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L'ultimo pretoriano
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E-book633 pagine9 ore

L'ultimo pretoriano

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Info su questo ebook

Il destino dell’Impero è nelle mani di un uomo

Un autore da oltre 1 milione di copie vendute

Un grande romanzo storico

Dal fragore della battaglia ai sospiri di una cospirazione

Quando Rufino, un giovane legionario, viene ammesso nell’élite della Guardia dei Pretoriani si trova improvvisamente ad annaspare nel mondo della politica imperiale e degli intrighi di corte.
Niente che la sua esperienza in battaglia gli abbia insegnato a fronteggiare. Il primo compito che gli viene assegnato è sventare un complotto contro l’imperatore Commodo, appena incoronato. La sua missione lo porta quindi dalla gelida frontiera danubiana al cuore pulsante di Roma, a spasso tra la villa spettrale della sorella dell’imperatore e l’immenso Colosseo. Quello che sembra un semplice – anche se pericoloso – incarico, si rivela ben presto un intrigo complesso e ingannevole: il giovane Rufino dovrà mettere in discussione tutte le sue certezze, affrontando nemici, cannibali, belve feroci, mercenari assassini e persino un agente imperiale in incognito. In una corsa contro il tempo per salvare l’imperatore, Rufino diventerà la pedina, suo malgrado, di un gioco molto più grande di lui. 

E se Commodo fosse stato diverso da come lo raccontano i Senatori?

«Avvincente, emozionante e accurato.»
Douglas Jackson

«Dalla legione alla Guardia pretoriana, dalle grandi battaglie agli intrighi di corte: questo libro è un mix di personaggi interessanti, studio accurato dell’ambientazione e trama potente.»
S.J.A. Turney
Vive con la moglie, i figli e un serraglio di animali nella campagna nel nord dello Yorkshire, cercando di districarsi tra giocattoli, ululati e caffè per scrivere le sue storie. Ama la campagna, la storia e l’architettura e passa la maggior parte del suo tempo libero viaggiando alla scoperta di siti archeologici. Dopo esperienze lavorative da informatico e da addetto vendita di macchine, adesso si dedica alla scrittura a tempo pieno e ha all’attivo oltre venti romanzi. L’ultimo pretoriano è il primo romanzo pubblicato con la Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita9 gen 2018
ISBN9788822718754
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    Anteprima del libro

    L'ultimo pretoriano - S.J.A. Turney

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Ringraziamenti

    Dedica

    Parte prima. Pannonia

    I. Sangue sulla neve

    II. La città ai confini del mondo

    III. L’uomo al comando del mondo

    IV. Dare e ricevere

    V. Diverse forme di lutto

    Parte seconda. Roma

    VI. Viaggi e ricordi

    VII. Le meraviglie di Roma

    VIII. Gloria e miseria

    IX. Disciplina, scoperte e sorprese

    X. L’anima nera degli uomini

    XI. Conseguenze

    Parte terza. villa adriana

    XII. La tessitura delle trame

    XIII. L’adattamento

    XIV. Accordi e rivelazioni

    XV. Accuse

    XVI. Segreti dentro altri segreti

    Parte quarta. Il grande gioco

    XVII. Il ritorno a Roma

    XVIII. discesa nelle tenebre

    XIX. La decisione

    XX. Un incarico più importante

    XXI. Lo scorrere delle stagioni

    XXII. Rivelazioni

    Parte quinta. Mossa finale

    XXIII. Segreti rivelati

    XXIV. il prezzo da Pagare

    XXV. Rinascita

    XXVI. Preparativi e risarcimenti

    XXVII. Commodo

    XXVIII. Conseguenze

    Epilogo

    Nota dell’autore

    en

    1891

    Tutti i personaggi di questo romanzo, tranne quelli chiaramente storici, sono immaginari e qualunque analogia con persone reali, esistenti o esistite, è puramente casuale.

    Titolo originale: Praetorian. The Great Game

    Published in this format 2015 by Mulcahy Books

    Copyright © S.J.A. Turney

    First edition

    Traduzione dall'inglese di Marzio Petrolo

    Prima edizione ebook: marzo 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1875-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    S.J.A. Turney

    L'ultimo pretoriano

    omino

    Newton Compton editori

    A Tony e Jenny

    Ringraziamenti

    Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno reso possibile la pubblicazione de L’ultimo pretoriano e che hanno contribuito a renderlo (mi auguro) una lettura avvincente: Jenny e Lilian per il loro primo editing, Tracey e i miei ragazzi per il loro sostegno, e Sallyanne Sweeney, la mia agente, che con il suo eccezionale lavoro ha influenzato profondamente il libro che tenete tra le mani. Infine, ringrazio ovviamente tutti coloro che negli anni hanno avuto modo di leggere in anteprima i miei libri e che, con le loro segnalazioni e correzioni, hanno contribuito a migliorare il mio stile narrativo.

    Una nazione può sopravvivere ai suoi imbecilli e anche ai suoi ambiziosi, ma non può sopravvivere al tradimento dall’interno.

    Marco Tullio Cicerone

    cartina1cartina2

    Parte prima. Pannonia

    I. Sangue sulla neve

    Gli uomini della Legione Decima Gemina marciavano nella fredda vegetazione, gli stivali graffiati e ostacolati dai rovi, grati che la neve fosse scarsa perfino in quel periodo dell’anno grazie alle fronde degli alberi. Al contrario, una spessa coltre di neve candida si era depositata sul campo dov’era stata combattuta la battaglia, almeno finché le quattro legioni di Roma non l’avevano consacrata con il sangue.

    Gneo Marcio Rustio Rufino imprecò inciampando su una radice nascosta che per poco non lo fece finire con il volto a terra. I suoi cinque compagni di tenda ridacchiarono per l’incidente evitato per un soffio e Rufino si sentì avvampare, il rossore che gli tingeva le guance era celato solo in parte da quello provocato dal tremendo freddo, dal fango e dal sangue sparsi sul suo volto.

    «Foresta bastarda», mugugnò, suscitando altri sorrisi intorno a sé.

    Il territorio lì, ai confini della Pannonia, non assomigliava affatto alle proprietà di famiglia nei pressi di Tarraco. A casa gli alberi erano incantevoli, il terreno al di sotto delle loro chiome un soffice tappeto di aghi bruni. Qui invece svettavano verso il cielo come demoni stanchi, ripiegavano le loro radici fino a trasformarle in vere e proprie trappole e nascondevano minacce a non finire, molte delle quali velenose o carnivore.

    Come faceva la gente a vivere da quelle parti?

    «Meno male che nell’arena ti muovi meglio con quei piedi», lo schernì un soldato generando l’ennesimo coro di risate. In qualità di campione di pugilato inter-centuria della sua unità aveva una reputazione da uomo guardingo, era famoso per essere rapido e potente, almeno per coloro che non lo vedevano periodicamente cadere a faccia in giù nella neve o rimanere incastrato in qualche radice nascosta.

    Rufino si fermò un istante per sistemarsi, cercando di conficcare la spada nel terreno, ma non riuscì a trattenere una smorfia quando si accorse di aver colpito una roccia nascosta dalla neve, provocando un danno che avrebbe richiesto ore e ore di limatura per essere riparato. Studiò il suo riflesso nell’acciaio screziato di macchie rosse massaggiandosi la caviglia dolorante. Aveva un aspetto esausto e trasandato. I suoi capelli, un tempo corti e ordinati, erano ormai cresciuti fino a trasformarsi in una criniera arruffata e arricciata che ironicamente gli donava un aspetto molto alla moda. I peli sul suo mento, solitamente liscio, erano cresciuti e si erano induriti al punto che ormai potevano quasi considerarsi una barba. La fossetta sul mento, che gli aveva permesso di conquistare le attenzioni di belle e giovani fanciulle di buona famiglia e scarsa morale in Hispania non era più visibile.

    Aveva l’aspetto di qualcuno che aveva vissuto come un vagabondo per tutta la vita; e in effetti si sentiva proprio così.

    L’esercito dispiegato dall’imperatore per sbaragliare i Quadi a Laugaricio era stato il più vasto mai visto dall’uomo. Nove legioni e una marea di unità ausiliarie, il tutto supportato da cavalleria e artiglieria – un numero di uomini sufficiente a conquistare un impero. Dopo il fallimento dell’ultima guerra nel mantenere il controllo sulle tribù locali, il grande Marco Aurelio era risoluto a farla finita una volta per tutte.

    Circa un quarto dei Quadi era riuscito a fuggire da Laugaricio e si era riorganizzato poco distante a oriente, in un ultimo, disperato tentativo di ritardare l’inevitabile e devastante avanzata di Roma. Al comando del prefetto del pretorio, l’imperatore aveva inviato quasi metà delle forze militari a disposizione per porre fine alla guerra, mentre lui si era ritirato tra i relativi agi di Vindobona.

    E così la Legione Decima, insieme alla Quattordicesima Gemina e alla Seconda e Terza Italica, aveva marciato per quattro giorni verso est fino a intrappolare i Quadi in un’ampia vallata poco ripida e circondata su due lati da una fitta foresta. La battaglia era stata breve e brutale e i sopravvissuti avevano trovato rifugio tra gli alberi, tentando di scampare alle lunghe braccia del grande Aurelio.

    Il comandante, rimasto nelle retrovie circondato dalle sue guardie vestite di bianco, non aveva lasciato ai barbari alcuno scampo – i suoi ordini erano stati chiari: distruggerli tutti. Basta con i sopravvissuti che avrebbero potuto riunirsi e fomentare altre ribellioni.

    La Quattordicesima e la Seconda erano state inviate nelle foreste a nord, la Decima in quella a est, per inseguire i sopravvissuti e massacrare tutti gli uomini rimasti, mentre le unità dei pretoriani perlustravano la campagna tra le legioni per mantenere l’ordine. La Terza era rimasta nella valle a ripulire tutto… meglio andarsene in giro per la foresta a dare la caccia ai barbari in fuga, piuttosto che dover ammucchiare i loro cadaveri per poi bruciarli.

    Il corno risuonò in lontananza, un suono strano, triste e sordo, come il verso di un animale spaventato e agonizzante appena caduto in trappola. Le note segnalavano alle legioni di rientrare, quattro suoni in rapida successione. I legionari avevano fatto il loro lavoro, almeno per quel che ci si poteva aspettare da uomini ridotti in quelle condizioni; la centuria di Rufino da sola si era disfatta di più di un centinaio di sopravvissuti nel bosco.

    Con un sospiro, Rufino piantò il piede a terra ed estrasse la spada dal terreno. Ovviamente, la parte vicino alla punta si era scalfita. Ci sarebbero volute almeno due ore di limatura!

    I suoi compagni si erano incamminati per riunirsi alla legione ed erano già distanti, immersi tra i tronchi degli alberi, quasi scomparsi alla vista. Imprecando per la sua goffaggine, si rimise in marcia, sguardo fisso a terra per non cadere preda dell’ennesima radice.

    Incredibilmente, individuò i suoi nemici senza che questi si accorgessero del suo goffo avvicinamento. Con il cuore che gli batteva all’impazzata, Rufino si nascose dietro l’albero più grosso che riuscì a trovare e rimase immobile. Inspirò a fondo, si morse le labbra e sbirciò rapidamente dietro al tronco.

    Tre uomini se ne stavano accovacciati in un avvallamento naturale, quasi completamente nascosti dalla vegetazione. Due di loro avevano il busto coperto da pellicce, sia per difendersi dai colpi di spada che dal freddo. Il terzo indossava una pregevole maglia di ferro e un elmetto che assomigliava in modo decisamente sospetto a quelli della cavalleria romana, a eccezione della parte anteriore, da cui era stata rimossa la piastra metallica. I due uomini con la pelliccia avevano delle asce con il manico corto infilate nella cintura, mentre quello che sembrava essere il loro capo sfoggiava una spada con l’impugnatura decorata. Nessuna di quelle armi era pronta all’uso, però, dal momento che i tre sedevano con in mano i propri archi e le frecce conficcate nel terreno.

    Stavano aspettando qualcosa? O semplicemente speravano di sfuggire all’esercito romano per tornare a battersi un altro giorno?

    Rufino si chinò a terra dietro l’albero e alzò gli occhi al cielo. Che razza di situazione! Forse sarebbe anche riuscito a occuparsi di tutti e tre, soprattutto considerato che non avevano le armi da mischia estratte, ma sarebbe stata una lotta dura e, se tre di loro erano riusciti a evitare fino a quel momento le squadre romane e a nascondersi lì, doveva prendere in considerazione l’ipotesi che non fossero soli e che altri gruppi si nascondessero nelle vicinanze.

    Attaccarli poteva significare stuzzicare un alveare.

    Rufino avrebbe potuto tentare di correre quanto più silenziosamente possibile per raggiungere gli altri cinque uomini del suo contubernio e farsi aiutare nel combattimento. Di certo sarebbe stata una soluzione più sicura. Ma gli altri ormai erano distanti. Se anche fosse riuscito a raggiungere i suoi compagni e questi avessero effettivamente deciso di aiutarlo, si sarebbero comunque potuti smarrire nel tentativo di ritrovare i tre avversari nell’avvallamento.

    Uno dei barbari incoccò una freccia e tese l’arco per saggiarne la resistenza. Soddisfatto, riconficcò la freccia in terra, ripose l’arco e passò le dita sulla lama della sua ascia mentre rideva e parlava a bassa voce con gli altri due barbari nella loro lingua gutturale.

    Rufino sospirò. Avrebbe dovuto fare tutto da solo.

    Fece un respiro profondo e sollevò il gladio. Se non altro era già stato estratto; non avrebbe allertato i suoi nemici con lo stridio del metallo che sfrega contro il fodero. Si chinò di nuovo per voltarsi e sbirciare dietro il tronco, ma si immobilizzò all’improvviso. Sembrava che uno degli uomini stesse guardando proprio verso di lui! Ma poi lo sguardo del barbaro riprese a vagare senza meta mentre continuava a chiacchierare con i suoi compagni, e Rufino cercò di trattenere un sospiro di sollievo.

    Inspirò profondamente, appoggiando il piede destro contro una solida roccia. Sarebbe stato impossibile coglierli di sorpresa; era stato fin troppo fortunato ad arrivare così vicino senza farsi scoprire. Rivolgendo una preghiera, seppur breve, a Marte Capriociegus, si piegò e spiccò un balzo dalla roccia con tutte le forze residue.

    I tre guerrieri quadi alzarono lo sguardo impreparati, colti di sorpresa dal suono dei passi in rapido avvicinamento. Quando il primo uomo riuscì a voltarsi verso la sorgente del rumore, Rufino gli era già addosso. Scattando senza il suo scudo, andato in pezzi durante la grande battaglia, sollevò il braccio per proteggersi. Rufino si abbatté sull’avversario colpendolo alla gola con il gomito sinistro. L’addestramento della legione prese il sopravvento, e ancora prima di rendersi conto di aver spezzato il collo del barbaro con la forza dello slancio, gli aveva già conficcato il gladio nel petto.

    Il secondo guerriero con la pelliccia, rendendosi conto che non avrebbe avuto nemmeno il tempo di estrarre la sua arma, scattò in avanti per contrastare l’improvvisa minaccia. Era grosso, muscoloso come un bue, ricoperto di peli marroni al punto che sarebbe stato difficile dire dove finisse la pelliccia e dove iniziasse il barbaro. Ai lati del gigantesco petto due possenti braccia si serrarono per stringere in una morsa il corpo di Rufino.

    Aveva già incontrato guerrieri del genere prima d’ora. Attico, il campione della Quarta Coorte, era simile al suo avversario: un enorme bruto con dei pugni che avrebbero potuto schiacciare un carro, ma estremamente lento e poco fantasioso.

    Chinandosi per schivare l’attacco in arrivo, Rufino approfittò per estrarre la sua spada dal barbaro in fin di vita sotto di sé; l’avrebbe usata volentieri, ma in quel combattimento lo spazio per muoversi scarseggiava. Le grosse braccia del barbaro si serrarono sul nulla, il loro bersaglio era rotolato fuori portata.

    Mentre l’uomo emetteva un grugnito e abbassava lo sguardo per vedere cosa fosse successo oltre la sua ingombrante pelliccia, Rufino scattò verso l’alto, assestando un montante sinistro sulla mascella del bruto con tanta forza che per un istante temette di essersi rotto una nocca.

    No, la nocca era ancora integra, ma di sicuro aveva rotto la mascella al barbaro.

    Il gigante rallentò in preda al panico e portò un braccio indietro, probabilmente con la vaga intenzione di sferrare un colpo a sua volta.

    Rufino si chinò di nuovo per evitare il pericolo, sebbene in realtà non lo considerasse più una minaccia; si piegò sul ginocchio e ruotò per assestare un gancio sinistro che colpì in pieno la guancia del bruto facendogli scattare la testa verso destra. Facendosi guidare dall’istinto, il legionario lasciò cadere per un brevissimo istante la sua spada, cambiando presa al volo e tornando ad afferrarla con la lama rivolta verso il basso, come fosse un pugnale.

    Senza dare al barbaro il tempo di riprendersi, sferrò una rapida serie di colpi diretti, assestando il terzo con il pugno stretto sull’elsa del gladio e frantumando così il naso del bruto.

    L’uomo gigantesco crollò in ginocchio con il volto completamente insanguinato, e gli occhi di Rufino si spalancarono. Mentre si occupava dei due guerrieri, il loro capo aveva approfittato per estrarre la sua spada germanica e stava correndo verso di lui con l’intenzione di ucciderlo cogliendolo di sorpresa.

    Ragionando in modo frenetico nei pochi istanti a disposizione prima che l’uomo lo trapassasse da parte a parte, Rufino scartò leggermente di lato, afferrò il gigantesco barbaro inginocchiato dalla pelliccia vicino al collo e, spostandolo con tutta la sua forza, lo frappose tra sé e l’affondo in arrivo.

    Sentì la spada del nobiluomo quado che si conficcava nella schiena del bruto e indietreggiò sorpreso quando la lama trapassò il suo scudo umano sbucando dalla parte anteriore, sollevando la pelliccia come fosse una tenda.

    Gli occhi dell’enorme guerriero si gonfiarono e un fiotto di sangue scuro sgorgò dalla sua bocca. Mentre il nobile estraeva la spada dal suo ex compagno che crollava a terra, Rufino si spostò di lato, tornò a impugnare normalmente il gladio ed estrasse il suo pugnale con la mano libera.

    I due uomini iniziarono a camminare in tondo fissandosi a vicenda.

    In lontananza il corno risuonò di nuovo. Probabilmente il resto della legione aveva già raggiunto il punto d’incontro.

    Il barbaro urlò qualcosa in una lingua dal suono sgradevole e con un tono di voce ascendente: probabilmente una domanda. Rufino si strinse nelle spalle.

    «Avanti, allora. Facciamola finita».

    Con un balzo repentino, in perfetto equilibrio sui suoi piedi, Rufino scattò in avanti sferrando un affondo con la spada. Il nobile si spostò di lato altrettanto velocemente, abbattendo la sua lama sul gladio, nel tentativo forse di disarmare il legionario. Rufino, però, aveva una presa d’acciaio e le spade cozzarono l’una contro l’altra generando scintille e un clangore snervante.

    Il barbaro ritrasse subito la spada e la fece roteare velocemente per caricare un colpo. Rufino barcollò verso sinistra, menando il suo gladio sul nemico nella fretta di impedire il fendente. L’impatto riverberò lungo le lame d’acciaio fino a raggiungere le nocche, stordendo entrambi i guerrieri per un attimo. Il barbaro si riprese subito, sperando forse di far roteare di nuovo la spada per assestare un altro colpo.

    Era abile nel maneggiare la sua spada germanica, e abbastanza fantasioso nel colpire.

    Non abbastanza, però; di certo non quanto Rufino.

    Mentre l’uomo continuava a roteare e a sferrare attacchi con la sua spada, Rufino lasciò che il suo gladio venisse colpito e respinto di lato; era solo una parata, e comunque un modo per distrarre l’avversario dalla sua vera mossa.

    La mano sinistra di Rufino scattò verso la gola del barbaro nel punto in cui si incontrano le clavicole, affondando il pugnale tanto in profondità che per un attimo ebbe l’impressione di toccargli la spina dorsale con la punta. Il nobiluomo si immobilizzò con la spada a mezz’aria, gli occhi spalancati nel tentativo di abbassare lo sguardo. Ma ormai per il barbaro sarebbe stato semplicemente impossibile muovere la testa; la mano di Rufino era stretta intorno all’impugnatura del pugio che gli sbucava dalla gola sostenendogli il mento, mentre il sangue scuro sgorgava dall’orribile ferita formando una pozza rossa sul terriccio della foresta.

    Il nobile annaspò, cercando disperatamente di dire qualcosa; inutilmente, vista la barriera linguistica. Rufino lasciò il pugnale, la mano viscida e coperta di sangue, mentre l’uomo mollava la presa sulla sua spada. Le mani del barbaro si protesero in avanti, afferrando le lamine metalliche che coprivano le spalle di Rufino. Le dita del nobile si serrarono sull’armatura segmentata del legionario mentre inarcava la schiena in preda agli spasmi, il sangue fresco che inondava le lamine d’acciaio.

    Rufino si voltò per non assistere a quella scena disperata mentre allontanava le mani del nemico dalla sua armatura, lasciando che cadesse a terra per morire in silenzio. Dopo sei anni sotto l’insegna dell’aquila – due dei quali trascorsi a combattere le tribù barbare – era tutt’altro che impressionabile, ma in un certo senso continuava a sembrargli invadente e scorretto fissare gli occhi di un uomo in punto di morte e osservare il suo spirito abbandonarli per sempre.

    Da quando Lucio…

    Con i lineamenti irrigiditi, Rufino si inginocchiò ed estrasse il pugio dal collo dell’involucro vuoto che poco prima era stato un uomo. La lama scivolò fuori dalla ferita generando un nuovo fiotto di sangue.

    Con l’espressione seria Rufino pulì la lama sulla tunica del nobile, consapevole del fatto che l’unico risultato sarebbe solo stato quello di sporcare ulteriormente la lama. Si alzò in piedi lentamente, rinfoderando il pugnale, e un brivido freddo gli percorse la schiena.

    L’avvallamento era immerso nel silenzio, quattro occhi vitrei fissavano con fare accusatorio il proprio assassino, altri due riversi a terra. Rufino si sgranchì le spalle; gli unici suoni intorno a lui erano il fruscio e lo scricchiolio degli alberi piegati dal vento gelido, il ghiaccio che si crepava lungo la corteccia dei tronchi, il suono soffice della neve che cadeva dai rami e il ritmico sgocciolio dello scioglimento del ghiaccio al suolo.

    Rufino inclinò la testa.

    No.

    Non si trattava affatto di neve e ghiaccio, nulla di così banale.

    Piegò il capo da una parte e dall’altra, analizzando la vegetazione che lo circondava e gli infiniti tronchi di alberi che affollavano a non finire il freddo mondo barbaro. Gli uomini di cui si era liberato avevano degli archi. A cosa potevano servirgli degli archi in quel bosco così fitto?

    Quello che continuava a sentire non era lo scricchiolio dei rami sotto il peso della neve, ma il suono della corda in tensione di un arco corto. Il suo iniziale timore che ci fosse un quarto avversario nascosto e pronto a farlo fuori sembrava comunque privo di fondamento. Si voltò, ma non intravide nessuna punta scintillante di freccia; nessuna figura nascosta nel sottobosco.

    Gli ci volle un po’ per rendersi conto che sul lato dell’avvallamento opposto a quello da cui era entrato le fronde degli alberi erano più rade. In quel punto la luce riusciva a filtrare attraverso le foglie e il complesso intreccio di rami.

    C’era un sentiero che attraversava la foresta, abbastanza largo da consentirgli di vedere una luce del genere, il debole sole che si rifletteva sul suolo innevato.

    Il costante sgocciolio della neve sciolta?

    Con il cuore che accelerava, il legionario balzò in avanti e si rifugiò tra la vegetazione, i ramoscelli e le foglie scricchiolavano sotto i suoi passi. Facendosi largo a fatica tra i rami e i rovi che gli strappavano la tunica e gli graffiavano la pelle, finalmente Rufino riuscì a conquistare una visuale chiara sul sentiero.

    A circa cinque piedi di distanza, la stradina si trasformava in una traccia appena accennata che si inoltrava nella foresta.

    Di sicuro non abbastanza larga per un cavallo.

    Scosse la testa pensando all’idiozia dei soldati romani che si erano andati a impelagare in un sentiero tanto stretto; il luogo perfetto per un’imboscata.

    Gli uomini indossavano cotte di maglia scintillanti su tuniche di lana bianca con pennacchi e piume in cima agli elmi ornamentali, e cavalcavano spensierati come se stessero trottando nella propria tenuta di famiglia durante un pigro pomeriggio autunnale.

    Pretoriani… un’unità di cavalleria, per di più. Era impossibile stabilire di che corpo si trattasse senza vedere un’insegna. Potevano essere pretoriani semplici, o magari la guardia imperiale a cavallo, o perfino un gruppo di speculatores. Se non altro quest’ultima ipotesi giustificava la loro presenza in quel bosco.

    Di nuovo quello scricchiolio, stavolta accompagnato da numerosi suoni identici. La testa di Rufino scattò ancora per guardare avanti. Altri arcieri, nascosti tra la vegetazione sul lato opposto del sentiero, tutti in posizione d’attacco. Un bersaglio casuale? Improbabile, a giudicare dalle circostanze.

    Con il cuore che gli batteva all’impazzata, Rufino cercò di ideare un piano. Lanciarsi alla carica attraversando il sentiero sarebbe stato un suicidio; avevano gli archi già tesi e stavano mirando a terra in attesa dei loro bersagli a cavallo, e avrebbero impiegato solo un istante per spostare la mira e trasformarlo in un porcospino. Niente gesti eroici, allora.

    Tornò a rivolgere lo sguardo verso i cavalieri; avanzavano in fila per uno, forse una dozzina in tutto. Quello in testa era chiaramente un ufficiale: la corazza di bronzo brunito finemente decorata, gli pterigi bianchi e viola che ciondolavano a due a due all’altezza di spalle e fianchi e il mantello bianco con i bordi viola che ricadeva sulla groppa del cavallo.

    Poteva tentare di avvertirli, ma era rischioso. Se ci fossero stati altri gruppi di arcieri nascosti oltre a quello che vedeva, l’avvertimento avrebbe potuto generare una risposta a catena avventata, e a quel punto chissà cosa sarebbe potuto succedere.

    Rufino fece un respiro profondo, mentre un piano iniziava a prendere forma nella sua mente; rinfoderò il gladio e scivolò quanto più silenziosamente possibile verso le piante alla sua destra. Valutando con attenzione la sua posizione, avanzò fin quasi a raggiungere il sentiero, rivolgendo una serie di preghiere silenziose alla dea Fortuna affinché fosse ancora abbastanza nascosto agli occhi dei nemici. Gli arcieri ora si trovavano a circa cinque piedi a sinistra, sul lato opposto. I cavalieri guidati dall’ufficiale erano a meno di dieci piedi di distanza.

    Fece un altro respiro profondo, il suono degli zoccoli sul terreno ghiacciato era attutito dall’onnipresente neve e dalla mole opprimente della foresta circostante, ma continuava comunque a rimbombare nella sua testa come un campanello d’allarme.

    L’ufficiale era quasi all’altezza di Rufino, ormai. Indossava dei magnifici stivali chiusi, stretti con una cinghia decorata con una testa di Medusa. I suoi lunghi pantaloni da Gallo, poco diffusi tra gli ufficiali ma estremamente pratici in quelle condizioni, erano di lana bianca immacolata. Il fodero in pelle viola che portava al fianco era ornato con motivi complessi argentati.

    Dal suo basso punto di vista, questo fu tutto ciò che Rufino riuscì a scorgere dell’uomo, ma anche tutto quello che fece in tempo a vedere. Dalla parte opposta del sentiero un lontano scricchiolio gli segnalò che diversi archi erano già stati tesi al massimo.

    Ora o mai più.

    Di nuovo un respiro profondo, e Rufino uscì dal suo nascondiglio afferrando con forza la gamba dell’ufficiale in pericolo appena al di sopra della cinghia penzolante con la testa di Medusa. L’ufficiale pretoriano fece appena in tempo a stupirsi e ad abbassare lo sguardo prima che Rufino iniziasse a tirare, sfruttando al massimo la sua considerevole forza. Starnazzando con scarsa eleganza, l’ufficiale venne disarcionato e cadde rovinosamente sul suo assalitore zuppo di sangue.

    Quando l’uomo atterrò, mozzando il fiato a Rufino, una serie di frecce venne scoccata dagli alberi sul lato opposto del sentiero; due si conficcarono nella groppa del cavallo, una rimbalzò sulla sella di pelle e altre due sfrecciarono attraverso lo spazio vuoto che un attimo prima era occupato dal fiero pretoriano.

    L’elmo era scivolato sugli occhi dell’ufficiale, le piume bianche umide e infangate, piegate e appiccicate alle lamine di metallo, coprivano le sue guance. Mentre il pretoriano infuriato urlava qualcosa di incomprensibile, Rufino se lo tolse dalla schiena liberandosi del peso mortale.

    All’improvviso il gruppo di cavalieri era in subbuglio. La guardia più vicina era stata colpita al fianco da una freccia che era riuscita a penetrare la sua cotta di maglia, ferendone il corpo e probabilmente gli organi interni. Il soldato fissava la freccia con uno sguardo che Rufino avrebbe definito di moderata sorpresa. Mentre i compagni alle sue spalle scendevano da cavallo con le armi e gli scudi in pugno, la guardia in fin di vita scivolò lentamente dal dorso del suo destriero e precipitò a terra con un tonfo.

    Lasciando il furioso ufficiale a urlare e ad agitarsi nella neve avvolto dal mantello e con l’elmo ancora calato sugli occhi, Rufino si rimise in piedi. Il cavallo dell’ufficiale scalciava e indietreggiava in preda al dolore, ma appena ne ebbe l’occasione Rufino approfittò per corrergli incontro con l’intenzione di usarlo come copertura; si abbassò passando sotto l’animale terrorizzato per sbucare dall’altra parte del sentiero con entrambe le lame sguainate.

    Mentre si faceva largo falciando le foglie e i rami congelati, altre due frecce gli sibilarono accanto, dirette alle guardie vestite di bianco. Il fatto che fossero solo due voleva dire o che gli altri arcieri avevano abbandonato gli archi e si preparavano alla battaglia con le armi da mischia o, magari, che avevano approfittato del trambusto per darsela a gambe nella gelida foresta il più velocemente possibile.

    Ancora una volta, i rovi si impigliarono nei suoi vestiti e gli graffiarono la pelle, lasciandogli diversi segni rosso fuoco sul volto e su braccia e gambe. Imprecando tra sé e sé per la vegetazione che non smetteva di attentare alla sua vita, e maledicendo ad alta voce i Quadi, i Marcomanni, e ogni singola tribù che preferiva i capelli aggrovigliati e il fango ai pavimenti caldi delle terme romane, Rufino si addentrò nel sottobosco finché non raggiunse un pendio che terminava in una radura assolata del tutto simile a quella dalla parte opposta del sentiero.

    Di nuovo tre uomini nascosti, perciò su quel lato del sentiero doveva esserci più di un gruppo, visto che nella prima raffica erano state scoccate almeno una dozzina di frecce; al momento però non c’era nulla che potesse fare al riguardo. Un barbaro aveva ancora in mano il suo arco e stava raccogliendo una delle frecce conficcate nel terreno accanto a lui. Gli altri avevano già messo da parte gli archi ed estratto le armi per il combattimento a corto raggio.

    Uno degli uomini, tenendo pronta una grossa ascia al suo fianco, urlò dalla sorpresa quando si accorse del folle Romano zuppo di sangue che era sbucato dagli alberi in cima al pendio; Rufino gli piombò addosso gettandolo a terra e mozzandogli il fiato.

    Grazie all’istinto combinato all’addestramento militare, il legionario approfittò del suo atterraggio di fortuna per rimettersi subito in piedi e assestare al barbaro che ancora non si era ripreso una mezza dozzina di potenti colpi con i pugni stretti intorno alle impugnature delle sue armi. Le sue nocche ne sarebbero uscite piene di lividi, ma aveva sentito il naso e la mascella dell’uomo rompersi con i primi due pugni, e aveva sferrato gli altri solo per sicurezza; dopo aver pestato per anni enormi legionari aveva imparato ad assicurarsi che il proprio avversario rimanesse a terra.

    In pochi istanti fu tutto finito, l’uomo sotto di lui aveva perso i sensi prima del quinto colpo, quando l’ascia gli scivolò dalle dita. Rufino alzò lo sguardo appena in tempo per vedere un altro guerriero con in mano una spada scintillante diretto verso di lui. Colto alla sprovvista e in posizione di svantaggio, il legionario cercò di rotolare per allontanarsi dal colpo riuscendoci appena in tempo, ma la spada del barbaro riuscì a procurargli un taglio di striscio lungo il braccio.

    Sibilando dal dolore e lasciando cadere il pugnale dalle dita momentaneamente contratte, Rufino rotolò di nuovo per allontanarsi finché non riuscì a rimettersi in piedi e in guardia, con la speranza che l’arciere non fosse già pronto a piazzargli una freccia in mezzo al petto. Fortunatamente, l’uomo aveva abbandonato l’arco ed estratto una spada, e ora avanzava lentamente nella radura.

    Rufino fece una smorfia. Il braccio ferito bruciava da morire e il suo respiro affannato si condensava nell’aria gelida. I due barbari si scambiarono un rapido sguardo e qualche parola nella loro orribile lingua prima di chiuderlo su due lati.

    Se avesse avuto il suo scudo sarebbe stato uno scontro più equilibrato, ma affrontare due uomini in perfetta forma e ben armati con solo il suo gladio per difendersi non era esattamente il tipo di scommessa che Rufino avrebbe piazzato volentieri.

    Lentamente, in modo inesorabile, i due Quadi impellicciati e armati di spade attraversarono la radura, i passi perfettamente in sincrono e gli sguardi fissi su quel Romano avventato. Rufino tese i muscoli della mano che stringeva la spada e chiuse gli occhi per un istante, immaginandosi dall’alto l’avvallamento in cui si trovavano e sovrapponendovi l’immagine mentale di un’arena da pugilato.

    Era come pensare in anticipo alle mosse d’apertura del campionato inter-centuria. Quello a sinistra, che l’aveva quasi colpito quando era a terra, era grosso, eppure riusciva a muoversi con discreta agilità, come Lollio Vittorio della Seconda Coorte. L’altro era leggero ed esile come un fuscello… di certo non abbastanza robusto da poter entrare nell’arena; un arciere per natura. Quello da tenere d’occhio era Vittorio. Da un momento all’altro avrebbero fatto la loro mossa cercando di attaccarlo contemporaneamente, ma il primo colpo l’avrebbe sferrato Vittorio, vista l’insicurezza del suo compagno. L’uomo più esile avrebbe atteso un istante, cercando un’apertura nella guardia di Rufino per accertarsi di essere al sicuro prima di colpire.

    In fin dei conti tutto si riduceva a una questione di velocità e pianificazione. Se si fosse ritrovato con due avversari sul ring, cosa che succedeva raramente quando si rispettavano le regole, avrebbe optato per tirare un diretto veloce a Vittorio in modo da distrarlo e fargli perdere l’equilibrio. Poi, mentre il più grosso arretrava, avrebbe sferrato una serie rapida di colpi al corpo dell’uomo più esile, terminando con un montante che l’avrebbe scaraventato al tappeto definitivamente, giusto in tempo per riportare l’attenzione su Vittorio prima che questo riuscisse a colpirlo.

    Il padre di Rufino non aveva mai compreso il fascino del pugilato. Lo considerava solo un modo stupido per picchiare le persone e aveva evitato il suo sguardo quando il figlio più giovane gli aveva raccontato di come avesse vinto il titolo per la sua unità. In ogni caso, il giorno in cui suo padre avesse condiviso con lui qualcosa di diverso da una distaccata disapprovazione sarebbe stato il giorno in cui uno dei due avrebbe attraversato lo Stige. Il pugilato era una questione di pianificazione, di strategia, era necessario conoscere il proprio avversario e riuscire ad anticipare le sue mosse. Agli occhi di Rufino, un incontro di pugilato ben strutturato poteva avere le stesse caratteristiche della strategia militare di un abile generale.

    La capacità di immaginare una situazione complessa come un incontro sul ring aveva tirato Rufino fuori dai guai in diverse occasioni.

    Prima Vittorio, dunque, per fargli perdere l’equilibrio e disfarsi velocemente dell’arciere, in modo da riportare il combattimento a suo favore. L’unico cambiamento apparente in Rufino, mentre i due barbari si lanciavano all’attacco, fu il colore delle sue nocche strette sull’impugnatura in pelle del gladio che da rosa si erano fatte bianche.

    Come previsto, il più grosso raggiunse Rufino e tentò immediatamente di colpirlo, mentre l’altro si fece da parte, gli occhi socchiusi in cerca di un varco sicuro nella guardia del legionario.

    Rufino, che stava solo aspettando di capire se il colpo sarebbe stato un affondo, un fendente o un montante, si chinò per schivare con grazia, tornando in posizione appena la lama del Germanico aveva terminato la sua sibilante traiettoria. Senza esitare, conficcò la spada nell’unica area del barbaro rimasta scoperta, un punto appena sotto la clavicola. Certamente non una ferita mortale, ma abbastanza da sbilanciarlo e dargli tempo di pensare all’arciere.

    Mentre Vittorio indietreggiava sorpreso, il secondo barbaro gli era già addosso; credeva di aver individuato una linea d’attacco sicura, dato che Rufino impugnava il gladio con la mano meno allenata e la lama lontana dell’arciere.

    Mentre il bruto ferito arretrava sconcertato, Rufino lasciò andare l’impugnatura della spada con la mano destra per poi voltarsi di scatto e afferrare nuovamente il gladio con la mano sinistra, riportandolo in posizione di difesa appena in tempo per parare l’affondo del suo esile avversario.

    Mentre l’arciere inciampava sbilanciato su Rufino, avendo impiegato tutta la sua forza in un colpo andato a vuoto, il legionario caricò la testa all’indietro per poi farla scattare in avanti, colpendo con la fronte la tempia del barbaro. La testata avrebbe ucciso l’uomo sul colpo, se solo avesse ancora avuto il suo elmo, ma l’aveva perso da qualche parte sul campo di battaglia dopo che una delle piastre metalliche laterali si era staccata. Ma anche con il capo scoperto aveva sentito qualche osso frantumarsi all’impatto con la sua fronte, dopodiché l’uomo crollò a terra come un pupazzo in uno spettacolo per bambini.

    Tornando a voltarsi, vide che l’uomo più grosso si era già ripreso, e per quanto il suo colpo successivo sembrasse in un certo senso meno devastante dei precedenti a causa della ferita vicino alla spalla, il volto del barbaro mostrava solo odio e determinazione nonostante la spada gli fosse caduta a terra. Non c’era traccia di paura né di dolore.

    Rufino riprese rapidamente il controllo della situazione. L’uomo rimasto non sarebbe andato al tappeto facilmente né tantomeno in fretta. Sembrava che una rabbia cieca si fosse impadronita del barbaro che avanzava con passo deciso, pronto a colpire di nuovo, stavolta con più forza. Rufino parò il colpo mentre i suoi pensieri correvano in cerca della mossa successiva.

    In preda alla furia della follia, il guerriero grugnì quando il gladio di Rufino parò di nuovo il suo attacco; con una velocità impressionante riprese a far roteare la spada per un altro fendente. Il braccio dell’uomo oscillò a destra e a sinistra, colpendo alla cieca con la spada, un inarrestabile e luccicante pendolo di ferro davanti a cui Rufino era costretto a indietreggiare per evitare la rapida successione di colpi, riuscendo di tanto in tanto a difendersi con il gladio. Batté lentamente in ritirata attraversando la radura, continuando a parare e guadagnando secondi preziosi per pensare a una soluzione.

    Il barbaro si sarebbe stancato presto. La rotazione continua della pesante spada con la ferita alla spalla lo stava sfiancando ed entro breve uno di quei colpi sarebbe stato mortalmente impreciso: presto avrebbe esagerato con la stima della distanza d’affondo.

    Era tutta una questione di tempismo. Appena la guardia dell’uomo si fosse aperta, Rufino l’avrebbe colpito. L’avrebbe…

    All’improvviso il mondo del legionario si capovolse sottosopra.

    Mentre atterrava pesantemente di schiena sul suolo compatto, con una radice nodosa conficcata tra le costole, cercò di tenere testa al primo vero momento di panico del combattimento.

    Incredibilmente, l’esile arciere che aveva colpito poco prima con una testata era ancora cosciente. Malconcio e agonizzante, non era stato in grado di aiutare il suo compagno in combattimento, ma la fortuna era girata a suo favore nel momento in cui lo sventurato Romano si era ritrovato sulla sua traiettoria. Era stato semplice – fu questione di un istante, non dovette fare altro che afferrare la caviglia di Rufino mentre indietreggiava.

    Il legionario si ritrovò a fissare l’uomo davanti a sé che sollevava la sua lunga spada germanica con due mani, pronto ad abbatterla sul soldato inerme e a mandarlo all’altro mondo. Le dita di Rufino si serrarono sul nulla: la caduta gli aveva fatto allentare la presa sul gladio.

    Disperato, vide la spada del nemico calargli addosso, ma appena ritenne che la lama avesse raggiunto il punto di non ritorno, rotolò verso destra, approfittando del movimento per assestare una gomitata sul volto dell’esile arciere a terra, rompendogli altre ossa.

    La spada del grosso guerriero colpì la terra ma non si conficcò a fondo come sarebbe successo in altre circostanze. La durezza del terreno causata dal ghiaccio fece riverberare l’onda d’urto del colpo lungo tutta la lama, ma il guerriero accecato dalla rabbia emise un ruggito selvaggio e ignorò del tutto le vibrazioni. Estrasse con facilità la spada dal terreno e la riportò in aria per sferrare un altro attacco.

    Non si sarebbe fatto ingannare dalla semplice mossa evasiva del legionario una seconda volta. In effetti, mentre Rufino cercava disperatamente di pensare a un modo per tirarsi fuori da quella brutta situazione, il barbaro gli piazzò un pesante stivale sullo stomaco premendo verso il basso con una forza tremenda; il legionario era completamente bloccato, al punto che la sua testa era in posizione perfetta per ricevere un fendente che gli avrebbe spaccato in due il cranio.

    Rufino passò mentalmente in rassegna ogni singolo trucco a sua disposizione. Non c’era nulla che potesse salvarlo, pensò, inchiodato a terra sotto il peso intero di un uomo mentre guardava la morte calare su di sé con spaventosa certezza.

    Non aveva nemmeno il tempo per un’ultima preghiera. Chiuse gli occhi ed espirò lentamente. Così non ci sarebbe stata redenzione per i Rusti; nessuna riconciliazione in lacrime con il padre da cui era fuggito. Niente gloria. Solo la sua testa conficcata su una picca dei Quadi.

    Qualcosa di umido gli bagnò il volto.

    Rufino aprì gli occhi sorpreso e fu accecato più volte da una serie di fiotti di sangue che gli stavano inondando il volto. Con il cuore che gli batteva all’impazzata, sollevò la mano e si pulì dal liquido rosso. Un altro fiotto lo mancò mentre la spada che aveva perforato il grosso barbaro attonito gli veniva sfilata dal petto.

    Rufino sbatté di nuovo le palpebre; il furioso barbaro aveva ancora in mano la sua spada quando abbassò lo sguardo per osservare il buco nel suo petto, un istante prima di crollare a terra su un fianco.

    Dietro di lui c’era una guardia pretoriana, tunica bianca sotto una cotta di maglia screziata di sangue, il mantello innevato che svolazzava maestosamente nonostante l’assenza di brezza. I pennacchi sull’elmo della guardia svolazzarono mentre si voltava per gridare qualcosa a un compagno; per colpa del suono delle vene che gli pulsavano nelle orecchie, Rufino non riuscì a distinguere una sola parola.

    Qualcuno gli tese una mano, per aiutarlo ad alzarsi.

    Rufino scosse la testa e si pulì di nuovo gli occhi. Mezza dozzina di pretoriani erano entrati nella radura e si stavano assicurando che i guerrieri fossero morti, trafiggendo i colli dei barbari con i pugnali e recidendone le vertebre.

    «Stai bene?».

    Rufino sbatté le palpebre, scosse la testa, sbatté di nuovo le palpebre e infine annuì.

    «Grazie».

    La guardia sorrise. «Quel peloso figlio di una puttana germanica stava per farti secco», disse mentre si guardava intorno. «Per carità, non prima che tu dessi loro una bella lezione».

    «È per questo che ci pagano», Rufino si strinse nelle spalle.

    La guardia sfregò la spada sulla pelliccia del barbaro, poi prese un piccolo panno di lino dalla cintura e ripulì con attenzione la lama fino a farla luccicare, per poi riporla nel fodero.

    «Sei tu che hai buttato giù da cavallo l’avvoltoio?».

    Era formulata come una domanda, ma di certo la guardia non aveva alcun dubbio. «Sì, signore. Non sono riuscito a pensare a un altro modo per sventare l’attacco senza metterli in allarme».

    «Hai pensato in fretta. L’avvoltoio non era particolarmente felice dell’accaduto, finché non ha capito cos’è successo. Probabilmente ormai il cavallo è andato, se mai dovessimo ritrovarlo».

    Rufino fece un respiro profondo. «L’avvoltoio?».

    Il pretoriano scoppiò a ridere. «Tarrutenio Paterno: il prefetto del pretorio».

    Rufino fece un passo indietro e sbatté di nuovo le palpebre, questa volta per la sorpresa. L’uomo che aveva disarcionato da cavallo era il comandante della Guardia pretoriana, il fidato generale dell’imperatore e l’ufficiale dell’esercito più anziano sul campo. Tanto sarebbe valso afferrare l’imperatore dallo stivale e disarcionare lui dalla sella. Deglutì nervosamente.

    «E sta…?».

    La guardia annuì. «Sta bene. Sarà lieto di incontrarti. L’ultima cosa che ricorda è una macchia rossa che sbuca fuori dalla vegetazione e lo butta a terra, prima di scappare verso la foresta».

    Rufino fece un passo indietro scuotendo la testa, ma il pretoriano lo stava già accompagnando lungo il sentiero, dove le altre guardie avevano aperto un passaggio nella fitta vegetazione.

    Quasi dal nulla comparve una seconda figura vestita di bianco che passò a Rufino il suo gladio e il suo pugio, entrambi tirati a lucido. Rufino rivolse all’uomo un cenno di gratitudine mentre riprendeva le sue armi per rinfoderarle; aveva già perso un elmo e uno scudo durante questa azione e avrebbe dovuto pagare i ricambi con il suo stipendio per mesi e mesi.

    Un attimo dopo, come se stesse camminando in un sogno, mise piede sul sentiero, la neve era stata trasformata in una fanghiglia dalle impronte degli stivali dei soldati e dagli zoccoli dei loro destrieri. Molti dei cavalli erano stati messi in salvo da alcune guardie, mentre quelli che non erano fuggiti stavano aspettando di riprendere il viaggio. Una parte dei soldati si era inoltrata nella foresta per occuparsi degli assalitori nascosti mentre i rimanenti si erano radunati intorno al loro comandante.

    Paterno, il terzo uomo più potente dell’impero, si era rimesso in piedi e sistemato l’elmo, riconquistando la sua compostezza e un po’ della dignità a cui era stato costretto a rinunciare durante la caduta. Mentre le guardie scortavano Rufino lungo il terreno imbiancato che portava verso il prefetto, l’ufficiale vide arrivare il gruppo e sollevò un sopracciglio con fare interrogativo.

    «Questo è il legionario, signore».

    Paterno squadrò Rufino come se fosse appena stato rigurgitato dalle fogne della cloaca maxima al centro di Roma e avesse galleggiato per tutta la lunghezza del Tevere. Il prefetto si voltò portando le mani sui fianchi, e nelle sue movenze Rufino individuò qualcosa che gli ricordò il modo di muoversi degli uccelli. Il volto emaciato e il naso aquilino del comandante facevano il resto, e al legionario fu immediatamente chiaro come avesse fatto a guadagnarsi il suo soprannome.

    Con un rauco colpo di tosse il prefetto del pretorio si strinse il dorso del suo impressionante naso tra le dita prima di riportare le mani sui fianchi.

    «Identificati».

    «Legionario duplicario Gneo Marcio Rustio Rufino, Terza Centuria della Prima Coorte della Legione Decima Gemina, signore».

    Paterno aggrottò le sopracciglia e iniziò a camminargli intorno con uno sguardo inquisitore che sembrava trovarlo carente sotto diversi punti di vista.

    «Sei ridotto un disastro, legionario… ma mi rendo conto che le circostanze ti giustificano». Socchiuse gli occhi. «Un nome così importante per un comune legionario? In quel nome c’è del sangue patrizio, non è così?».

    Rufino sospirò tra sé e sé e cercò di non cedere al desiderio di rilassare le spalle. «Scavando abbastanza nel passato, sì signore».

    «Sembra che io sia in debito con te, non è vero legionario Gneo Marcio Rustio Rufino?».

    Rufino scosse la testa per sminuire il suo gesto, ma lo sguardo di Paterno era diretto alle sue spalle, verso le due guardie sull’attenti dietro Rufino.

    «Fate in modo di ripulirlo e dategli una nuova attrezzatura completa. I pretoriani torneranno a Vindobona nel giro di un’ora per comunicare la notizia del grandioso successo dell’esercito imperiale. Le legioni e le truppe ausiliarie potranno seguirci quando avranno terminato di mettere tutto in ordine, ma quest’uomo verrà con noi. Un coraggio così sconsiderato merita una ricompensa».

    Rufino rimase a fissare il prefetto del pretorio mentre si voltava e gesticolava per farsi portare un cavallo. Il primo fiocco ghiacciato di una nuova nevicata in arrivo gli atterrò sul naso. Si guardò intorno, sbigottito, voltandosi verso il volto sorprendentemente comprensivo della guardia che lo aveva scortato fin lì dalla foresta. L’uomo gli fece cenno di farsi avanti.

    Nel trambusto, mentre il prefetto risaliva a cavallo, un tribuno avanzò dalle retrovie dell’adunata – era un ometto basso dalla corporatura robusta, con una barba nera e riccia e un monociglio che gli attraversava la fronte da parte a parte. L’uomo scambiò due battute con una delle guardie e scrutò il gruppo riunito finché il suo sguardo non andò a posarsi sul mantello rosso che spiccava in mezzo a tutti i manti bianchi. L’espressione che comparve sul volto del tribuno fu talmente simile a quella che spesso il padre di Rufino rivolgeva al figlio che lo colse di sorpresa; sbatté le palpebre e distolse lo sguardo. Quando si voltò di nuovo verso di lui, il tribuno era nel bel mezzo di un’accesa discussione con il prefetto.

    «Chi è quello con il monociglio?», chiese Rufino avvicinandosi a una delle guardie. L’uomo lanciò un’occhiata alle spalle del legionario corrugando la fronte; continuò a scrutare il gruppetto di uomini finché finalmente non comprese a chi si stesse riferendo.

    «Quello è Perenne, il tribuno al comando della Prima Coorte. Stai attento, ha un caratteraccio ed è invischiato nel grande gioco del potere tanto quanto il prefetto».

    «Non credo di piacergli».

    La guardia fece una risata sommessa. «È perché non ti conosce. Non è il tipo di persona che apprezza l’ignoto. Quando ti conoscerà, però, inizierà a disprezzarti sul serio».

    Rufino rispose con un sorriso incerto, chiedendosi se davvero si trattasse di una battuta. Di certo qualcosa nel volto e nell’atteggiamento del tribuno metteva subito in chiaro che si trattava di un uomo che sarebbe stato più prudente evitare.

    «Come ti chiami?», chiese d’impulso alla guardia.

    «I ragazzi qui mi chiamano Mercator, come la commedia di Plauto. Ora fai silenzio, voltati e presta attenzione a qualsiasi cosa ti dica il prefetto finché non avremo raggiunto Vindobona».

    Rufino sospirò. E pensare che quella giornata era iniziata con il semplice timore di dover affrontare un’orda di Quadi rabbiosi.

    II. La città ai confini del mondo

    Il freddo sole aveva raggiunto l’orizzonte a occidente quando comparvero i vasti sobborghi di Vindobona e l’enorme fortezza ospitata al centro. L’agevole pendio della collina era libero da ogni tipo di ostacolo fino al fiume Danubio – quando la città fu ricostruita, dopo le invasioni dei Marcomanni che l’avevano praticamente rasa al suolo, era stata aperta un’ampia strada attraverso la foresta. Un solido ponte in legno rendeva possibile l’attraversamento delle acque rapide e profonde del torrente consentendo l’accesso al grandioso agglomerato imperiale – un ponte che rappresentava un fragile collegamento tra il mondo romano e le terre dei barbari e che un giorno sarebbe stato ricostruito in pietra, quando i nuovi territori conquistati sarebbero stati incorporate nell’impero come province della Marcomannia.

    Vindobona, il più grande insediamento in quell’angolo del mondo dimenticato dagli dèi, brulicava di migliaia di individui d’ogni sorta fedeli all’imperatore, dai nobili dell’antica Roma che controllavano l’ordo – il consiglio cittadino – fino ad arrivare ai commercianti e ai fabbri locali che a malapena conoscevano qualche parola di latino. Colonne di fumo salivano dai tetti di centinaia di case e botteghe lungo la strada che

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