Con le valigie sempre in mano
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Anteprima del libro
Con le valigie sempre in mano - Rita Graniero
vita.
Quando le regole stanno strette
Sono sempre stata una ribelle. Sarà stato quel sentirmi non desiderata, criticata, colpevolizzata, fatto sta che fin da piccola sentivo la necessità di oppormi all’ordine costituito, alle regole, ai benpensanti. Io volevo, in un certo senso dovevo, verso me stessa, essere diversa dagli altri, dalla mia famiglia, dalla borghesia che mi soffocava e che mi teneva in catene.
A Battipaglia negli anni ’60 mio padre era il direttore dell’Ufficio delle Imposte: rispettato, onorato, sempre sotto i riflettori del paese, della gente, e così anche la sua famiglia. Era impossibile fare, pensare o dire qualcosa che scavallasse le regole. Peccato che come terza figlia nacqui io, una che voleva sempre capire il perché delle cose, le motivazioni dei divieti, una che voleva andare a fondo e vivere il suo tempo. Ero il perfetto capro espiatorio per tutto ciò che accadeva in casa, tutti erano sempre arrabbiati con me, tutti mi sgridavano.
«Rita basta!» e «Rita smettila!» erano rimproveri che ricorrevano per tutto il giorno e mio padre, forse per alleggerire gli impegni materni, durante le vacanze estive mi concedeva
di andare a passare le giornate con lui in ufficio, con mio grande disappunto ma con profondo sollievo di mia madre.
Mio padre amava viaggiare, quindi, se non lavorava, in estate si andava al mare o si viaggiava. Avevo dodici anni quando organizzò un viaggio di un mese con tutta la famiglia durante il quale attraversammo diverse regioni d’Italia e poi la Francia, andammo a Nizza e a Montecarlo per poi ritornare in Liguria, e da lì fare rientro a casa.
Ricordo di quel viaggio un’infinità di città, piazze e chiese dove io immancabilmente mi sentivo male quando i miei si fermavano per la messa.
Forse non ero compatibile con quell’atmosfera solenne e austera...
Man mano che crescevo, crescevano anche i divieti. Se prima potevo giocare in cortile insieme a mio fratello Rocco e ai suoi amici e vicini di casa, quando cominciai a essere una ragazzina non potevo più farlo e, dal balcone di casa, li guardavo giocare ai giochi che mi piacevano tanto palla avvelenata
, i quattro cantoni
… ma perché ero nata femmina? Torturavo mia madre che non mi aveva fatto maschio. A cominciare da mio fratello, ritenevo i maschi dei privilegiati: ora capivo perché mia sorella Mena, più grande di me di cinque anni, non era mai in cortile a giocare! Questa disparità di trattamento era una vera e propria ingiustizia.
La voglia di ribellione si manifestò anche nei confronti di mio padre, a partire dall’imposizione dei calzini: uscivo da casa con i calzini per andare a scuola e appena fuori dal portone me li toglievo, rompendo le leggi d’uso alle ragazzine per bene. Alcune compagne di scuola indossavano addirittura i collant trasparenti, forse erano effettivamente più grandi di me, e io volevo sembrare grande come loro.
La mia scuola media si trovava all’interno dell’edificio comunale. Un giorno scoprii una scala interna che dalla parte dedicata alle aule portava agli uffici comunali e alla terrazza. Fu l’insegnante di francese, che abitava lì di fronte, a sorprendermi mentre, chissà perché, su quella terrazza mi ero messa a rubare le lampadine colorate che venivano accese durante le ore notturne. E arrivò la prima sospensione a scuola. Potevo dirlo a mio padre? No, il terrore era troppo. Passai così dieci giorni a far finta di andare a scuola, uscendo regolarmente la mattina impugnando la cartella per poi piazzarmi alla stazione ferroviaria di Battipaglia, che allora era un importante snodo per i treni da e per il meridione. In quella stazione passavo le ore guardando la gente, osservavo i volti, le valige, i passi svelti e immaginavo le altre vite, mi facevo dei film sulle storie altrui, lontane da lì. Naturalmente non avrei mai potuto confessare in famiglia quella sospensione, e ancor meno il fatto che l’avessi nascosta. A scuola non avevano mai visto mia madre, così fermai per la strada la prima signora che plausibilmente avrebbe potuto esserlo e, con una scusa, la convinsi a farsi passare per mamma.
«Mia madre e mio padre lavorano e non possono venire…». Lei mi accompagnò, sorbendosi anche tutte le ramanzine degli insegnanti. Santa donna! Per mia fortuna non si fece troppo domande sulla poco credibile scusa che le avevo dato...
Ma da quell’esperienza non volli imparare e mi feci scoprire nuovamente mentre, sempre attraverso la scala interna, portavo un messaggio d’amore al filarino di una mia compagna che aspettava negli uffici del Comune. Fui nuovamente sospesa e in quell’occasione non mi ridussi ad andare a guardare i treni: ci salii sopra e, insieme ad alcune amiche, andammo a Salerno, passammo la mattinata in un grande magazzino e poi rientrammo a casa in tempo per sentire suonare la campanella della fine delle lezioni. Nonostante le varie sospensioni, di cui mio padre venne a conoscenza solo di una, ero piuttosto brava a scuola, mi piaceva studiare, tanto che per tre anni consecutivi vinsi delle borse di studio. Fu questo a salvarmi dalle ire paterne!
Avevo tredici anni, amavo i Rolling Stones e mi scatenavo ascoltando Satisfaction
e Paint it black
, eppure mi ritrovavo regolarmente nel grande salone di casa, sovrastato da un imponente lampadario di cristalli, a imparare il valzer con mia sorella Mena e mia madre a fare da insegnante. Non so perché, ma per mamma era essenziale che noi imparassimo a ballare il valzer. Forse questo fu utile a Mena, quando si fidanzò con colui che poi divenne suo marito, un bersagliere, con il quale andava alle feste di gala a Villa di Persano, in abito lungo, salutata dai baciamano e dalle rose donate a signore e signorine. E io le andavo dietro, a farle da damigella, perché senza la guardia del corpo
non poteva andare da nessuna parte. Bè, non avrebbe potuto… in realtà un paio di anni prima successe un aneddoto piuttosto comico a questo proposito. Mena aveva sedici anni e il suo primo fidanzatino, con il quale poteva uscire solo con la mia scorta. Poi, naturalmente mi lasciava sotto a un portone e mi passava a riprendere una volta finito l’incontro con l’amato. Accadde che un giorno litigarono, lei gli scrisse una lettera che poi decise di non consegnargli, la fece in mille pezzettini e la gettò nel water. Ma siccome era scritta sulla spessa carta di quaderno di allora, anziché finire nelle fogne tappò lo scarico. Papà se ne accorse, s’incuriosì, si armò di pinzette e tirò fuori, uno per uno tutti i pezzetti della lettera, la ricostruì e in questo modo venne a scoprire che, anziché lasciarmi fare il terzo incomodo, mia sorella mi liquidava da qualche parte ad aspettarla. Ovviamente se la prese con me, che non avevo vigilato a dovere…
Seguire mia sorella aveva anche i suoi vantaggi. Quando era invitata alle feste andavo anch’io e mi divertivo a guardare come ballavano e ad ascoltare la musica. Feci l’imbucata
fin quando ebbi dodici anni: diventando grande, i suoi amici cominciarono a invitare ufficialmente anche me, e quella sensazione dei primi balli sulle canzoni di Michele o di Peppino di Capri mi è rimasta dentro ancora oggi.
Quando dovevamo andare alle serate di gala nella villa di Persano, era eccitante seguire i preparativi, la scelta dell’abito tra quelli che la sarta portava a casa, la sfilata davanti allo specchio della camera di mia madre. L’obbligo dell’abito lungo riguardava solo mia sorella, per fortuna, a me era concesso l’abito corto. E meno male! Io adoravo le minigonne che, naturalmente, mettevo di nascosto. Uscivo di casa con i pantaloni che toglievo sul pianerottolo di casa e rimanevo con la mini che avevo già infilato insieme ai pantaloni...
Adolescenza tormentata
Il suo più grande errore mio padre lo fece quando, dopo avermi fatto credere che avrebbe seguito il mio desiderio di farmi diventare Capitano di lungo corso, una volta terminata la mia terza media mi vietò di iscrivermi all’Accademia Navale di Portici perché mi portava lontana da casa. «Sì, va bene - mi diceva quando ne parlavo con lui, - ora finisci le medie, poi ne riparleremo». Poi arrivò il divieto. Rimasi delusissima, piansi per tutta l’estate. Come alternativa proposi il Liceo Classico, almeno mi sarei ritrovata con le mie amiche, e poi mi piaceva studiare, avrei tanto voluto farlo. Ma anche quello mi fu vietato perché non era il caso che io prendessi l’autobus per gli spostamenti per arrivare a scuola! Così fui costretta a iscrivermi a Ragioneria e a provare risentimento, per sempre, verso quel genitore così padrone
della mia vita.
Come la maggior parte dei cattolici, anch’io non ero praticante. Sì, ogni tanto andavo a messa la domenica, ma ero cattolica solo perché lo era la mia famiglia.
Ero in seconda superiore quando un giorno, a scuola, entrò il Preside: «Ragazzi dobbiamo fare onore al nome della scuola, dobbiamo partecipare al concorso Veritas
e dobbiamo vincere. Il tema più bello della Provincia sarà premiato e chi lo farà andrà in udienza da Papa Paolo VI a Roma».
Quando il Preside lasciò l’aula, il professore ci spiegò che l’argomento dell’elaborato doveva essere l’enciclica Rerum Novarum
, che in quel momento storico dava risalto anche alle questioni sociali, sebbene in modo limitato rispetto alle istanze dei sindacati e dei partiti.
Colsi al volo l’occasione. Era da tempo che volevo andare a Roma, vedere la città per me simbolo di modernità, progresso e cultura.
Studiai l’enciclica, preparai il tema e lo consegnai come gli altri compagni di scuola che avevano accettato di partecipare.
Avevo già dimenticato l’episodio quando, mesi più tardi, arrivò la comunicazione che avevo vinto io, presentando il miglior tema della provincia.
Sarei partita, e con il beneplacito della famiglia! Sarei andata, sì, con i preti, ma questo non aveva importanza: andavo a Roma!
Quelle luci di sera, le strade affollate a tutte le ore, la storia vista da vicino… per me si apriva un mondo, vedevo già il mio futuro in una grande città. Il viaggio di ritorno fu triste: l’idea di tornare alla mia piccola realtà di paese era opprimente, e anche se l’esperienza era stata brevissima, solo una notte fuori casa, ci volle tempo per rientrare alla normalità.
L’interesse politico
Non ero interessata alle materie che studiavo, ma continuai a non avere problemi fino in terza, quando iniziai a interessarmi del mondo esterno, oltre la scuola. Avevo sedici anni, avevo conosciuto un ragazzo di un anno più grande che si interessava di politica e cominciai a farlo anch’io. Avevo sentito sempre e solo mio padre fare dei commenti sui politici durante il telegiornale della sera: «Ora tutti zitti!», ci diceva quando cominciava il telegiornale. Lui era un democristiano di destra, invece il mio ragazzo era di sinistra, aveva un fratello più grande iscritto al Partito Comunista con cui si confrontava e condivideva le idee, e io ascoltavo per la prima volta opinioni diverse da quelle di mio padre. Le idee della sinistra diventarono le mie, il rifiuto della guerra nel Vietnam e di tutte le guerre, le istanze degli operai per il miglioramento delle condizioni di lavoro che portarono alla nascita dello Statuto dei Lavoratori
nel 1970, quelle degli studenti per una scuola