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L'ultimo spartano
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E-book350 pagine5 ore

L'ultimo spartano

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Info su questo ebook

I Balcani sono in fermento. Il giovane re macedone Alessandro Magno ha appena invaso il Medioriente per ampliare il suo dominio. Un mercenario greco, Filocrate di Megalopoli, viene allora inviato in missione a Sparta, per convincere re Agide a rivendicare l’indipendenza della polis e costringere così Alessandro a rivedere i suoi piani di conquista. Tra combattimenti, intrighi e tradimenti, Filocrate si guadagnerà la stima degli spartani e si troverà a guidare i leggendari soldati dai mantelli rossi in un’ultima disperata battaglia per la libertà dell’intera Grecia.
LinguaItaliano
Data di uscita5 apr 2019
ISBN9788863938722
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    Anteprima del libro

    L'ultimo spartano - Matteo Bruno

    PARTE PRIMA : ASIA

    - 1 -

    Semmai qualcuno un giorno dovesse sforzarsi la vista per leggere questo lungo papiro, si chiederà come faccio a sapere cosa vide o cosa pensò il grande Alessandro. Ebbene, la risposta è semplice: io stesso, Filocrate, ero presente quella notte sul Granico, nonostante avessi militato nelle file opposte a quelle del celebre condottiero.

    Inizierò questo racconto da ciò che accadde il giorno prima che il re macedone attraversasse il fiume per cogliere di sorpresa i persiani, quando allo spuntar del sole fui destato dal frastuono delle trombe mentre ero immerso in un piacevole sogno che il brusco risveglio dissolse in un chiacchiericcio allarmato. Megabizio, mio diretto ufficiale, si aggirava inferocito tra i giacigli dei soldati, come fosse una donnola in un pollaio. «Quei figli di baldracca dei macedoni stanno arrivando» berciava nelle orecchie di chiunque gli capitasse a tiro. «Alzatevi alla svelta, mandria di bestie, non è più il momento di ronfare!»

    Neanche il tempo di ingurgitare una focaccia dura come cuoio e mi ritrovai già equipaggiato di tutto punto con lancia, spada e scudo, pronto a fare il lavoro per cui venivo pagato. «Hai con te i pegasi?» mi domandò Megabizio, che dopo aver preso a calci l’intera compagnia si era portato al mio fianco, da amico più che da superiore.

    Mi battei la mano sul piccolo sacchetto di cuoio che portavo sempre annodato al collo, pieno zeppo di monete d’argento con il marchio del pegaso, o cavallo alato, emblema di Lampsaco, la cui zecca era celebre in tutta l’Asia. Era con quelle monete che il grande Dario, re dei re e signore del mondo, che noi apostrofavamo con il nomignolo sprezzante di Barbuto, ci pagava profumatamente per i nostri servigi. Eravamo tutti greci che combattevano al servizio dei persiani. Eravamo mercenari.

    «Bravo, Filocrate. Se proprio dobbiamo crepare per questi barbari, meglio farlo da ricchi che da morti di fame.»

    «Si può sapere che è successo stamattina?» chiesi a Megabizio. «Perché tutto questo trambusto?»

    «Di preciso non lo so neanche io, pare che la smettiamo di ritirarci. I macedoni stanno avanzando e in giornata raggiungeranno il fiume Granico. Li aspetteremo sulla riva opposta per dargli tante di quelle mazzate da rimandarli in Macedonia con il sedere piagato.»

    Alessandro stava avanzando in Asia già da un mese, ma fino a quel momento i nobili persiani non avevano fatto altro che litigare tra loro come anatre starnazzanti per stabilire a chi dovesse toccare l’onore di affrontarlo e trafiggerlo con una picca. Così, con la scusa che ciascuno di essi, separatamente, non disponeva di truppe sufficienti, non avevano fatto altro che arretrare, finché il Barbuto non aveva intimato ai satrapi di affrontare l’invasore e vincerlo, pena l’essere impalati come traditori. A quel punto i nobili si erano finalmente trovati concordi nel radunarsi e attendere i macedoni al Granico, trascinandosi dietro anche noi greci al loro servizio.

    «Muovetevi, uomini, mettetevi in marcia!» comandò infatti Memnone, un greco di Rodi a capo di tutte le truppe mercenarie, percorrendo al galoppo il campo su una giumenta bianca infarcita di nappe e nastrini di gusto orientale. «Ad aspettarvi, laggiù da qualche parte, c’è la testa regale di Alessandro il Macedone. Volete lasciare ai persiani l’onore di staccarla dal busto? O preferite prendervela voi che siete greci, da sempre i più valorosi e letali guerrieri?»

    Un ruggito cupo come la furia di un tuono si levò da noi mercenari. Non perdemmo altro tempo in chiacchiere e ci mettemmo in cammino, le lance in spalla che ondeggiavano come spighe mosse dal vento. Erano migliaia i greci come noi che, per un motivo o per l’altro, si erano messi al servizio di Dario. E il gran re ci pagava profumatamente per fare affidamento sulla compattezza della falange oplitica, la stessa che aveva inferto perdite mostruose ai persiani al tempo delle tentate invasioni dell’Europa. Meglio spendere qualche oncia d’oro e averci dalla propria parte piuttosto che affrontarci come nemici.

    Tanto più che, a causa della litigiosità delle varie polis, non mancavano mai individui esiliati, scontenti o arrabbiati da arruolare, veterani di cento battaglie senza scrupoli che cedevano facilmente alle lusinghe dell’oro sonante, gente ritenuta alla pari di sterco di porco, rifiuti della patria. Individui come me, peloponnesiaco originario di Megalopoli, che mi procuravo da vivere come mercenario fin dai tempi di Cheronea, sul cui campo mi ero battuto contro i macedoni guidati dal celebre Filippo, padre di Alessandro. E proprio per questo ero stato costretto all’esilio dopo che la mia città, inchinatasi al dominatore giunto dal settentrione, mi aveva allontanato per accondiscendere il nuovo padrone.

    Che altro avrei dovuto fare per tirare a campare? Il giorno in cui l’araldo cittadino era corso a casa mia per comunicarmi che dovevo lasciare Megalopoli fu il più brutto della mia vita, almeno fino ad allora. Ricordo nitidamente il pianto di mia madre, che si era tagliata una ciocca di capelli grigi e mi aveva accompagnato fino alle grandi porte cittadine, per poi guardarmi mentre mi allontanavo nelle campagne dorate di frumento e inondate dal frinire delle cicale; nel cuore, sapevamo entrambi che non ci saremmo rivisti che nell’Ade.

    In spalla portavo una semplice bisaccia carica degli unici averi che mi erano rimasti e, per quanto mi sforzassi di trattenerle, gli occhi mi si annebbiarono di lacrime. Poco tempo dopo seppi che mia madre era morta, stroncata dalla solitudine. Era stata una donna forte e mi aveva allevato da sola in una casa di città che apparteneva al padrone presso cui lavorava, un certo Lisicle, malfido e ingannatore. Non mi parlava mai di mio padre. Doveva essere stato un bastardo che l’aveva posseduta come un trastullo per poi disfarsene non appena le si era ingrossato il ventre. Aveva tentato di insegnarmi a dissodare la terra, a tosare le pecore, a mungere e a far partorire le vacche. Tutte attività dignitose che permettevano a entrambi di riempire lo stomaco. Sennonché, giovane, prepotente e arrogante com’ero, non volevo accontentarmi di vivere come un pidocchio. Spesso andavo nella taverna del Lupo Grigio ad ascoltare un cantore che ci narrava di imprese e di vicende sovrumane, di guerre e di avventure, di dei e di semidei, e ogni volta che mi lasciavo ammaliare da quei versi sentivo dentro il cuore il richiamo del frastuono degli scudi e l’eco del canto delle lame.

    Avevo diciotto anni quando si diffuse voce che un esercito invasore stava marciando sul suolo della Grecia e, smanioso, scappai di casa per andarlo a combattere e vivere l’esperienza che avevo sempre sognato. Per questo combattei a Cheronea contro Filippo il Macedone, per questo, una volta tornato sconfitto, fui costretto all’esilio. 

    Lasciata definitivamente la città natale mi unii a Megabizio, un tebano da parte di padre e asiatico per madre che avevo conosciuto a Cheronea. Era di qualche anno più grande di me, alto, robusto, con la mascella volitiva, divorato da un’impagabile sete di vendetta contro Alessandro per la misera sorte che aveva riservato a Tebe un paio di anni prima. «Perché non vieni in Asia con me?» mi aveva proposto, dopo essere stato tra i pochi a scampare all’eccidio della sua gente perpetrato dai macedoni. «Il Barbuto è sempre in cerca di greci da arruolare. Paga bene, inoltre al suo servizio avrai ottime possibilità di affrontare di nuovo i macedoni e fargliela pagare per il tuo esilio.»

    Fu in questo modo che quel giorno, dopo quattro anni, mi ritrovai sulle rive del Granico, di nuovo pronto a battermi contro le invitte falangi macedoni, cullando nell’animo la speranza che una disfatta degli oppressori potesse significare l’agognato ritorno in patria.

    «Salve a te, Apollo dai riccioli bruni!» intonavamo quella mattina mentre marciavamo per raggiungere il punto nel quale Alessandro si sarebbe trovato dinanzi al fiume. «Sole gloriosissimo, figlio di Zeus e di Leto. Sii benevolo oggi, concedi la luce della vittoria a noi che ti onoriamo, purissima gloria, o morte rapida consolatoria.»

    Ci guidava il nostro stendardo, un’asta sormontata da due serpenti di bronzo aggrovigliati al tronco di un ulivo, che si guardavano l’un l’altro agitando le lingue biforcute, come amanti prima di un amplesso. Seguiva il flautista, che con le note allegre del peana invogliava i soldati a marciare a ritmo cadenzato; poi, nel mucchio, procedevo io al fianco di Megabizio, e via via tutti gli altri. I più esperti e temprati occupavano di solito le prime file, gli altri gli andavano dietro.

    All’epoca non ero che un ventiduenne indisciplinato, pertanto non potevo ambire ad altro che a trovarmi nel mezzo dello schieramento, in posizione anonima. A Cheronea avevo atteso nelle ultime file per tutta la durata del combattimento e l’unico nemico che avevo visto da vicino era stato un uomo armato di sarissa che era corso verso di me per piantarmi la lunga lancia nel ventre dopo che i nostri avevano ceduto. Ero fuggito, e grazie a quella corsa mi ero salvato la vita. In seguito avevo affrontato alcune scaramucce e ucciso il mio primo nemico, un giovanotto altrettanto inesperto che avevo fatto morire tra lancinanti dolori. Pertanto, mentre mi trovavo sulle sponde del Granico, non avevo mai preso parte in prima fila a una grande battaglia, al fianco di cavalieri dai finimenti luccicanti e vessilli che garriscono al vento. Immaginai che quel giorno l’avrei affrontata per la prima volta e, mentre marciavo con aria smargiassa, tremavo.

    Il sentiero pietroso che correva sulla sommità di alcune modeste alture era ammantato dalla polvere sollevata da migliaia di calzari chiodati, il sole saliva sull’orizzonte irraggiando di luce dorata le corazze di bronzo dai muscoli scolpiti e le cuspidi delle lance. Il fiume, alla nostra destra, brillava di riflessi di ogni colore e il caldo del giorno cozzava con i brividi gelati che avevamo patito durante la notte.

    «Lo hai visto, il Divino, quando eravamo a Cheronea?» Megabizio amava attaccar bottone durante le marce. Per essere il mio comandante mi dava fin troppa confidenza, a parte questo però era un buon ufficiale, oltre che la cosa più simile a un amico che avessi. «Ricordo che quel porco macedone mi passò vicino in groppa al suo demone nero. Se avessi avuto un giavellotto a portata di mano avrei potuto fargli un buco nella pancia, ma a quei tempi era solo un pivello, non potevo immaginare che me ne sarei pentito.»

    «Aveva diciotto anni all’epoca, la mia stessa età» replicai.

    «Con la differenza che oggi lui è un re, tu invece prendi ordini da me.» Rise sguaiatamente in un gorgoglio e proseguì alzando la voce per farsi udire da tutta la compagnia: «Muovete le chiappe, accidenti! Abbiamo ancora molta strada da fare!». 

    Fingevamo di essere tranquilli, ma in realtà nessuno di noi lo era, neanche Megabizio, che era già sopravvissuto una volta alle terribili lance lunghe dei macedoni. A Cheronea infatti si era trovato a lottare faccia a faccia con i nemici, e si era a lungo vantato di come fosse riuscito a salvare la pelle in quel groviglio di punte acuminate, ma sono certo che la prospettiva di trovarcisi di nuovo non gli piacesse affatto.

    Sapevamo che i nemici erano vicini. Si potevano vedere alcuni uomini a cavallo che ci stavano tenendo d’occhio dalla riva opposta del Granico, certamente esploratori che precedevano l’arrivo dell’imponente esercito, annunciato da un’enorme nube di polvere che aleggiava sopra le colline in lontananza.

    «Il re macedone è una testa calda che si farà ammazzare presto, te lo dico io» riprese Megabizio, parlando tra sé. «Non dobbiamo far altro che aspettare quel momento per riprenderci la libertà della nostra terra.»

    Non aveva terminato la frase quando giungemmo sulla sommità di una modesta collina dalla quale, più in basso, potevamo vedere il fiume scorrere morbidamente su alcune pietre, a formare un guado naturale. Non che il Granico fosse difficile da attraversare, tutt’altro. In genere le due sponde non distavano più di trenta passi e la profondità non arrivava al torace di un uomo. Le rive però erano di fango argilloso e per i cavalieri, ma soprattutto per i fanti dall’equipaggiamento pesante, avrebbero potuto rappresentare un duro ostacolo. Fu lì che Memnone ci ordinò di fermarci. «Schieratevi in formazione!» gridò, galoppando a ritroso tra gli uomini in marcia. «Sarà qui che li aspetteremo, appena arriveranno in vista del fiume avranno una brutta sorpresa. E rammentate chi siete, uomini. Greci senza patria, traditori agli occhi dei nemici. Per voi non ci sarà clemenza, quindi battetevi come sapete fare, e che Apollo vi assista!»

    Megabizio e gli altri ufficiali ripeterono l’ordine. Obbedendo a precisi segnali gracchiati dalle trombe, in breve le varie unità si disposero perfettamente allineate sull’altura, in attesa dei macedoni che si facevano lentamente più vicini. Alcuni degli esploratori nemici galopparono all’indietro per avvertire il loro re che l’esercito dei satrapi locali si era schierato sull’argine e che, finalmente, avrebbe avuto l’ardire di affrontare in battaglia il grande Alessandro, invece che fuggire come un coniglio davanti ai cacciatori.

    Noi, affiancati e schierati, dovevamo apparire come uno spettacolo di grandezza e disciplina. Gridammo e sbattemmo le lance sugli scudi dagli innumerevoli disegni per farci coraggio, ma l’attesa sotto un sole sempre più cocente si rivelò lunga e snervante. Sotto di noi si schierarono alcuni reparti di arcieri sciti, barbari delle praterie estremamente abili nel tiro con l’arco, probabilmente perché Memnone intendeva riversare un nugolo di frecce sulle falangi nemiche prima che queste risalissero l’argine e venissero a morire sulle nostre lance. Era una buona strategia, eppure l’ansia continuava a rodermi come un tarlo penetrato nelle budella.

    Un giovanissimo schiavo passò tra le linee portando un bacile d’acqua stantia che ci porse da un mestolo come fossimo cavalli all’abbeveratoio. Provavo un’arsura insopportabile ma l’uomo schierato al mio fianco, un energumeno dall’accento beotico, immerse tutta la faccia ispida e sudata nella bacinella, e mi costrinsi a sopportare l’ugola secca.

    «Scommetto dieci pegasi d’argento che il bastardo biondo ci lascerà le penne prima di sera» esclamò Megabizio.

    «Non scommetto con te. Mi devi ancora i soldi di quella volta che puntasti una dracma su un ronzino mezzo morto di fame che non arrivò nemmeno al traguardo.»

    «Per gli dei, ero ubriaco da far vergogna!» ribatté l’altro, come fosse una scusante. «Avevo ingurgitato quasi un intero cratere di uno schifoso vino della Scizia.»

    Scoppiammo a ridere, un modo come un altro per vincere la tensione. Nonostante fossi poco più che un efebo, ero anch’io un veterano pieno di segni e calli e conoscevo bene quei momenti in cui le viscere si attorcigliano, lo stomaco si chiude e il sudore infradicia le impugnature delle armi. Un improvviso tanfo indicò che lo sfintere di qualcuno vicino a me si era aperto.

    Alcuni di noi ridevano nervosamente, altri scherzavano picchiandosi manate sugli elmi; io, semplicemente, accarezzavo il disegno sul mio scudo, un’enorme e minacciosa vespa che mi era valsa il soprannome di Pungiglione. Sentivo le dita muoversi da sole, fremere lungo l’impugnatura dell’asta, sapevo che non sarei riuscito a fermarle. Eppure mantenni il posto che mi competeva lungo la fila e attesi sotto il sole che Memnone desse l’ordine di avanzare, la barba e i capelli già intrisi di sudore, uno spasmo sempre più incontrollabile che mi faceva fremere come fossi stretto da una tenaglia. 

    Intanto dalla coltre di polvere in movimento verso di noi sbucarono uomini e cavalli. Dapprima udimmo il rimbombo cupo e ritmato dei passi e il suono lugubre e profondo di un enorme tamburo, poi apparvero le cuspidi delle sarisse inondate di luce, gli elmi e gli scudi di migliaia di uomini incolonnati. Alzai gli occhi al cielo e valutai che dovesse essere pressappoco mezzogiorno.

    Si prospettava una giornata campale, una di quelle che i sopravvissuti avrebbero serbato nel cuore fino a che, vecchi e decrepiti, non se ne sarebbero vantati di fronte a un focolare, attorniati da bambini. Io c’ero, quel giorno sul Granico, anche se in quel momento avrei voluto essere altrove.

    Trascorse ancora del tempo prima che i macedoni ci raggiungessero, l’astro luminoso del nostro protettore Apollo iniziò a declinare nel cielo appena attraversato da poche nubi sfrangiate. Quando i nemici furono abbastanza vicini da poter distinguere nella calca confusa i vari reparti dell’esercito, mi accorsi di uno stendardo che spiccava al centro, un cerchio dal quale dipartivano raggi simili a quelli di una ruota, strisce di luce bordate da un filo dorato, sovrastato da nastri anch’essi dorati. Era il Sole di Verghina, l’emblema che indicava la presenza del re macedone.

    Fu allora che lo vidi: un cavaliere che sgroppava davanti a tutti agitando la spada falcata, l’elmo leonino sovrastato da un piumaggio rosso fuoco, le narici del cavallo che sbuffavano di una forza e di una energia quasi sovrannaturali.

    «Eccolo, il marmocchio arrogante. Lo vedi?» mi disse Megabizio, puntando due dita in quella direzione.

    Alessandro era in mezzo a una fila di cavalieri pesantemente bardati, armati di spade ricurve o lance corte di legno di corniolo. Era tra i suoi eteri, un corpo scelto costituito esclusivamente da nobili macedoni in groppa ai cavalli più forti e robusti del regno. Spesso in passato, sotto il comando del re Filippo, avevano caricato e infranto formazioni serrate di opliti. Sapevo che erano i migliori cavalieri del mondo, e li temevo.

    Alle loro spalle avanzava la fanteria. Era costituita in gran parte dai temuti pezeteri, i «compagni a piedi», armati con una lunghissima lancia chiamata sarissa, che poteva raggiungere i venti piedi di lunghezza e che, in carica, colpiva il bersaglio ben prima delle lance tradizionali, costringendo i nemici a districarsi in una selva di punte aguzze. Tuttavia, la lunga lancia, che doveva essere impugnata a due mani, faceva sì che potessero servirsi soltanto di un piccolo scudo rotondo portato sull’avambraccio sinistro, motivo per cui ai fianchi della loro formazione procedevano gli hypaspistai, i «portatori di scudi», opliti come noi, il cui compito consisteva nel proteggere i fianchi dei pezeteri. Seguivano vari altri reparti di fanteria leggera, in genere costituita da barbari del settentrione, da traci, da arcieri cretesi e da frombolieri.

    L’intero esercito si fermò poco prima di raggiungere la riva del fiume, passando disciplinatamente dalla formazione di marcia a quella di combattimento, e allora capimmo che i macedoni ci avrebbero attaccati senza attendere l’indomani.

    «Grande Zeus» mormorò qualcuno, immaginando la mattanza che presto avrebbe tinto le acque del Granico, ormai quasi iridescenti nei colori vivaci del tramonto. «Hanno fretta di spargere sangue.»

    «Restate calmi, compattate le fila!» gridò Memnone. Guardammo il nostro comandante, impassibile sulla groppa della sua giumenta, l’elmo dai paraguancia avvolgenti calato in viso che ne occultava i lineamenti. Solo gli occhi, piccoli e astuti, ridotti a fessure, brillavano di calma e di energia. «Se attaccheranno, li massacreremo!» 

    I macedoni stavano commettendo un grave errore nell’assalirci con tanta fretta. Il re Alessandro, ansioso di venire alle mani con i barbari asiatici, stava incautamente per mandare all’attacco le sue falangi senza considerare che i suoi uomini, dopo aver marciato tutto il giorno, erano stanchi, assetati e affamati. 

    I primi a entrare in azione furono gli arcieri. Avanzarono di qualche passo e tirarono indietro le corde dei loro archi, con le frecce acuminate rivolte nella nostra direzione. «Scudi!» si sgolò Megabizio, la cui voce mi assordò l’orecchio.

    Sollevai il lembo del mio scudo sopra la testa e mi inginocchiai, così da assorbire l’impatto imminente. Megabizio, alla mia destra, sovrappose il suo scudo al mio, e io feci lo stesso con quello alla mia sinistra. Eravamo così riparati da una muraglia di pezzi di legno, simile alle scaglie di una tartaruga.

    Le frecce ci colpirono, conficcandosi negli scudi di frassino rivestiti di bronzo con lo stesso assordante rumore di una grandinata. Un uomo, da qualche parte dietro di me, mugolò di dolore perché una cuspide aveva bucato il suo scudo vicino all’impugnatura e sbucava rossa di sangue dall’avambraccio ferito. Un altro digrignava i denti, una freccia gli aveva trapassato un piede inchiodandolo al terreno.

    «Arrivano ancora!» gridò qualcuno, sporgendosi giusto in tempo per accorgersi di un’altra scarica di frecce che stava per caderci addosso. Di nuovo ci preparammo a riceverle, e di nuovo i danni furono minimi. Megabizio, il cui scudo era stato perforato da un dardo che adesso spuntava innocuo dall’altra parte, mi guardò e scoppiò in una risata improvvisa, come se i tentativi dei macedoni di ucciderci fossero per lui motivo di divertimento.

    «Che hai da ridere?» grugnii.

    «È tutto qui quello che sapete fare, maiali macedoni?» gridò in risposta, afferrando l’asticciola che spuntava dal suo scudo per spezzarla.

    Le frecce, per quanti pochi danni potessero infliggere a una falange ben riparata dietro gli scudi, erano pur sempre una grossa seccatura perché ci costringevano a tenere la testa bassa e, se la fanteria ci avesse caricati, avremmo avuto pochissimo tempo per prepararci a riceverne l’urto. Ma Megabizio rideva perché si era accorto che le pesanti falangi macedoni, appena immerse nel fiume, quasi non riuscivano a muoversi, impacciate com’erano dall’equipaggiamento, le gambe che sprofondavano nel fango argilloso fino ai polpacci, le lunghe sarisse che facevano perdere l’equilibrio ai soldati.

    Un ordine in lingua barbarica risuonò tra gli arcieri sciti nostri alleati. Estrassero le loro frecce dalle custodie di stoffa ben ricamate che portavano a tracolla, le incoccarono negli splendidi archi dalla doppia curvatura e rilasciarono la corda dopo averla tesa fin oltre l’orecchio. Un nugolo di saette coprì il cielo andando a ricadere sugli indifesi pezeteri, che non avevano modo di ripararsi da quella pioggia letale.

    Le loro urla di dolore ci raggiunsero. Molti caddero ma nel complesso i nemici resistettero alla prima e alla seconda gragnola di colpi. Ma alla terza, quando le prime file erano ancora a metà del fiume, con l’acqua che vorticava loro attorno ai fianchi, alcuni cavalieri catafratti persiani, pesantemente corazzati quasi quanto gli eteri, galopparono fino all’argine e scagliarono giavellotti. Vidi distintamente un macedone colpito in piena faccia cadere all’indietro per poi essere inghiottito dalle acque e dalla calca confusa dei compagni che lo seguivano. Arrivando alla rinfusa, in pochi attimi un’orda di cavalieri persiani si schierò sull’argine, pronta a uccidere facilmente chiunque fosse riemerso dall’acqua, appesantito dal fango e stremato dalla marcia durata l’intera giornata. I persiani a cavallo quasi subito si concentrarono su un gruppo di cavalieri nemici che stava galoppando contro di loro con le spade sguainate, sprezzante di ogni pericolo: erano gli eteri, e a condurli era il re macedone in persona.

    Attorno ad Alessandro scoppiò una mischia furibonda, della quale non potei scorgere i dettagli. Ebbi la sensazione che qualcosa di importante dovesse essere accaduto perché d’un tratto il vessillo con il Sole di Verghina ondeggiò paurosamente fin quasi a cadere nel fango. «È il satrapo Spitridate che gliele sta dando di santa ragione» commentò Megabizio, che guardava anche lui la stessa scena. «Un’altra testa calda, al pari del macedone.»

    Vidi due cavalieri menarsi fendenti e la spada ricurva di un persiano roteare in aria. La zuffa fu violenta, ma brevissima. Quasi subito i persiani si ritirarono portandosi appresso un cadavere raccolto dal campo, dopo che parecchi altri dei loro erano stati disarcionati e giacevano riversi nel fiume, con i cavalli privi di controllo che galoppavano a casaccio con le iridi spalancate dallo spavento. I macedoni però non ne approfittarono. Le loro falangi erano martoriate dagli arcieri sciti e, comprendendo che l’attacco era destinato a concludersi con una carneficina, il dio del panico alitò loro addosso e le urla di dolore dei feriti si tramutarono in schiamazzi di terrore dei sopravvissuti. In preda all’orrore, anche i più coraggiosi esitarono, poi iniziarono a tornare indietro, e nella confusione infernale che si creò nel fiume più di qualcuno scivolò e fu calpestato, oppure annegò senza riemergere dai gorghi da cui era stato inghiottito.

    «Tirate!» ordinò un ufficiale greco agli arcieri. Questi non se lo fecero ripetere e le loro frecce alimentarono il panico e il disordine dei nemici. Ormai anche i comandanti macedoni dovevano essersi resi conto che l’attacco era fallito prima ancora di iniziare, e le trombe dei nemici suonarono la ritirata.

    A terra rimasero decine di cadaveri dondolati dalla corrente. Un macedone con l’asticciola di un dardo conficcato nella scapola riuscì, arrancando, a raggiungere la nostra riva ma un arciere scita, non appena se ne accorse, balzò in avanti con un pugnale sguainato e gli tagliò brutalmente la gola. Gli stava frugando nella bisaccia quando venne a sua volta trapassato da un giavellotto piovuto dalla parte opposta del fiume.

    Furono gli ultimi a morire, per quel giorno.

    Il sole toccava l’orizzonte in uno sfavillare di lance infuocate che velarono di porpora la cima delle montagne, e ben presto l’oscurità avrebbe avvolto la terra. Non c’era altro tempo per combattere, così Memnone ci diede ordine di marciare all’indietro in direzione delle salmerie, lungo il percorso fatto poco prima. Lanciando un’ultima occhiata oltre il Granico, vidi i primi fuochi da campo dei macedoni baluginare nell’aria, e presto anche noi avremmo acceso i nostri per ristorarci. Quel pomeriggio era stata solo una scaramuccia, la battaglia vera avrebbe atteso l’indomani.

    Per me sarebbe stata una nottata lunga e densa di eventi. Ma ancora non lo sapevo.

    - 2 -

    Il fuoco eruttava lapilli fiammeggianti dai ceppi di cedro che i servitori avevano accatastato in grande quantità. Attorno era tutto un brulicare di uomini imbevuti di vino e di donne denudate. Una di esse, con una cetra in mano e una corona di viole tra i capelli ben acconciati, guardava con occhi estasiati il grande disco lunare che volteggiava nel cielo e cantilenava con voce soave versi malinconici di Saffo: «Che cosa brama ancora il tuo folle cuore? Chi devo, Saffo, ancora persuadere, a darti ricompensa nell’amore? Se adesso fugge, poi ti cercherà; se sdegna i tuoi doni, presto ne farà; se non ti ama, presto ti amerà».

    Avevo sempre trovato ridicoli i versi sdolcinati degli innamorati. L’amore? Null’altro che una distrazione buona

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