune, ma era un'uniforme ingannevole perché, a un'osservazione più attenta, appena l'occhio scendeva sotto l'orlo, le scarpe e anche i calzini lunghi o corti mostravano a un primo impatto la differenza.

    Per un attimo la scuola, che andava riempiendosi, fu simile a una stazione e gli alunni dei viaggiatori provenienti da paesi diversi in attesa di montare nello stesso treno. Ognuno con le proprie storie personali, i propri pensieri, il proprio linguaggio che rifletteva discorsi sentiti dagli adulti nelle loro famiglie. Abitare nello stesso quartiere era secondario.

    In attesa di essere chiamato, restai nel piazzale accanto a mia madre. Con lo sguardo ansioso cercai di incontrare i miei compagni di giochi. Ne vidi arrivare due accompagnati dalle loro mamme e li chiamai agitando un braccio. Mia madre raccomandò di non muovermi.

    -Siete arrivati finalmente- dissi.

    -Ci siamo dovuti fermare perché lui ha fatto le bizze. Non voleva venire. Ti rendi conto Bruna?- brontolò la mamma di Giuseppe.

    -Son cose che capitano Dina…vedrai che dopo si appassionerà- rispose la mia.

    L'altro era già in seconda e si trattenne poco con noi. Subito cominciammo a commentare facce, parlare dei nostri giochi e cercare altri amici. La spontanea simpatia o antipatia si giocava su pochi elementi. Furono appesi i cartelloni provvisori sulla composizione delle classi sul cancello metallico e vennero presi d'assalto. Giuseppe, che abitava a piano terra, si affiancò a me.

    -In che classe sei?-

    -La A, prima A e tu?-

    -Prima C-.

    Arrivò anche Vittorio che abitava nel palazzo di fronte e gli chiesi dove era stato sistemato.

    -Mio padre ha detto nella prima B-

    -Ci hanno diviso tutti e tre- commentai con rammarico.

    -Perché non andiamo dalle nostre mamme e ci facciamo mettere insieme?- propose Giuseppe.

    Nemmeno a parlarne. Le madri coalizzate quasi simultaneamente dissero:

    -Meglio, così almeno studiate di più e poi abitate nello stesso stabile, ne avrete tempo per stare insieme!

    -Hai capito? Vogliono subito fare la congrega!-

    -No, io non intenzione di fare amicizia con degli sconosciuti!-brontolò il mio amico.

    -Giusto!- rincalzai.

    Vittorio tacque guardando l'uniforme di suo padre che accennando a un sorriso dopo le nostre parole, rimase sempre silenzioso.

    C'erano anche gli alunni delle classi superiori che però sapevano già dove andare e liberarono il piazzale entrando dalla porta principale. La chiamata tardò ad arrivare e i genitori ingannarono il tempo confabulando tra loro. Mia madre, chiese a una signora che ore fossero e mi fece presente che entro dieci minuti si doveva incamminare per andare a servizio. Notai che un genitore cercò di consolare e convincere il proprio figlio piangente fino a che non comparvero sia la segretaria che il direttore. Quest'ultimo cercò di smorzare il vocio inevitabile e infine con un gesto perentorio prese la parola:

    -Signore e signori un attimo di attenzione; prego!- e qui si interruppe.

    Bastò questo richiamo perché nel giardino calasse un silenzio sepolcrale. Non ebbe bisogno di alzare il tono della voce e riuscì a farsi ascoltare. Inevitabilmente il discorso cadde sulla scuola come primo momento di impegno e crescita della nostra vita, dove si rispetta la disciplina e ci si deve impegnare per onorare gli sforzi della famiglia, in questo momento difficile, e per diventare in futuro dei bravi cittadini, cosa di cui la patria sarebbe stata orgogliosa; infine raccomandò ai genitori, di non accompagnare i figli in classe nei giorni successivi e concluse:

    -Adesso ognuno di voi verrà chiamato dalla segretaria e vi sistemerete in colonna. Dopo il custode o la custode vi porteranno nella classe a voi assegnata-.

    La segretaria iniziò la lettura dei nomi con cui si componevano le classi. Alcuni al momento di staccarsi dai genitori, riottosi cominciarono a piangere e fare i capricci ma alla fine con metodi spicci furono aggregati agli altri.

    Una volta chiamato, mia madre mi dette un bacio sulla guancia e mi ammonì: -Ricordati che quando finirà la lezione dovrai tornare subito a casa. Io devo andare a lavorare. Guarda bene la classe perché da domani verrai e tornerai da scuola da solo. Fai il bravo mi raccomando!-.

    In fila per due varcammo la soglia della scuola.

    Curiosità, animazione, timidezza, qualcuno con il broncio, altri contenti, ci mettemmo in fila nel corridoio preceduti dalla custode. Tutto filò liscio fino a cinque o sei metri dalla soglia dell'aula quando lei, spostandosi, ci indicò l'aula. La voglia di entrare per primi fu più forte di ogni cosa. Prima si aumentò il passo, poi cominciammo a sorpassarci a vicenda e alla fine sulla porta di ingresso ci fu una mischia e qualcuno rischiò di cadere. Nessuno voleva stare nella prima fila di banchi.

    L'aula abbastanza luminosa era disposta ad angolo e alcune finestre davano sulla strada. La custode, una signora di mezza età con una gabbanella celeste, rimase sulla porta e in attesa della maestra ci dette delle disposizioni:

    -Quando entrerà in classe la maestra, vi dovrete alzare in piedi e dirle buongiorno signora maestra. Sedetevi solo dopo che lei vi darà il permesso e mettetevi con le braccia conserte-.

    Dall'esterno alcune mamme sventolando la mano chiamarono i loro figli e per un attimo qualcuna riuscì anche a farsi notare. Accanto a me un ragazzo piangeva perché voleva tornare a casa. La custode lo consolò e appena la maestra arrivò sulla soglia, si soffermò a parlare con lei accennandolo. Appena la custode chiuse la porta ci alzammo in piedi.

    -Buongiorno signora maestra- fu il coro con cui la accogliemmo.

    -Bravi, bravi- rispose compiaciuta la signorina Guidotti, una donna molto magra e a un primo impatto affabile, prima che arrivasse alla cattedra.

    Lei si sedette e un alunno pensò bene ingenuamente di sedersi pure lui e per questo venne immediatamente redarguito.

    -Chi ti ha dato il permesso di sederti?- ammonì severa aggiustandosi gli occhiali.

    Si rialzò subito mettendosi sugli attenti mentre qualche risatina o ammicco lo fecero sentire tapino.

    -Come ti chiami?-

    A stento fece il proprio nome e cognome.

    -Per tua e vostra norma, quando vi chiedo come vi chiamate dovete dire prima il cognome e dopo il nome e non il contrario. Capito?-

    Tutti annuendo scuotemmo la testa in silenzio.

    -A sedere…ora procederò all'appello e colui che verrà chiamato dovrà venire qui accanto alla cattedra perché voglio imparare a conoscervi-.

    Una volta effettuata l'identificazione di tutta la classe la maestra ribadì:

    -Ora che avete preso possesso del vostro posto, non cambiatelo se non ve lo dico io-

    Anche lei ci fece un sermoncino. Ci fu ricordato che per noi sarebbe stata la prima svolta nella nostra vita e, se giudiziosi, avremmo posto il primo mattone della nostra esistenza perché dallo studio inizia il percorso di uomini, dopodiché ci fu detto quale libro e quaderno comprare.

    -Ricordatevi di dire al cartolaio per la prima elementare G. Garibaldi sezione A quando comprate il quaderno e il libro. In seguito vi dirò altre cose da comprare. Per oggi va bene così- concluse prima di ribadire alcune norme comportamentali tra cui quella di alzare la mano se uno doveva andare in bagno.

    Uscimmo dopo circa due ore e la maestra ci accompagnò fino alla porta della scuola salutandoci. Nel pomeriggio, comprato il libro, mi misi contento a sfogliarlo.

    Nei giorni successivi, avuto tutto l'occorrente, cominciai a fare l'inventario del materiale scolastico con grande cura. Una gomma morbida, una più dura, due lapis, una serie di pennini da infilare nella cannuccia metallica, un appunta-lapis semplice, il tutto inserito dentro un astuccio di legno che si apriva nella parte superiore. Inoltre avevo un foglio di carta assorbente, un quaderno con le pagine a quadretti grandi e un altro con delle righe predisposte per le dimensioni della scrittura.

    *Motto toscano per indicare l'inizio dell'anno scolastico

    ** Vezzeggiativo usato nelle campagne fiorentine per chiamare un bambino

    La Scuola elementare

    Essa cominciò con le aste e dopo con i tondi e quindi componendo aste e tondi proseguì con pagine intere sulle lettere dell'alfabeto da fare come compito a casa.

    La nostra insegnante ci seguì fino alla seconda e quando vedemmo presentarsi un nuovo maestro, il primo giorno della terza elementare, ne fummo dispiaciuti. Lui stesso ci informò che la nostra maestra era andata in pensione. Di quel biennio rammento i primi componimenti e i primi dettati, di essere stato messo in castigo dietro la lavagna faccia al muro dopo un vediamo se continui a parlare ancora mentre spiego. Mi mancavano solo le orecchie di asino come si vedeva sul libro di scuola e, trafitto dalle risatine, restai a lungo in quella posizione.

    Mi ricordo anche un encomio per un piccolo tema sul mese di Maggio quando volle leggerlo alla classe. Suonava pressappoco così: il mese di Maggio è il più bel mese dell'anno perché è nata la mia mamma che mi vuole tanto bene. A Maggio ci sono anche tante rose e io posso regalarne una per il suo compleanno. Lo fece vedere anche alla bidella quando entrò in aula per comunicazioni di servizio.

    La maestra parlava sempre con il sorriso sulle labbra ma quando uno scolaro una volta non si alzò in piedi rispondendo presente, lo fece andare alla cattedra additandolo come ottimo esempio di mancanza di rispetto.

    -Torna adesso al tuo posto- gli disse prima di continuare a fare l'appello -e se questo comportamento verrà ripetuto, scriverò una nota sul tuo quaderno che dovrà essere firmata dai tuoi genitori. Cominciamo subito a chiarire le regole da rispettare!- concluse con cipiglio severo.

    Gelo in aula. Ci guardammo meravigliati.

    La maggioranza dei frammentari ricordi di quel ciclo scolastico, insieme al primo giorno, si concentrarono comunque negli ultimi due anni e soprattutto sulla figura del nostro vecchio maestro, con il suo accento vagamente emiliano, subentrato al precedente deceduto durante l'estate. Alto, scontroso, lo ricordo sempre arruffato quando, marcatamente claudicante, con il suo impermeabile liso su cui portava un distintivo da grande invalido, appoggiava un libro sulla cattedra e si sedeva prima di iniziare la lezione.

    Se arrivava prima del suono della campanella soleva estrarre da una bustina una sigaretta, la palpeggiava e la batteva ripetutamente sulla cattedra. Una volta non si accorse che per renderla più compatta, la sigaretta piano piano si svuotò. Quando l'accese, la fiamma la finì a metà. Io non riuscii a trattenere il riso e mi misi con la testa tra le braccia conserte, sfiorando con il naso il banco per non farmi vedere. Inutile. Sentii solo un Benvenuti, animale, cosa hai da ridere?.

    Di colpo cercai riacquistare un tono più serio ma lo stomaco mi traballava. Seduto tra i banchi della terzultima fila, perché così preferivo in quanto credevo di essere più lontano dal controllo severo per poter facilmente parlare con qualcuno, guardai il maestro che da sotto gli occhiali tenuti sulla punta del naso scrutava tutta la classe. Nel silenzio assoluto, sbottò in un boia di un mondo leder sbattendo il palmo della mano sulla cattedra.

    Lui, nonostante la sua invalidità, passeggiava tra i banchi. Aveva una scarpa diversa dall'altra molto più grossa e non sapevamo se era di legno. Una volta al colmo dell'ira tirò un calcio alla cattedra che si aprì con uno schianto. Il piede gli rimase incastrato. Cercò di estrarne la punta ma non vi riuscì subito e indicò al capoclasse di andare a chiamargli il custode. Ci fu chi sbiancò, nel sentirlo imprecare, ma anche chi cominciò a ridere. Il diligente Guerrini ritornò con il custode che con un cacciavite, facendo leva, riuscì a disincagliargli il piede.

    Un'altra volta, il custode finito il controllo della stufa, disse:

    -Ha bisogno di altro maestro?- chiese guardandolo a lungo.

    Il maestro dette un'occhiata e poi decise:

    - Bartolozzi, dietro la lavagna!-

    -Io non ho fatto nulla- rispose lui in malo modo.

    Presago di quello che gli sarebbe successo, si aggrappò al banco e allora imperiosamente il maestro gli indicò l'uscita. Il custode Giuseppe, un uomo tarchiato e robusto, autorizzato dal maestro, fece uscire dal banco monoblocco l'altro alunno che si mosse a fatica perché era grassottello e si accostò subito con le spalle alla parete. Il custode accennò ad alzare il banco con sopra il Bartolozzi fino a che egli desistendo dalla sua ribellione, garantì che sarebbe uscito da solo nel corridoio.

    Fui costretto a controllare il mio riso e per farlo guardai a lungo il maestro con la mano davanti alla bocca. Lui mi fissò e io immobile mantenni la mia posizione.

    Alla fine in modo perentorio mi comandò: -Allora Benvenuti, vieni a recitare San Martino così sarai costretto a parlare!-

    Il suo intento era chiaramente punitivo perché chi ride non è

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