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Prigionieri dei Secoli
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Prigionieri dei Secoli
E-book345 pagine4 ore

Prigionieri dei Secoli

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Info su questo ebook

Che cosa unisce il delitto di una matrona romana del I secolo d.c. all’uccisione di una castellana dell’Inghilterra medioevale? E il delitto di una principessa cinese nel XIV secolo d.c. a quello della moglie francese di un ufficiale nazista? Un sottile filo nel tempo tinto di sangue, un’indagine delicata che si dipana attraverso i secoli. A condurla un uomo, sempre diverso, ma sempre uguale, alla ricerca non solo dell’assassino, ma anche di se stesso, della sua libertà, per non rimanere prigioniero di un destino immutabile e per capire che cosa significhi essere felice.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2014
ISBN9788865123157
Prigionieri dei Secoli

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    Anteprima del libro

    Prigionieri dei Secoli - Silvia Vitrò

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    CAPITOLO PRIMO

    GERMANIA CENTRO OCCIDENTALE,

    FINE I SECOLO D.C.

    I

    Con l’avvento del principato di Augusto l’amministrazione delle province ro mane venne riorganizzata.

    Alcune province, quelle di più antica annessione e ormai pacificate, nelle quali non era necessaria la presenza di legioni, furono affidate al controllo del Senato (province senatorie) e furono rette secondo il modello di epoca repubblicana da proconsoli e propretori.

    Le altre province (province imperiali), che necessitavano per la difesa di uno stabile presidio legionario o che erano di fondamentale importanza per le finanze dello stato, rimasero sotto il diretto controllo dell’imperatore. In tali province l’imperatore inviava un proprio rappresentante, il legauts Augusti; al legato era affiancato un procurator Augusti, nonché un legatus legionis per ogni legione presente sul territorio.

    La creazione delle due province germaniche (Germania superiore e Germania inferiore) fu determinata dal fallimento dell’intenzione augustea di portare il confine fino al fiume Elba, evidenziata dalla disfatta di Varo. Le due province furono essenzialmente territori di occupazione militare a difesa dei confini.

    La Germania superiore fu organizzata in provincia imperiale romana nel 90 d.c., comprendendo vasti territori che erano appartenuti in precedenza alla Gallia Lugdunensis. Nella provincia venne incluso anche il territorio occupato dagli Elvezi e quella regione di confine racchiusa tra l’alto corso del Reno e l’alto corso del Danubio, ovvero la regione degli Agri Decumates. La provincia venne affidata ad un legatus Augusti pro praetore. Uno dei primi e più famosi governatori della provincia fu Traiano, che amministrò la Germania superiore attorno al 98 d.c., anno della sua adozione a succedere a Nerva quale nuovo imperatore di Roma.

    Tra le città principali della Germania superiore vi erano Besançon (Vesontio), Strasburgo (Argentoratae), Magonza (Mogontiacum).

    Alla fine del I secolo d.c. Roma è la padrona indiscussa di tutto il bacino del Mediterraneo. In particolare è la cultura greca, sia pure in fase già decadente, ad affascinare il mondo romano, di per sé essenzialmente pratico e poco incline alla riflessione filosofica.

    Il neostoicismo è l’indirizzo filosofico più diffuso a Roma, perché offre una risposta all’esigenza di felicità, molto avvertita nella società romana.

    Seneca (4 a.c.-65 d.C.) elabora e distingue il concetto di coscienza (la strutturale consapevolezza del bene e del male implicita in ogni uomo) da quello di volontà, intesa per la prima volta, esplicitamente, come una facoltà autonoma, distinta dalla ragione.

    Il greco Epitteto (60-138 d.C.) sostiene la distinzione tra le cose che sono in nostro potere e le cose che non lo sono. Ogni vizio, ogni errore e turbamento nasce dalla confusione dei due piani. In tal senso l’azione del saggio che ha di mira solo le cose che sono in suo potere è in sommo grado libera.

    Spesse gocce di rugiada cadevano giù dalle foglie, scivolavano lungo i tronchi bagnati, si raccoglievano in mezzo alle contorte radici che emergevano dal terreno e poi evaporavano impregnando di umidità tutto il folto sottobosco.

    Solo qualche cinguettio di pettirosso o qualche frinire di cicale annunciavano l’avvicinarsi dell’alba, mentre la maggior parte degli animali si era allontanata rapidamente, presagendo inquieta l’imminente scontro.

    Filtrando a fatica fra nuvole sparse arrivò infine la luce del primo sole e fu lei a svelare i misteri del bosco, andando a scoprire con i suoi riflessi biancastri le armature dei soldati, elmi, spade, frecce acuminate e le fini cesellature di alcune briglie per cavalli.

    Il profumo intenso dell’erba bagnata e della resina gialla spalmata sugli alberi si mescolava all’odore acre proveniente da quelle presenze estranee e al sudore che si appiccicava agli uomini sotto le corazze e ai cavalli sotto i finimenti.

    Gli animali, tenuti a freno saldamente, fremevano con impazienza nelle radure erbose e nervosamente imprimevano le orme degli zoccoli nella terra molle e bagnata.

    Terra germanica. Terra calpestata da eserciti, terra verde e rigogliosa e nello stesso tempo imbevuta del sangue dei soldati. Terra da difendere o da conquistare.

    Da un lato della collina emersero le schiere numerose dei germanici, giovani e meno giovani, massicci e fieri, immobili nelle loro posizioni distribuite lungo tutto il pendio, che ricoprivano quasi totalmente allo scopo di incutere terrore nell’avversario.

    I loro volti incorniciati da capelli e barbe ispide erano ancora accesi dall’entusiasmo suscitato dalle parole del capo barbaro: «ho grande speranza che la vostra concordia e il vostro valore segni per tutto il nostro popolo il principio della libertà … perché vi era un tempo in cui neppure potevamo, da lontano, scorgere terre che fossero dominate dai Romani … questi oppressori, questi rapinatori del mondo, che sanno solo rubare e massacrare e chiamano impero tutto ciò … e con la scusa di portare la pace creano il deserto … Ma noi possiamo batterli, noi che non vogliamo diventare servi, noi uomini liberi possiamo sconfiggere i nemici … la maggior parte di essi ha una patria diversa da Roma, non conosce questi luoghi e non riuscirà a tenere duro nella battaglia …».

    Dalla parte opposta uguale eccitazione pervadeva le legioni romane, che con ardore avevano risposto al discorso che anche il loro comandante aveva voluto fare, intriso di richiami al valore di Roma, al destino inevitabile dei germanici, ormai in gran parte soggiogati, all’impeto dei soldati che, dopo tante marce, attraverso paludi, monti, fiumi e foreste, erano impazienti di combattere.

    Terminati i discorsi, il comandante romano ordinò velocemente che la fanteria ausiliaria si posizionasse al centro dello schieramento, disponendo che le file fossero allargate, per far fronte alla superiorità numerica degli avversari ed impedire che questi potessero attaccare anche sui fianchi dell’esercito romano.

    Sulle ali dei combattenti fece stendere tremila cavalieri, pronti ad intervenire nel caso in cui la fanteria non fosse riuscita a respingere l’assalto barbaro, che già si profilava temibile da lontano, con frastuono di voci e scintillio di spade.

    Il rumore delle grida si intensificò, gli uomini si slanciarono gli uni verso gli altri, la battaglia ebbe inizio.

    Dapprima i germanici respinsero le lance avversarie con le loro lunghe spade e gli scudi di cuoio.

    Poi l’aria fu oscurata dai dardi gettati dagli opposti schieramenti e quando le frecce diminuirono, gli uomini si proiettarono in sanguinosi corpo a corpo, dove spade e pugnali fecero scempio di teste, di membra e di anime.

    Fu poi il turno dei cavalieri romani, che, dopo essersi cimentati contro i carri dei nemici, si unirono nella battaglia ai fanti, portando avanti l’opera di abbattimento delle schiere barbare.

    Ma gli ostacoli creati da alberi, cespugli di rovi e terreni diseguali impedivano ai cavalieri di manovrare rapidamente sul luogo di battaglia e presto si vide un accalcarsi confuso di fanti, di uomini rovesciati dalle loro cavalcature, di cavalli spaventati e senza guida che investivano chiunque si parasse davanti a loro.

    La lotta cominciava a creare problemi ai romani e i barbari ne approfittarono per fingere di indietreggiare prima, e per riapparire poi alle spalle dei cavalieri, con l’intenzione di sfruttare la loro superiorità numerica.

    Il comandante romano, da un’altura, ebbe la sensazione che le sorti della battaglia stessero cambiando.

    * * *

    Dannazione, dove lo hai nascosto? Se ti prendo ti insegno io l’educazione, piccolo furfante!

    Gli occhi azzurri della ragazza si accesero irati nel viso rosso per la collera ed essa continuò ad inerpicarsi lungo il fianco della collina, cercando di non scivolare sul fango e sull’erba viscida.

    Ad alcuni metri di distanza, dal suo nascondiglio dietro un albero, la osservava con aria dispettosa un ragazzetto, che poteva avere otto o nove anni, pronto a scattare via se scoperto.

    C’era poco da scherzare, non aveva mai visto sua sorella così arrabbiata. Era talmente furiosa che lo aveva inseguito fin nel bosco, ad almeno due chilometri di distanza dal loro villaggio.

    E per cosa, poi? Una collanina con un ciondolo. Non doveva neppure essere tanto di valore. E poi era sua, glielo aveva detto quell’uomo del Tempio. Gli era sembrato sincero.

    Allora, Sigfrid! Dove sei finito? Guarda che se non la pianti di scappare, questa sera non ti do da mangiare e metto il palo alla porta per non farti entrare!

    Voleva pure affamarlo! Ma che razza di ciondolo era? Aveva forse poteri magici e doti soprannaturali?

    Il ragazzo si immaginò quella sera, chiuso fuori della loro capanna di legno, al buio e al freddo, con il mantello tutto zuppo di pioggia e lo stomaco vuoto.

    E dentro una squisitissima zuppa di cinghiale che cuoceva nel paiolo sopra il fuoco, mentre la sopravveste di lino rosso di cui sua sorella Greta andava tanto fiera era stesa su di una trave ad asciugare.

    Non valeva la pena di rinunciare a tutto ciò per un ciondolo a forma di cerchio, anche se questo avesse potuto trasformare un topo in un vitello o far sgorgare dalla fonte adiacente alla loro casa oro e pietre preziose invece che acqua!

    L’oro non si mangia e c’era il rischio che il topo rimanesse tale!

    Decise di capitolare.

    Si sporse un po’ timoroso da dietro il tronco della quercia che lo aveva nascosto e stava per richiamare l’attenzione di Greta, quando d’improvviso una volpe gli passò velocissima sotto il naso, come se stesse scappando da qualcosa di terribile.

    Rinunciò subito ad inseguirla, perché l’animale si era già dileguato nel bosco, ma la sua attenzione fu attratta da alcuni rumori che sembravano provenire dalla direzione opposta a quella presa dalla volpe.

    Rumori sempre più forti, misteriosissimi, spaventosi!

    Gli spiriti della foresta! Le incredibili magie che la vecchia Alice, che abitava nella capanna più malconcia al limitare del bosco, gli aveva raccontato in certe sere di luna piena, facendo bollire erbe e ramoscelli in una pentola e rimestando quella roba tra sospiri e lunghe cantilene.

    Querce che gemevano e scricchiolavano, mentre esseri luminosi si liberavano da esse e si disperdevano nel fitto della boscaglia, funghi che si scoperchiavano e si animavano, pioggia di stelle che inondava il sottobosco, ricoprendo agrifogli, faggi e sentieri silvestri.

    Sigfrid dimenticò subito il suo proposito di resa incondizionata e si slanciò dietro alle sue fantasie, mentre cominciava a sentirsi più distintamente un clamore di grida, uno stridere di metalli, un ripetuto nitrire spaventato di cavalli.

    Sigfrid, ti ho visto! Fermati, dove stai andando? gli urlò dietro Greta, sempre più affannata.

    Ma il ragazzo non si fermò e, superata una piccola radura, si inoltrò di nuovo nel bosco, stordito dalle urla sempre più vicine e assordanti, rapito dal mistero di quell’inferno che stava per aprirsi davanti ai suoi occhi.

    Neanche Greta rimase indietro, continuando a districarsi fra arbusti e pietre, in mezzo a tigli, acacie e rododendri, superando con difficoltà rigagnoli d’acqua e tumultuosi torrentelli ed evitando le buche delle tane di tasso e gli aculei di cespugli spinosi.

    Sempre avanti, indomita, ma ciò che la spingeva a non demordere non era più tanto l’intento di acciuffare il malandrino.

    Ormai si era accorta anche lei del fracasso furibondo che si riversava nel bosco e voleva raggiungere il fratello prima che questo si cacciasse in qualche guaio più grosso di lui.

    Sigfrid, aspettami, non senti che rumore, è pericoloso, torna indietro!

    Fu in quell’istante che sentì un grido lacerante, più forte delle urla avvertite fino a quel momento, più vicino, più pauroso.

    Sigfrid, dove sei? Greta andò ancora avanti e, dopo aver aggirato alcune querce massicce, intravide il fratello, immobile, accanto ad un alto macigno.

    Si slanciò verso di lui e lo afferrò per un braccio.

    Ti sei fermato, finalmente! Ma che fai… perché non ti muovi più… ?

    Sigfrid non rispose, continuando a fissare qualcosa di fronte a sé.

    Allora Greta si girò e, accanto all’enorme masso, vide spuntare come per magia un grosso cavallo nero, dal manto lucidissimo e dai muscoli a fior di pelle.

    E sopra il cavallo si stagliò su di lei, oscurandole il cielo, un imponente soldato romano, che la guardò fissa attraverso le fessure strette del suo elmo di bronzo.

    * * *

    Il sole stava tramontando sulla radura e sul folto della foresta, arrossando l’intrico dei rami e i tronchi muscosi, e, laddove riusciva a penetrare più a fondo, cospargeva l’erba e le pietre di macchie brillanti e di tracce rosate.

    Il condottiero romano, lungimirante, aveva tenuto di riserva sei turme di cavalieri, per le impreviste sorti della battaglia, e con esse riuscì a mettere in fuga i germanici, che si ritrovarono ad essere loro braccati alle spalle.

    Si aprì uno spettacolo grandioso e sanguinoso insieme: baldanzosi cavalieri romani si slanciavano all’inseguimento di barbari per ucciderli o farli prigionieri; alcuni germanici si davano alla fuga senza più alcun ritegno; altri gruppi cercavano di organizzarsi per dare ancora battaglia o correvamo eroicamente incontro alla morte; qualche inseguitore male accorto si isolava e finiva vittima di imboscate nei punti più intricati della foresta.

    E ovunque, il terreno, sia quello più pianeggiante delle vallate, sia quello più scosceso delle colline, era coperto di armi, corpi insanguinati, membra lacere.

    Là una fibbia romana svelava l’abile lavoro di cesellatura di un orafo di Anzio, qua una tunica stracciata ricordava il ricamo delicato di una sposa romana o di una schiava greca.

    In mezzo, confusi nella stessa sorte, giacevano corpi ricoperti di rozzi sai barbari, talvolta rifiniti con strisce di pelle sottile, avvolta intorno alle gambe. O si scorgevano sandali legati con lacci di pelle di cinghiale e collari di bronzo istoriati stretti intorno a colli massicci.

    Era quasi sera.

    A poco a poco scese un cupo silenzio, rotto qua e là dai gemiti dei feriti e dalle voci di coloro che ordinavano la raccolta dei soldati ancora vivi e l’accensione delle pire barbare per i defunti.

    In lontananza si vedeva il fumo salire dai tetti delle capanne incendiate e l’odore del bruciato si diffondeva nel bosco, unendosi a quello del sangue e dell’erba bagnata.

    Da una altura Traiano contemplava lo spettacolo di quella vittoria romana, impietosendosi per i caduti e rendendosi conto che l’esito della battaglia non era stato poi così scontato.

    Dopo novant’anni è stata di nuovo vendicata la sconfitta romana della selva di Teutoburgo rifletté fra sé. Ma la sua non era una sensazione di compiacimento. I germanici continuano a rimanere forti. La speranza maggiore è che si uccidano fra di loro.

    Il supremo condottiero sospirò.

    Ricordò il lampo di odio che aveva letto nello sguardo di una ragazza barbara che era stata portata via come prigioniera.

    Non c’era da illudersi che Roma potesse essere amata. Non v’era che da augurarsi che prevalesse la discordia interna fra le popolazioni germaniche e che i romani potessero approfittarne per dividerle e soggiogarle.

    Ma non sarebbe stato facile continuare a mantenere saldo il potere.

    Il fato incombeva sull’impero.

    E la fortuna avrebbe potuto cambiare direzione.

    * * *

    Alcuni prigionieri erano stati messi in linea, vicino ad un fiumiciattolo, e, se avessero potuto, avrebbero prosciugato tutto il corso d’acqua, tanto secca avevano la bocca dopo la battaglia.

    Immobili, abbandonate le membra nelle rozze vesti sporche di fango, i capelli biondi raccolti in trecce intrise di sangue e gli occhi chiari infossati dal dolore della sconfitta.

    Per piegare ancora di più la loro volontà, nei villaggi vicini erano state fatte prigioniere anche donne e bambini.

    Distruzione, schiavitù, miseria. Il sogno di libertà svanito, ricacciato indietro dal potere di Roma.

    Ma non sarebbe stato così in eterno.

    Quando il soldato romano ordinò al gruppo di barbari di muoversi, spintonandone taluni con la sua lancia, uno di loro alzò gli occhi lanciandogli un fiero sguardo di ghiaccio, per poi riabbassare la testa.

    Un fuoco sotto la cenere. Una sfida mai conclusa. Come sempre, tra oppressi ed oppressori.

    Il mesto corteo si avviò.

    Ne facevano parte anche una donna e un ragazzino.

    Per uscire dal bosco superarono cadaveri di uomini e di bestie, spesso confusi tra loro e irriconoscibili.

    Come una testa di cavallo, che non aveva più la parte superiore e dalla quale il sangue cadeva giù lungo l’arcata inferiore dei denti e il collo squarciato.

    II

    Se non fosse stato per la chiazza di sangue che si intravedeva sotto la testa e per la freddezza delle membra, si sarebbe potuto dire che fosse semplicemente addormentata.

    Sembra davvero che dorma mormorò sottovoce il servo greco.

    Dafne, che fugge inseguita da Apollo, e, prima di essere tramutata in alloro, si assopisce stremata su di un letto di foglie dorate, pensò Cornelio, osservando con pietà quel corpo immobile.

    Menenio, il servo, interruppe i suoi pensieri: Eppure ormai è come un guscio vuoto. Il suo spirito ha abbandonato la forma materiale ed è volato altrove.

    Sento nelle tue parole una certa influenza di uno dei riti religiosi di più recente diffusione, quello cristiano. Ma sta’ attento a come parli, potresti passare dei guai. Hai dimenticato che reazione hanno certi imperatori di fronte a quel fenomeno? Tanto per citarne uno, pensa a Nerone!

    Anche se tu avessi indovinato, non credo che avrei molto da temere. Si dice che Traiano non voglia perseguitare sistematicamente i cristiani, laddove non vi sia delazione.

    E ti fidi?

    Sei stato tu il primo a dirmi che Traiano è un uomo d’onore, che non cambia la parola data! protestò Menenio.

    Già prima di tutto è un soldato… accennò Cornelio. Ma non potresti perlomeno dedicarti, che so, al culto di Mitra? È quasi simile a quello cristiano e per giunta non è per niente pericoloso!

    Menenio lo guardò con una luce strana negli occhi.

    Sono servo, nel fisico. Potrò almeno essere libero nell’animo!

    Cornelio rimase qualche istante assente, rapito dai suoi pensieri.

    Poi si scosse e riprese, con fermezza: Comunque non ti incantare sulla scia dei tuoi ardori religiosi. Qui c’è molto lavoro da fare! Il nome della donna è praticamente l’unica cosa che sappiamo, per ora.

    Si, l’ho sentito dire dai vigiles che stavano sigillando l’entrata della casa… Gaia Valeria… non riesco a ricordarlo completo.

    Gaia Valeria, vedova di tale Valerio Peregrino, un commerciante credo. Ed è proprio la famiglia del marito che chiede sia fatta luce su questa morte, vogliono intentare causa contro i colpevoli.

    Così Traiano ha incaricato te delle indagini. Una grana non da poco!

    Basta con le chiacchiere, bisogna agire! Devi subito darti da fare per acquisire ogni informazione utile: le sue origini, se aveva figli, cosa faceva e come è morto il marito, patrimonio, amici, nemici, chiacchiere su di lei, vizi, virtù, insomma, tutto!

    Sì, Jacopo Cornelio, cercherò di fare il possibile.

    Sguinzaglia la tua rete di informatori, ancelle, servitori, fabbri, osti, tutti quelli che vuoi, e poi torna a riferire.

    Non temere, non ci sarà servo delle case di questa zona che non mi lavorerò a dovere per spremergli tutte le cose che sa!

    Perfetto. Ma agisci con discrezione. Il caso è delicato, la donna era certamente molto ricca, la sua domus è una delle più belle di Argentoratae…. Poi aggiunse, quasi in un sussurro, come se parlasse solo a se stesso Traiano mi ha dato speciali poteri per interrogare qualunque sospetto… Non devo deluderlo!

    Dunque, va’ ordinò rialzando la voce e il servo si dileguò all’istante per andare a svolgere la sua preziosa missione.

    * * *

    Si soffermò alcuni secondi a guardare la sua immagine riflessa nella vasca dell’impluvium.

    Prima di tutto saltava all’attenzione il bagliore della spilla di bronzo che teneva fermo il mantello bianco e porpora che indossava sopra la tunica di lana, indispensabile in quelle gelide terre nordiche.

    I capelli dal taglio molto corto, una leggera cicatrice sulla guancia e le caligae ai piedi svelavano poi il suo passato da soldato.

    Un rumore quasi assordante si diffuse nell’ampio atrio della domus, facendogli alzare la testa verso il cielo.

    Cornelio constatò con disappunto che era cominciato di nuovo a piovere.

    Ma possibile che in quella dannata terra germanica la pioggia fosse sempre così insistente? Roma avrebbe dovuto imporre a quei barbari una legge che vietasse il superamento di un certo tasso di precipitazioni all’anno!

    Rivoli d’acqua espulsi dalle bocche sardoniche di alcuni satiri di terracotta presero a riversarsi fragorosamente nella vasca dell’impluvium.

    E i raggi di sole, che a tratti fuoriuscivano dalle nubi temporalesche, disegnavano attraverso la cascata d’acqua delle onde luminose e dei chiaroscuri intermittenti sulle pareti affrescate dell’atrio, sui mosaici multicolori del pavimento e sul corpo muto della donna uccisa, riversa immobile sul bordo di marmo della vasca.

    La sua elaborata acconciatura di riccioli rossi sfiorava l’acqua e a Cornelio parve simile a quella della dea Diana, raffigurata in tutto il suo splendore negli affreschi che coloravano di giallo, verde e rosso l’ampia sala della domus.

    Quelle immagini, che si rincorrevano da una parete all’altra, gli ricordavano casa sua, a Roma.

    Che indicibile nostalgia! La sua patria, il suo mondo, così lontano!

    Era via, quella volta, da almeno un anno e la malinconia, nelle gelide terre del nord, non lo abbandonava mai.

    Destinato a quell’avamposto ai confini dell’impero, circondato da boschi e da barbari sempre irrequieti, aveva mesi prima ricevuto la tragica notizia della morte della moglie incinta.

    E per quanto questa vicenda lo avesse turbato profondamente, provava quasi un senso di colpa perché, con il passare del tempo, erano altre le cose che gli mancavano di Roma.

    Il suo intrepido cavallo nero, che aveva montato tante volte e che adesso immaginava correre a briglie sciolte nel sole e nel vento sulla strada di Preneste, sotto l’occhio vigile dei suoi servi.

    E il cibo. Tutto, ogni pietanza romana, carni, pasticci, acciughe sott’olio straripanti dagli orci di coccio, e pure i fritti, grassi, pesanti, che fumavano indigesti nelle feste dei Saturnali.

    Alzò gli occhi al cielo sospirando e, nel fare quel movimento, si accorse di una figura umana che si stagliava scura all’ingresso dell’atrio.

    * * *

    Jacopo Cornelio Celere, procuratore di Augusto! Così proprio non può andare bene!

    Per Giove, pensò Cornelio, che altro è accaduto?

    La faccia del liberto Ulpio, suo fido segretario, era rossa di sdegno e gli occhi, scuri come un mare in tempesta, scintillavano minacciosi.

    Ho controllato la cucina di questa casa. Bacco mi è testimone: non voglio parlar male di una persona morta. Ma certe cose proprio non si fanno!

    Hai per caso scovato qualche indizio interessante? chiese serio Cornelio.

    Dipende da che cosa si intende per indizio. Se vuoi riferirti ad elementi che dimostrino le cause della morte, cioè una serie di particolari che, concatenati fra di loro, illustrino un percorso causale che conduca a precisi effetti distinguibili nella realtà delle cose…

    Taglia corto lo ammonì Cornelio, che conosceva la prolissità del suo colto liberto iberico.

    Non mi lasci mai approfondire il mio pensiero! protestò l’altro.

    Insomma, che cosa hai trovato?

    Una testimonianza non della fine della povera donna, ma di come essa conducesse la sua esistenza.

    E sarebbe?

    Cibo cotto direttamente sulla carbonella! Mi spiego. È una usanza barbara. Mettono pesci di fiume a cuocere sulla brace finché non se ne annerisce totalmente la pelle, che poi gettano via.

    Di nuovo con le sue fissazioni sull’arte culinaria e su come sia in ogni occasione più raffinata quella romana si innervosì fra sé Cornelio.

    E invece è molto più civile disporre sulla brace tripodi di metallo e poi adagiare su di essi recipienti di bronzo contenenti le vivande da cuocere continuò imperterrito Ulpio, sicuro della sua competenza in materia.

    D’accordo, ho capito. Ora piantala. Vediamo di trarre qualcosa di utile da questo tuo sproloquio! lo interruppe insofferente Cornelio.

    "Mi offendi, dunque. Eppure non puoi negare che le cene

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