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Il ramarro
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E-book393 pagine5 ore

Il ramarro

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Info su questo ebook

I soldati superstiti della Legio Romana XVII, secondo una nuova ricerca, invece che dispersi, potrebbero essere stati i primi coloni di una isola montana al centro delle Prealpi Venete. Fondarono Axum ago che bruciò secondo una profezia della dea teutonica Velleda. Tutto si legò al numero cabalistico 17. Sulla stessa isola montana, nei secoli, il numero 17 fu sempre il protagonista propiziatorio o nefasto, a seconda della sua interpretazione, primo attore negli eventi che accompagnarono questa fiera popolazione montana. Nello studio di un noto avvocato scledense, l’ultimo atto profetico viene documentato, nato dalla cronaca di un immane rogo divampato il 17 novembre del 2007. Coinvolti sono, padre e figlio, Edgardo contro Edgardo, della dinastia romana più importante dell’isola montana, i quali contrapposti l’uno all’altro, si combatteranno in un duello legale senza esclusione di colpi. Saranno l’interpretazione dello scorrere del tempo e la brama dell’uomo spinto dalla sua avidità e avarizia i moventi delle vicende umane amorose, mondane e festaiole colmare la vita di montagna fino a quando gli intrighi, come quelli delle corti regali, non presero il sopravvento e mutarono per primo l’uomo, relegandolo ad animale per mano della donna sciamano, regina di corte della Regola della Hoba. Secondo: l’avverarsi a conclusione della vera profezia che contrappose fin dall’inizio della storia le dee latine Ostera e Ganna contro Velleda che sotto le sembianze di vera donna amò Edgardo donandogli un figlio.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2012
ISBN9788862596626
Il ramarro

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    Anteprima del libro

    Il ramarro - Maurizio Antonio Rigoni

    IL RAMARRO

    Maurizio Antonio Rigoni

    Romanzo

    Vecchio detto:

    IL PESCE

    PUZZA

    DALLA TESTA.

    PERO’

    MARCISCA IN FRETTA

    EDIZIONI SIMPLE

    Via Weiden, 27

    62100, Macerata

    info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it

    ISBN edizione digitale: 978-88-6259-662-6

    ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-570-4

    Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand

    Via Weiden, 27 - 62100 Macerata

    Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.

    Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.

    Prima edizione cartacea settembre 2012

    Prima edizione digitale novembre 2012

    Copyright © Maurizio Antonio Rigoni

    Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale

    o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.

    LEGIO XVII

    L’isola montana e le 17 contrade di Axum ago.

    Era scomparsa nel nulla. Dissolti i suoi legionari veterani nei boschi neri delle pianure del Reno, di essa non si ebbe più notizia. Le battaglie furono cruente, sanguinolente, violente anche per le donne al seguito. I fanciulli sterminati, i generali spogliati delle divise, messi in catene in attesa della loro sorte. Sicuramente individuati i capi delle tribù romane, a loro, supersiti alla morte in battaglia, sarebbe stato mozzato il capo e alle genti ebbri di vittoria mostrato gocciolante del sangue coagulante alla carotide a monito dei pochi sopravvissuti resi schiavi, fanti e cavalieri delle temute legioni romane.

    Barbari di ogni etnia con i loro clan, animali domestici, schiavi romani e pelli di cervi e orso risalivano le valli che si innestavano ai ghiacciai alpini seguendo della pianura padana, i corsi d’acqua , quali strade maestre praticabili nel bel mezzo di foreste di querce, carpini, pino nero, abeti bianchi e cembri.

    Avevano lasciato devastati i villaggi, calpestato i campi arati della fertile terra morenica empiendo i canali vallivi di odi barbariche echeggianti, mentre brezze d’ aria calda dissolvendosi sulle creste cingenti i primi acrocori di rilievo portavano con se inni dei loro dei.

    Sostarono esausti sotto il torrione sguarnito e saccheggiato che una volta, ben presidiato di soldati, dietro le palizzate erano pronti ad offendere e sbarrare il valico al vandalo straniero da nord. Tra le palizzate le sentinelle facevano buona guardia e impedivano l’aggrapparsi anche sulle cenge di modo che nessuno poteva entrare dentro alle terre romane conquistate e le genti straniere potevano accamparsi fuori il confine, unica concessione. Già così al riparo dello sguardo del soldato dell’Impero e sotto le palizzate era un monito per le eventuali altre plebaglie in arrivo alla ricerca di un acquartieramento.

    Accampamento accogliente per i Celti al caldo dei tizzoni ardenti che illuminavano le barbute facce. Ennesima sofferenza per i prigionieri all’addiaccio, incatenati.

    Gli anelli delle catene ai piedi avevano lacerato la pelle , incrostato tutto l’osso tibiale di sangue raffermo, marcilente, staccato con il logorio dell’attrito alle caviglie, brandelli di carne informi, cadenti.

    Fame da lupi e dolore intenso esposto alla gelida notte.

    Uno schiavo romano trasalì e mostrava evidenti segni terminali della propria vita.

    Un branco di cani si avvicinò. Uno di essi di scatto si levò dal branco, d’istinto, annusando l’intenso odore emanato dal sangue mescolato a sudore acidificato, morsicò di netto nelle parti basse del soldato steso a terra, faccia nascosta in mezzo agli equiseti. Strappò di netto il casso, lo rigirò tra le ganasce e lo stava frantumando.

    Grido di orrore riempì tutto l’accampamento. Il prigioniero balzò in piedi disperato accecato dal male e poi si mise supino e comprimendo forte con le mani l’inguine cercava di trattenere la fuoriuscita di liquido viscoso dallo scroto.

    Una donna dei Celti con scatto felino balzò sul cane e con le mani aprì, spalancandole, le fauci e fece cadere a terra in poltiglia il povero membro. Dette un pugno sul cranio all’animale e lo costrinse all’allontanamento impaurito.

    Poi prese il brandello di carne già insalivato, puntò il suo pugnale alla gola dello schiavo e lo costrinse, spiccicandogli il palmo della mano sulla bocca a masticare e ingoiare in un sol boccone la sua virilità quale ultimo pasto serale e finale, cadendo lo stesso agonizzante in un lamento continuo fino alla morte, delle prime ore mattutine.

    Risero i Celti e bevvero a sazietà, sudando sotto alle pelli degli orsi, sopra le proprie donne fino allo sfinimento e l’accampamento tacque.

    I cani di guardia nel frattempo persero la loro lucidità dopo le lunghe ore di movimento attorno ai fuochi e infastiditi dalle grida e dal trambusto allentarono la sorveglianza.

    Era arrivato il momento di agire.

    I legionari supersiti della XVII passarono all’azione.

    Erano riusciti, mentre i Celti godevano della morte del loro commilitone, sfilare il piolo alla base della catena, infilarlo brutalmente sotto il plesso dello stomaco del loro guardiano mentre trattenendo tutti gli anelli di ferro, per non farli tintinnare, erano riusciti a liberarsi dal giogo della catena.

    Solo diciassette di loro erano stati in grado di dileguarsi sulle aspre cenge distanti dai loro carcerieri, gli altri settantuno furono tutti massacrati tra le acque torrentizie dell’impetuoso fiume. Qualcuno che sopravvisse alle violenze si inabisso tra i gorghi tirato giù dalle catene dei propri compagni morti. L’acqua divenne fetica e imbevibile, così i Celti levarono l’accampamento di fretta e salirono ancora più a monte verso le miniere di rame non curandosi di inseguire i fuggiaschi in cerca di altri contatti linguistici similari per barattare le pelli con gli scavatori delle miniere stesse. Gli schiavi erano così stati per ira e vendetta uccisi da barbari spregevoli o persi tra i gorghi rinunciando e perdendo la preziosa merce di scambio.

    Nonostante le forze fossero esigue i legionari scampati alla morte corsero a perdifiato sfidando rovi appuntiti, intrighi di ramaglie, radure acquitrinose e canaloni ghiaiosi fino a scomparire assorbiti in un sottobosco di primordiali felci, coperti al sole da chiome di pino nero, fino a quando la luce del giorno non scomparve e fu sera silente.

    Sfiniti, nel buio, i diciassette udirono lo scrosciare di un ruscello che lento imbeveva muschi profumati e addolciva radici prostrate dentro al suo corso.

    Si avvicinarono strisciando, bevvero a sazietà e masticarono succulenti rizomi di felce quercina a lenire in qualche modo la fame; dormirono.

    Alle prime luci sprigionatesi tra gli interstizi dalla ombrose chiome i poveri legionari estrassero pinoli dalle pigne della conifera, tantissime erano disseminate nel terreno, mature. Offrivano buone calorie dai loro semi oleosi a scoiattoli curiosi, a scontrosi cinghiali, a gallinelle ruspanti spuntate dal bel mezzo di una distesa di arbusti di Belladonna.

    Era un bosco immacolato dove mai piede umano aveva osato addentrarsi.

    Decisero di rimanere nascosti dalla boscaglia e taluni di loro, a gruppi di due, presero quattro direzioni diverse a perlustrare i dintorni.

    Solo una distesa di bosco di pino nero frammischiato a meli selvatici, distese di suffrutici e una quantità di animali errabondi intenti alla ricerca del cibo, tranquilli.

    Da uno spuntone di roccia che emergeva dalla verde boscaglia era possibile orientarsi ai quattro punti cardinali dove non era segnalato nessun fumo, segno di area non insediata dall’uomo.

    All’indomani, a ritroso fino a scendere nella valle dove scorreva il fiume dove da essa erano riusciti risalire, liberarsi e scappare, i legionari riuscirono a recuperare qualche accetta, una spada e del cordame che tanto sarebbe poi stato utile per tendere archi ricavati dal legno del nocciolo avellano e frecce le cui punte, per il momento, erano state ricavate dalle schegge del biancone.

    Diboscarono e formarono una radura, vicino al ruscello. Costruirono per la prima volta un riparo solido, coperto alla pioggia, alle intemperie, con le scorze del pino. Costruirono giacigli intrecciando frasche di larice.

    Uccisero il primo orso attirandolo in una trappola, scavata una fossa nel terreno, richiamandolo con tutte le mele selvatiche raccolte nei dintorni. Accesero fuochi perenni per tenere fuori dal loro perimetro della radura qualsiasi animale predatore al fine di non rinunciare alla carne essiccata del povero onnivoro.

    Segnarono sullo spuntone di roccia che fungeva da osservatorio i numeri della propria gloriosa legio, alla rovescia: I I V X .

    La legio romana, di cui facevano parte, era costituita da più tribù di soldati. Annoverava tra le sue file la *Tribù dei Pèdes (*= schiavi sardi) una sorta di guerrieri abituati a camminare per giorni e giorni in velocità. Caratterizzati da lunghi piedi, calzavano le caligae, una sorta di scarpe aperte sulla punta dalla quale si notavano alluce e secondo dito alla pari, segno inconfondibile di piede romano. Il foro aiutava la aerazione ad un piede anatomico molto più lungo del normale ma questa era la caratteristica fondante di tutti i componenti la Tribù dei Pèdes. Motivo per cui era stato aggiunto un tacco a sorreggere il tallone negli spostamenti lungo tratti su terreni sconnessi delle distese pianure del Reno.

    A loro avevano agevolato la fuga veloce ed erano riusciti a scappare dalla prigionia dei Celti senza lasciare la possibilità di inseguirli, nemmeno con cavalli, inerpicandosi su cenge impossibili, facendo presa sull’irto terreno, là dove le altre calzature sarebbero scivolate.

    I Pèdes però, per loro natura, erano stati a loro volta schiavi che avevano ottenuto la loro libertà servendo i loro padroni a piedi e accompagnandoli in tutte le loro uscite trasportandoli, sobbarcandosi il loro peso, camminando velocemente. Divennero poi per necessità soldati di Roma radunati e identificati nella omonima Tribù dei Pèdes della ancestrale terra di Sardegna.

    La loro peculiarità tribale era riconosciuta quale allegra, gioiosa, carica di umorismo. Ben giovava per spronare all’incitamento gli spasmi vocali corali a coprire la voce del nemico urlante ed essere teneri e ben disponibili nelle faccende attorno al proprio fuoco familiare e in società, di gaia disponibilità con gli altri.

    Dediti quali improvvisati boscaioli al diradamento della boscaglia oltre la primordiale radura soleggiavano sempre di più lo sperone roccioso tanto che sui suoi declivi cominciarono a coltivare degli orti e nominarono la collina: Hodegart.

    La stessa venne in un secondo tempo fortificata di palizzata, del caso ci fosse stato bisogno di rinchiudersi a difesa, di fronte a nuova inaspettata scorribanda vandalica.

    La loro tendenza girovaga li spinse a più riprese controllare dentro alle oscure valli alpine, il transito di carovane di Galli, Teutoni, Reti ed Eneti con i quali avevano le maggiori affinità linguistiche.

    Motivo per cui riuscirono, barattando pelli di enormi cervi e qualche pelle di orso bruno nano, procacciarsi donne schiave. A loro mancavano del tutto.

    Ne barattarono sette più un bimbetto e risultò il numero otto. Un numero propiziatorio rappresentante la svolta ad una vera evoluzione di aggregazione di femmine e un infante, da inserire nella organizzazione della tribù, con l’auspicio di farla rinascere.

    Erano donne dalla carnagione brunita, leggermente tarchiate, grandi faccione molto paffute, pelose, fino di gran lunga, sopra alla regione perlvica, dai grandi e larghi bacini e le braccia robuste, muscolose con seni prorompenti, dal carattere molto sensibile e innocenti.

    Chissà da quali terre provenivano!

    Giunti di ritorno all’Hodegart la prima cosa che fecero i legionari le tatuarono al polso con il segno all’incontrario, con il marchio a fuoco indelebile, in onore e appartenenza alla gloriosa Legio XVII, divenuto ora il loro nuovo simbolo. Aggiunsero però a tutti i componenti il clan, il lungo piede dipinto alla spalla, identificando sia i maschi che le femmine appartenenti alla stessa nuova tribù dalle vive radici riconducibili alla foresta delle cortecce del sughero delle terre dei Sette Fratelli dell’isolana Sardegna.

    Per così dire, in dote, le sette femmine portarono con loro un piccolo sciame di capre, tanto erano dedite alla pastorizia. Quando furono barattate non vollero separarsi dagli ovini e al loro nuovo Capo Pèdes costarono una lunga e puntigliosa trattativa alla quale dovette sottostare, dovendosi liberare anche di una camozza che ben volentieri avrebbe ceduto in cambio di una otre di vino.

    La vita all’interno della radura assunse nuovo aspetto e nuovi lavori.

    Gli uomini, da buoni boscaioli, dovettero costruire serragli, abbattendo una quantità significativa di pini neri per chiudervi le capre durante la notte.

    Le donne allargarono la superficie dei coltivi serrandoli attorno a lastoni di pietra squadrati di Giove Ammone, conficcati nel terreno, di modo di proteggere lo svezzamento degli ortaggi dalle fameliche capre e da bovidi selvatici che ben volentieri durante la notte tentavano di razziare le dolci erbe e fittoni aromatici sbucando dal margine del bosco.

    La mungitura delle capre era affidata totalmente alle donne e le forme di caprino risultarono appetitose e predisposte per l’allevo, maturandole, garantendo maggiori riserve alimentari.

    Presto, alcune di loro, praticando la convivenza con più uomini sotto la stessa capanna cominciarono a figliare.

    Nel tempo, al delimitare della boscaglia rivolta verso est, una colonna di nomadi Ungari in armi risalì il Canal di Brenta inseguendo una colonia di Eneti Asolani i quali, scappando con donne e fanciulli, abbandonarono i carriaggi e le some al saccheggio per rallentare la orda barbarica.

    Terrorizzati alla carneficina già presente nei loro occhi e stampata sui visi dei bimbetti, sicuri dello scempio delle loro donne se fossero stati raggiunti, cercarono rifugio sulle Prealpi, in direzione delle miniere dell’alta Valle Astico. Spingendosi fuori dalla foresta e impossibilitati a proseguire per sfinimento, attraverso l’alto pianoro, seguendo il cunearsi alla testa di una valle finirono per arroccarsi in cima ad un erto monte con tante fenditure e anfratti dove occultare bene donne e figli.

    Monte facilmente difendibile alla chiusa di Ongara, dove gli uomini anche non in armi, ebbero modo di appostarsi all’approssimarsi della battaglia finale che sostennero e vinsero alla difesa omonima mettendo in fuga i barbari Ungari. Gli Eneti furono strateghi nel porsi a doppia difesa oltre la chiusa, sopra una erta rupe che utilizzarono a estremo baluardo. Ricavata tanta resina, colata dai rami di pino nero, assai liquida, quindi veloce da estrarre, la impastarono con carbonella ardente e la riversarono fumante a più riprese sui poveri malcapitati Ungari nel momento preciso, in cui si accalcarono sotto al dirupo convinti, superato l’ostacolo, di avercela quasi fatta e darsi alla conquista delle belle asolane.

    Le donne e i bimbi nel frattempo assemblarono tante frecce utilizzando rami di succhione di orniello ai quali legarono schegge di biancone, lavorate e regolate in coda con penne di gallinacei, appuntite alla testa e fermando il tutto con lo stesso impasto di resina mista e cenere fine.

    Permisero ai propri uomini di tenere a bada i continui, ripetuti assalti alla staccionata. I più giovani furono impiegati a intingere le punte delle frecce nel succo dell’Aconito, pianta dalle proprietà fortemente venefiche, tanto che i più bravi arcieri riuscirono, quando non uccisero a colpo sicuro il barbaro, ferirlo e procurargli morte certa e lenta nei giorni seguenti.

    Molte furono le perdite nell’esporsi alla cavalleria ungara che tanti di loro calpestò e finì, prima che potessero lanciare le loro mortali frecce, dardi e pietre.

    Il bilancio di vite umane fu enorme e la leggenda narra che le acque della covola ai piedi di Ongara si tinsero di rosso per tutto il calar di luna.

    Comunque la somma di tutti superstiti che non erano morti o feriti fu contata in *153 (*= la somma dei 17 numeri primi)di loro che ebbero la fortuna di salvarsi e si accamparono sopra le sorgenti.

    Dall’osservatorio dell’Hodegart i legionari videro i fumi dei fuochi ad est e decisero di intraprendere in quella direzione una spedizione ricognitiva.

    Giunti di soppiatto nei pressi dell’abitato, fino ad allora insediamento sconosciuto a loro, presero contatto visivo con la nuova realtà e poi si ritirarono senza essere visti ma consci sapere di una nuova tribù. Essa stanziava ai margini della boscaglia e formava il villaggio di Gaglium.

    Nel frattempo il diboscamento centrifugo a vantaggio di miglior pascolo per le capre attorno allo scoglio dell’Hodegart cominciò a modificare il paesaggio rendendo un insieme di pubel pascolativi e verdeggianti, solcati nel bel mezzo da il Rio Pak. Numerose capanne si aggiunsero di sbandati e girovaghi. Euganei e ancora Eneti che casualmente trovarono rifugio da invasioni devastanti nella lontana pianura, sull’isola montana, in un villaggio denominato Axum ago al centro di una estesa conca pascolativa.

    Nel frattempo le donne di Gaglium divennero per meriti acquisiti in battaglia il riferimento principale ed unico della organizzazione sociale del villaggio. Donne minute di carnagione bianca, instancabili lavoratrici nella cura della prole ed esperte contadine. Amavano abbellirsi con monili verdognoli esibiti ai lobi degli orecchi, in lunghissime collane al petto sul quale erano stampigliate due coppe piccolissime appena sufficienti per allattare. Compagne fedeli di un solo uomo, inseparabili, sapevano accudirlo e tenerlo legato al focolare domestico.

    Si snodavano destreggiandosi sopra il corpo del proprio amato nelle notti di luna favorevole e mostrarsi chiare come il bagliore della luce dell’astro in riflessi verdognoli, limitate nella loro rada peluria, il meglio delle proprie intimità e grazie.

    All’indomani stavano sui murazzi dell’Ongara a spingere e tener basso il vomero a dissodare uno scarso strato di cotica erbosa da seminare per estendere le culture di *Galium verum (*= Caglio zolfino), i cui frutti secchi e maturi erano impiegati per caseizzare il latte di capra nella stagione fredda, mentre per il momento bastava spezzare i teneri steli per far uscire delle gocce bianche di linfa utilizzata proprio per cagliare il latte.

    Quindi mentre i loro uomini andavano a caccia di francolini, gallinelle e lepri nella boscaglia, loro tenevano le redini del villaggio.

    Il francolino è un tetraonide che veniva cacciato dagli Eneti, per il sapore intrinseco delle sue carni lungo le aree paludose di Canal di Brenta, dove gli acquitrini fornivano copioso cibo composto da migliaia di lombrichi rossastri i quali decidevano del sapido gusto delle loro carni, da preferire di gran lunga alle gallinelle selvatiche dei bassi sottoboschi di *ostrieti (*= boschi di ornello, carpini nero, roverella) attorno all’isola montana.

    Le loro piume venivano offerte dagli abili cacciatori, quale dono propiziatorio, alle proprie donne, le quali avevano osservato e subito il fascino della vita coniugale del maschio e della femmina del gallinaceo, inseparabili, e le fasi eccitanti del loro accoppiamento.

    Nel villaggio le donne imitavano il suono melodioso del maschio in parata, con uno strumento ligneo ricavato dalle canne del sambuco costruito dalle loro abili piccole mani. Lo modellavano fino a quando all’intonare della nota melodiosa

    e flautata il suono non ne usciva similare, inseguita dal danzare delle lingue di fuoco attorno alle quali, nelle serate statiche, tutti i componenti il villaggio si radunavano ad ascoltare.

    Il suono armonioso ipnotizzava la mente dei maschi, richiamandoli dolcemente al giaciglio di pelli di capra ed essi consumavano amore vero.

    La Tribù dei Gellare di Gaglium, in pochi decenni fu destinata ad espandersi insediando nuove aree, utilizzando i tronchi dei pini neri per costruire capanne,estirpando ceppaie lungo la *prùnthal (*= valle della sorgente) per pascolatici di intere mandrie di capre, il cui latte, una volta cagliato con gli innesti del Galium verum riuscivano, da esperte casere, a donare al formaggio caprino una intensità di profumo, di gusto e morbidezza di pasta unici, tanto che nel proseguo degli scambi con gli abitanti di Axum ago la formagella divenne alimento primario di baratto.

    Il paesaggio della conca di Axum ago assunse un equilibrio pascolativo veramente attraente e decisamente armonioso. Il bosco si ritirava sempre più a lambire i bordi della estesa conca e le mandrie di capre ripulivano delle dolci erbe ogni dove rendendo ordine naturale e senso di pulizia in ogni angolo.

    La speranza regnava nei cuori di tutta la Tribù dei Pèdes convinti di aver definitivamente trovato un acquartieramento sicuro, distanti da tutti i contatti le lingue di transito vallivo che circondava tutto il pianoro sopraelevato.

    Li relegava isola linguistica a se, dolce e serena vita laboriosa.

    Del resto l’armonia legava il lavoro di tutti i giorni per accudire alle migliaia di animali, alle cure parentali collettive, alla sicurezza di avere sempre a disposizione del cibo senza ricorrere allo scambio mercificante che si svolgeva ai piedi della loro sopraelevazione montuosa oltre i boschi ormai dei radi querceti ma ancora ricchi di carpino, roverella e orniello.

    Eventualmente preoccupati venisse svelato e individuato il loro isolamento dal celere diboscamento.

    La vita scorreva nell’innocenza della crescita delle figliolanze, mentre le braccia robuste degli uomini continuavano a migliorare la bonifica delle aree diboscate, sradicando ceppaie e roncando superfici per meglio accomodarle a pascolo.

    Benedictus conduceva l’armento al pubel, la collinetta arrotondata vicino allo scoglio dell’Hodegart. Hrodebert portava a briglia l’asino alla Horna Bisa, il pascolo ancora da roncare dove il quadrupede con il suo morso avrebbe estirpato anche le radici delle erbe spinose. Rachel sarebbe andata al Prunno del Moss, luogo paludoso con sorgenti, a prendere una ceramica di acqua purissima filtrata dai muschi. Iulius conficcava pali allo steccato della chiusa detta Mandriele, ricoprendo le punte con resina di pino nero annerita con carbonella, dove alla sera, sarebbero state messe al sicuro le mandrie di capre. Sul dosso di Eckele, Frithuannths teneva a bada un gruppo di bimbetti e giocavano a raccogliere margherite tra le scaglie frantumate del biancone. Rodon era dentro alla hûtta, la capanna dove era intenta ad arrostire interiora di capra. Josef sta su al Perghele con la *benna (*= cesta) sulle spalle a portar letame nel nuovo pascolo. Anton era giù nel Grabo a sistemare la fossa dove scorre il Rio Pak.

    Venne la Luna nuova di agosto e Iulius chiamò a raccolta entro la palizzata dell’Hodegart tutta la Tribù dei Pèdes. Era tempo di dare una grande festa in onore dell’abbondanza, frutto del lavoro in comune e dei prodotti caseari della eccedenza del numero delle mandrie di capre oltre il fabbisogno primario del gruppo. A giorni la tribù sarebbe stata smembrata e divisa in 17 nuclei diversi e sarebbero andati a colonizzare 17 contrade ai margini della centricità della conca, ai piedi e nei dintorni dello scoglio dell’Hodegart.

    Erano stati predisposti i fuochi per arrostire e cucinare e in un acquartieramento a parte, in un camerotto, una somma di morbide, lucide pelli di capra distese.

    Al primo fuoco, fumanti scure carni di cinghiale gocciolavano il grasso disciolto sulle braci emanando ondate di odoroso sebo.

    Subito dopo, infilato su di un puntone di abete bianco stava la mole del cervo di cui le carni rosso fuoco delle culatte stavano a rosolare.

    Al terzo fuoco le carni bianche delle gallinelle imbandieravano infilzate all’asta del nocciolo.

    A margine dei fuochi le interiore degli animali erano state cotte od essiccate e mistate ad erba cipollina contenute in marmi scalpellati, sagomati e incavati dalle abili mani di Anton. Servite sopra ceppi di abete bianco erano riposte le succulenti radici di bardana arrostite. Contenuti nelle foglie di acero selvatico stavano lamponi e fragole contornate da radici di *rigaburse (*= felce quercina). Con un mestolo in legno si assaporava un liquido oleoso, dalle forti esalazioni tinniche, volatili e profumate, di una mistura marcita di bacche di kranebite, Vermut e corimbi di edera.

    Bevanda usata da Iulius per provocare allegra ubriachezza ai convenuti e provocare nei predisposti allucinazioni e turpe mentale. In particolare nelle donne che ben presto si sarebbero sentite stordite e maggiormente predisposte.

    A parte, sopra delle assi tenute insieme tra pali con anelli di corde di pino, il meglio delle pietanze casearie, burri dolcificati con miele di fioriture prative, formelle di formaggio di capra, sapida, venata di un colore arancione, vivo, donatole dalla essenza della celidonia, una oppiacea che nasce spontanea sui murazzi dei pascoli.

    Era la nuova ricetta casearia messa a punto da Iulius da far gustare in particolare a tutti gli uomini. Le proprietà papaveriniche e narcotiche dell’essenza ben presto avrebbero assunto l’effetto eccitante nei maschi voluto dallo sciamano Iulius.

    Tutti bevvero e mangiarono a dismisura e i fumi della bevanda di kranebite, della essenza oppiacea fecero il loro effetto e si impadronirono dei corpi e delle menti coccolate di una passione di estasi e allucinazioni.

    Ai maschi si ingrossarono ben presto le gonadi e in forma erettile la loro virilità reclamava soddisfacimento. Alle donne le ghiandole mammarie si ingrossarono e i turgidi capezzoli si disegnarono sotto le vesti.

    Rotolate, svestite sopra i morbidi caldi peli del camerotto, con la complicità della scura Luna nuova, mani possenti afferravano larghe spalle e formose natiche delle prosperose femmine e in un fermento di acre sudore fu libidine fino a quando Iulius, cosparse il braciere di foglie secche di Belladonna delle proprietà maggiormente narcotiche e dilatanti, non solo la pupilla e ben presto gli spasmi si calmarono dolcemente.

    Quando solo qualche raro scoppiettio cercava ancora intonare il calore nella oscurità, Iulius si recò in cima allo scoglio dove era stato inciso il nome della Legio alla rovescia I I V X e calati i panni dello sciamano, si prostrò in meditazione a ringraziare e venerare Ostera, dea del piacere.

    Un melodioso canto di una coppia di francolini in parata d’amore scese dalla *Orgaltall (*= valle dell’orso) in direzione delle arie provenienti da Gaglium e il sonno profondo avvolse le membra sfibrate, dilatate e rilassate.

    Molte nubi bianche dopo i turbinosi scioni estivi passarono nei secoli sopra i colonizzatori e i discendenti della Legio XVII. Le coccole di corimbo di edera non vennero più raccolte e si persero i riti magici tribali affidati allo sciamano e ai fumi della Belladonna.

    Le contrade continuarono la loro vita gaia e laboriosa e i pubel migliorarono maggiormente la composizione erbatica e floreale.

    L’isolamento linguistico rimase schivo ai contatti delle valli contermini.

    Più vicini a noi, allo scorrere del tempo, nell’ estate alla fine del secondo evento bellico mondiale, quando per la prima volta venne prodotta una forma di formaggio di pasta pressata a latte intero, nacque il bisogno di non rimanere più isolati e di mercanteggiare un formaggio non più adatto ad essere allevato e quindi di essere consumato in pochissimi mesi.

    Ciò avrebbe obbligato i montanari a contatti molto più frequenti con le genti venete al piano e avrebbe creato un maggiore interscambio economico e culturale.

    Grosso modo 17 secoli che sono serviti al montanaro a plasmare continuamente la superficie pascolativa della conca centrale dell’altopiano sagomando anche tutte le vallicole che in essa si nascondono. I prati piano piano presero il sopravvento sui pascoli e i bovini da latte, presenti in numero minoritario fino all’evento bellico della prima guerra mondiale, la quale sconvolse di netto tutte le superfici della conca rendendola improduttiva e sassosa, presero il sopravvento con il nuovo secolo entrante e le mandrie di capre e greggi di pecore, quasi scomparirono.

    Anche le popolazioni discendenti degli antichi legionari e degli asolani, dovettero abbandonare la zona degli altipiani sotto la furia dell’invasore austriaco e poi sottostare all’amministrazione militare e prefettizia che condizionò la vita sociale fino agli inizi degli anni trenta.

    Nei decenni susseguenti la fine dell’evento bellico si cercò attraverso l’amministrazione pubblica di ricomporre il territorio puntando sulla popolazione agricola rientrata in parte e gli allevamenti di bovini specializzati da latte, dominati in modo assoluto dalla razza bruno alpina.

    I montanari, non persero tempo, cominciarono a produrre latticini e burri squisiti con ottima remunerazione sia per i bisogni locali sia per una richiesta di consumo verso le regioni pedemontane e oltre.

    I montanari sentirono il bisogno di associarsi per arrivare alla fusione delle piccole forze per raggiungere obiettivi in comune attraverso lo spirito della cooperazione per migliorare le proprie condizioni di vita e stimolare ulteriormente la ricostruzione del patrimonio bovino.

    Si diffuse sulle prealpi venete un formaggio a latte intero chiamato Grasso di Monte.

    Solo le erbe nobili selezionate dalla natura e la cura dell’uomo che le coltivò e attuò il taglio della fienagione nel susseguirsi delle stagioni permisero alla intuizione del casaro selezionare e inventare un nuovo formaggio pressato. L’Asiago di esclusiva localizzazione dei prati fertili delle conche e dei pubel concentrici verso l’abitato di Asiago della antica Axum ago legionaria.

    Ma andiamo con ordine.

    Nelle case del montanaro si faceva ancora il formaggio di casa fresco di pronto consumo ed il latte era filtrato come al tempo delle tribù con l’erba da colo, l’erba di Licopodio spontanea che il casaro inseriva nell’imbuto per filtrare il latte e utilizzava la polvere gialla delle sue spighe contro l’arrossatura in genere, in particolare sui culetti dei nascituri.

    Il latte veniva poi riscaldato e cagliato per usi familiari. Il resto della munta di due vacche brune alpine, massimo tre, per nucleo famigliare veniva affidato al raccoglitore.

    Egli arrivava puntuale anche d’inverno con la troica in mezzo a tanta neve a travasare il latte dal secchio della cucina di casa nei bidoni, segnare su di un libretto il peso

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