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Imperatori e dèi
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E-book580 pagine8 ore

Imperatori e dèi

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Info su questo ebook

Roma ha bisogno del suo coraggio

Dall’autore del bestseller Il legionario

378 d.C. L’orda di Fritigerno ha invaso la tracia e ormai solo una manciata di città fortificate resiste ai goti sotto i vessilli imperiali. Le poche legioni rimaste sono allo stremo e osservano dalla sommità delle mura lo scempio delle terre circostanti. I Goti sono padroni incontrastati di quelle zone perdute, e vagano saccheggiando impietosamente qualunque cosa. In attesa di partire con i rinforzi – nella speranza di un attacco combinato delle armate di Oriente e Occidente – il centurione Pavone e tutta la legione xi Claudia sono a Costantinopoli e si preparano per la resa dei conti. La guerra contro i Goti ha richiesto un prezzo altissimo a ognuno di loro, Pavone in particolar modo. Non si hanno più notizie di suo fratello Gallo, partito in missione per conto dell’imperatore Graziano. Sono in molti a credere che sia morto, ma Pavone rifiuta di darsi per vinto e preferisce dedicarsi ad affilare la sua lama. Il fato gli concederà l’occasione di uno scontro nelle pianure di Adrianopoli, uno scontro destinato a rimanere nella storia. 

Un autore da oltre 150.000 copie 

Dove finisce la storia
Inizia la leggenda

«Mi ha letteralmente trasportato sul campo di battaglia: mi sembrava di avere davanti agli occhi i vessilli e di sentire il clangore del metallo.»

«Gli amanti della storia militare romana non dovrebbero farsi scappare questo libro, per me è stato una splendida sorpresa.»
Gordon Doherty
Di origini scozzesi, è autore di diversi romanzi storici. Il suo amore per la Storia è nato dalla magia legata al vivere e lavorare vicino al Vallo di Adriano e a quello di Antonino, siti che riportano indietro di millenni. La Newton Compton ha pubblicato i romanzi Il legionario, Gli invasori dell’impero, Una vittoria per l’impero e Il flagello dell’Oriente. Imperatori e dèi è il quinto libro che ha per protagonista Numerio Vitellio Pavone. 
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2018
ISBN9788822728562
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    Anteprima del libro

    Imperatori e dèi - Gordon Doherty

    Prologo

    Antiochia

    3 aprile 378 a.C.

    Tre legioni in armatura squamata marciavano incolonnate lungo una stretta strada polverosa sul fondo della gola. Monte Silpio e monte Staurino – entrambi scoscesi, dal manto d’oro brunito e punteggiato da ispidi arbusti – incombevano sul percorso come titaniche sentinelle, ammantando le legioni con la loro ombra e salvandole così dal caldo feroce del sole mattutino. Il clangore degli stivali e delle armature rimbombava tra le pareti della gola, e gli occhi dei legionari continuavano a guizzare nervosi verso le bianche e ripide rupi a entrambi i lati del passaggio. I loro pensieri andavano ai molti racconti sui briganti di quelle zone, alle legioni travolte da rocce lanciate dall’alto o tempestate di frecce, ai cadaveri derubati di borse e armature. Eppure proseguivano, impazienti di posare lo sguardo sulla meta: il possente Cancello di Ferro, ingresso orientale della città imperiale di Antiochia.

    L’imperatore Valente cavalcava alla testa della colonna. Un leggero velo di sudore gli imperlava i lineamenti abbronzati, induriti dall’età, e i ciuffi di capelli bianchi scoloriti dalla polvere dorata sollevata dal cavallo. Il sentiero si allargò, l’ombra scivolò via e il sole tornò a riversare il suo intenso calore sulla colonna di soldati. Superata una curva nel canyon, l’imperatore strizzò gli occhi blu cobalto e dopo un po’ lo vide, poco più avanti: il portale fortificato in pietra calcarea bianca scintillante. Le sue tozze torri e i cancelli di ferro si ergevano come un’imponente diga bloccando il passaggio in quella gola cotta dal sole, e i robusti muri di cinta seguivano su ciascun lato l’ascesa delle montagne, reclamando quel terreno superiore come parte della città. Anche gli uomini lo videro e un mormorio di voci eccitate risuonò dietro di lui.

    Dal cancello si udirono squilli di cornua, i corni a forma di G che annunciavano il suo arrivo. Valente si raddrizzò sulla sella, il mantello purpureo gli ricadeva sulla schiena dalle spalline d’acciaio bianco della corazza. Ci siamo, si disse: dopo mesi trascorsi a raccogliere le sue forze, per lui era giunto il tempo di agire.

    Guardò gli uomini dietro di lui. Erano gli ultimi tre reggimenti del suo esercito presenziale a esser stati prelevati dai presidi sparsi per la Siria romana, per radunarli lì ad Antiochia. Tutte le altre unità disponibili si erano già raggruppate dentro le mura della città o negli accampamenti sparsi sulle pianure fuori dalle mura settentrionali; ventisettemila uomini in tutto. Una vasta flottiglia di navi ormeggiate sul fiume Oronte attendeva di portarli dall’altra parte del mare fino alla loro destinazione: la travagliata diocesi di Tracia… e la guerra gotica che là infuriava. Nelle ultime settimane aveva visto l’ottimismo e la spavalderia dei legionari. Parlavano della guerra gotica come di un fastidio minore, una vittoria scontata. Ma nessuno di loro aveva sulle spalle il pesante fardello di Valente.

    Ogni anima dell’Est vive o muore per tua decisione. Ogni vita è nelle tue mani.

    Piegò leggermente la testa di lato e si strinse la radice del naso tra pollice e indice. Seimila uomini sarebbero rimasti indietro a presidiare i forti del deserto e le città della frontiera persiana – solo sei legioni a proteggere i territori più orientali di Roma dall’impero sasanide. Ma non erano i sasanidi la sua più grande paura. Perché mentre lo scià e le sue armate facevano la guerra allo stesso modo dei romani, i goti che li aspettavano dall’altra parte del mare erano diversi. Selvaggi, tenaci, fieri… loro combattevano per sopravvivere. La sua mente vorticava ripensando alla mole di missive che in quegli ultimi mesi erano giunte dalla Tracia: le fortezze montane erano cadute, le legioni erano state respinte dentro le città… e adesso centomila goti impazzavano per la Tracia al comando dello iudex Fritigerno. La guerra imminente non sarebbe stata tra imperi in cerca di gloria. Era uno scontro per la sopravvivenza. Un gioco brutale nel quale molte vite preziose sarebbero andate perse.

    Oppure, si chiese, c’è ancora tempo per negoziare?

    Fritigerno era un capo scaltro e a volte spietato, ma era uno dei pochi nobiluomini goti che comprendevano il vero significato della nobiltà. Cristiano ariano come Valente, Fritigerno aveva cercato l’accordo con l’impero quando all’inizio aveva condotto il suo popolo attraverso il Danubio e dentro i territori di Roma. La sua orda avrebbe dovuto coltivare le terre romane e servire nelle legioni imperiali, ma quella speranza era affondata in una palude di tradimenti e falsità, che avevano dato origine a due anni di guerra, con i goti che si impadronivano della campagna tracia, costringendo i cittadini romani e i resti malridotti delle legioni della diocesi dentro le principali città. La guerra era cresciuta come una pustola, che ora pulsava pronta a scoppiare. Doveva finire, e come quasi tutte le guerre ciò voleva dire una cosa sola: una battaglia che avrebbe sbaragliato una delle due fazioni. Benché lui avesse avuto notizia, se pure indirettamente, che lo iudex gotico cercava ancora un accordo piuttosto che la guerra. Quanto doveva dare credito a notizie tanto estemporanee? Soprattutto visto che aveva inviato messaggeri a Fritigerno con la speranza di intavolare lui stesso quei negoziati, ma solo per vederli scomparire una volta partiti. Una trattativa era forse un’ambizione eccessiva? Forse sì, ma la prudenza suggeriva di marciare in Tracia armato tanto di reggimenti quanto di diplomazia.

    E se si arriva a incrociare le spade?, si domandò, sentendo le spalle irrigidirsi.

    Allora pensò a suo nipote Graziano, imperatore d’Occidente. Aveva mandato numerosi messaggi ad Augusta Treverorum, nella lontana Gallia, supplicando Graziano di inviare le sue armate in Tracia per sostenere lo sforzo bellico e ribaltare il rapporto numerico. Un tempo Graziano era stato un giovane affabile, ma il potere e la fatica di mantenerlo lo avevano cambiato drasticamente, e sin da quando era salito al trono occidentale era stato freddo nei confronti di Valente. Nonostante ciò i rapporti indicavano che le armate dell’Ovest si stavano mobilitando in risposta alle sue richieste. Valente prese il chi-rho che portava al collo e lo baciò in un gesto di speranza. Dover supplicare suo nipote era un affronto, ma senza le legioni dell’imperatore ragazzino a rinforzare le sue…

    Il suono di zoccoli spazzò via i suoi pensieri. Alzò lo sguardo e vide due dei candidati che cavalcavano verso di lui con una certa urgenza. Quegli uomini – le sue onnipresenti guardie del corpo, con le tuniche bianche, le lance e gli scudi anch’essi bianchi con inciso sopra il chi-rho dorato dei cristiani – trottarono fino a un punto della strada proprio davanti a lui, quindi smontarono di sella. Valente rallentò fino a fermarsi e altrettanto fece la colonna. Guardò le due guardie, corrucciato: camminavano verso qualcosa a lato della strada, gli occhi guardinghi cerchiati di kajal, poi abbassarono le lance e assunsero la posizione da combattimento, come se il ripido pendio ai piedi del monte Staurino fosse loro nemico. Valente guardò la pila di rocce lì vicino. Non vide nulla degno di nota. Ma poi strizzò gli occhi e trasalì.

    Coperto di polvere dorata, quasi al punto da confondersi con il fianco della collina, c’era un uomo senza neanche uno straccio addosso, seduto con la schiena ritta e poggiata contro la parete scoscesa della rupe. Aveva gli occhi fissi su Valente, le palpebre immobili e uno sguardo disperato nelle iridi verdi come giada.

    «Chi sei?», latrò uno dei candidati che gli si erano avvicinati, guardando il vagabondo e poi scrutando rapido il fianco della montagna in cerca di indizi di un’imboscata.

    «In piedi, e parla, cane!», lo incalzò l’altro. I due sapevano che non era previsto alcun traffico di civili sulla strada, quel giorno.

    Valente spronò il cavallo per avvicinarsi cautamente e altri due candidati si affrettarono ad affiancarglisi. Lo straniero seduto sul ciglio della strada rimase dov’era, completamente immobile, incurante delle punte di lancia dei due soldati ora proprio sotto il suo mento, gli occhi verdi e penetranti sempre fissi su Valente. Era sulla trentina, valutò l’imperatore, anche se era difficile esserne sicuri poiché, man mano che si avvicinava, le innumerevoli macchie rosse, i lividi e le ferite sulla pelle di quel disgraziato si facevano sempre più evidenti. L’uomo era stato flagellato senza pietà. Volto, braccia, gambe e addome erano pieni di tagli profondi e ancora sanguinanti, coperti soltanto da una patina di quella polvere infernale.

    «In piedi!», intimò ancora una volta il candidatus, stavolta con un ringhio.

    Valente scese da cavallo e alzò una mano per calmare le due guardie, poi si avvicinò allo sconosciuto e si accosciò accanto a lui. «Chi ti ha fatto questo?», domandò, la voce secca e crepitante. Gli occhi dell’uomo raccontavano una storia dolente, tanta era la tristezza che rivelavano.

    Una folata di vento caldo spruzzò altra polvere sullo straniero. Fu allora che Valente vide che questa gli ricopriva gli occhi spalancati. L’uomo non sbatteva le palpebre, neppure un minimo movimento. Solo in quel momento si rese conto che aveva parlato a un corpo freddo e senza vita. La pelle gli formicolò per la paura quando percepì che i candidati, i suoi più strenui protettori, arretravano con gli occhi sgranati, guardando prima il cadavere poi lui. Alle sue spalle udì i legionari che cominciavano a mormorare, preoccupati. Molti di loro proferirono parole di preghiera. Si alzò in piedi sentendosi nudo come il morto, spogliato della sua autorità. Chiuse gli occhi nel tentativo di ricomporsi, ma anche nel buio dietro le palpebre la sensazione di essere aggredito rimase: da qualche parte nei recessi della sua memoria udì qualcosa che lo aveva tormentato per anni. Un rombo distante di acqua che correva. E allora la vide, proveniente dall’oscurità: una parete colossale di acqua marina spumeggiante che si avvicinava in fretta come se volesse inghiottirlo. Scrosciava sempre più rumorosa e sempre più alta, finché non poté vedere o udire nient’altro. Quando la sua ombra ricadde su di lui il panico lo accecò.

    «Vieni, Dominus», gli sussurrò uno dei candidati nell’orecchio, rompendo l’incantesimo e scacciando quel ricordo. Lui riaprì gli occhi e vide la gola tra le montagne battuta dal sole e le facce preoccupate tra i ranghi, udendo solamente mormorii e il frinire degli insetti. Un sudore freddo gocciolava lungo i suoi lineamenti lividi. «Non dovremmo indugiare qui», continuò il candidatus.

    Valente si accorse degli sguardi ansiosi che il militare lanciava alla colonna agitata e alle mura della città, dove i soldati di guarnigione sopra il cancello cercavano di capire cosa stesse succedendo.

    «Dovremmo sbrigarci», aggiunse il candidatus, «altrimenti gli uomini cominceranno a far girare la voce che questo è un segno di malaugurio per la spedizione in Tracia».

    Valente annuì, tornò in silenzio in sella al suo stallone e segnalò alla colonna di avanzare verso il Cancello di Ferro. Mentre cavalcava guardò il portone, i soldati in cima alle mura e lasciò che il coro dei corni aleggiasse intorno a lui, nella speranza che potesse dargli conforto. Ma per quanto ci provasse, non riusciva a scrollarsi dalla testa l’immagine dello sguardo lamentoso di quel cadavere… né l’oscuro ricordo della marea incombente e famelica.

    parte Prima. L’orda frammentata

    Capitolo 1

    Pavone sentiva il sole sul collo e la brezza estiva che gli avvolgeva le gambe. Si voltò, gli occhi che passavano in rassegna l’orizzonte. Le pianure dorate e le valli ombrose della Tracia lo circondavano. Le allodole cantavano, le cicale frinivano e l’erba si agitava mossa da un alito di vento caldo che soffiava tra gli steli. Eppure non c’era un solo uomo in vista. Era davvero quella la Tracia? La terra che dava preoccupazioni a ogni romano da quasi due anni? Dov’erano i predoni goti e i loro infidi alleati? E dov’erano le legioni che dovevano contrastarli?

    «È finita?», sussurrò osservando il cielo azzurro privo di fumo, i campi rigogliosi e senza segni di saccheggi. «La guerra è finita?».

    Una momentanea eccitazione montò dentro di lui. Inalò la calda aria estiva e rise ad alta voce. La risata echeggiò per la vallata e si spense. L’eccitazione scemò. Che gioia poteva esserci se non c’era nessun altro con cui condividerla? Tanti erano morti per la guerra. Alcuni – pensò all’amata Felicia – adesso erano in pace. Altri vagavano nel limbo. Né vivi né morti. Perduti, scomparsi. «Gallo, Dessione, so che siete là fuori, da qualche parte», mormorò. Il tribuno che lo aveva guidato come un padre e il fratellastro che aveva appena ritrovato erano… svaniti. «Se la guerra è davvero finita farò tutto quel che posso per trovarvi».

    «Non è finita», disse una flebile voce proprio alle sue spalle.

    Si voltò. Una donna vecchia e ingobbita lo guardava dal basso, i capelli sottili e argentei che incorniciavano un volto pallido, corrugato e dalle fattezze antiche, gli occhi bianco latte che vedevano tutto e niente. Lui non si mosse minimamente sapendo che non aveva nulla da temere da lei, perché era la donna che tanti anni prima gli aveva dato la falera del padre. Da allora gli era apparsa solo nei sogni e in fugaci momenti come questo.

    «La guerra deve ancora raggiungere la sua fase più nera», disse tetra.

    «Allora perché sono qui? Cos’è questo?», domandò allargando le braccia e guardandosi intorno.

    «È tutto quello che posso offrirti», rispose lei, poi alzò un braccio tremante e stese un dito contorto, indicando un punto dietro Pavone, a ovest.

    Lui sapeva che non c’era niente da vedere in quella direzione, ma si voltò a guardare lo stesso. Cuore e respiro si fermarono quando vide quel che era apparso là: sul morbido fianco occidentale della collina c’era una fattoria. Una villa modesta con mura bianche e tegole rosse. Su un lato sporgeva un fienile con un tetto di paglia.

    La porta della casa era aperta e c’era un cane seduto accanto. Un bell’animale dalla pelliccia d’argento, con occhi di un azzurro glaciale e neppure un grammo di grasso in eccesso. Poi realizzò che non era un cane, ma un lupo. La bestia sorvegliava la fattoria, suppose lui. All’interno vide una forma nell’ombra che si dimenava sul pavimento. Il sangue di Pavone si fece di ghiaccio: la sagoma si voltò ed egli vide i suoi artigli ricurvi guizzare. Poi ci fu un debole e sofferto stridio.

    «Un’aquila… che significa?», domandò.

    La megera non rispose e lui seppe che se n’era andata. Ma un soffio di vento caldo gli accarezzò la schiena, come a guidarlo verso il casale. Risalì la collina.

    «C’è qualcuno?», chiamò. Nessuna risposta, solo un altro stridio dall’aquila. Il lupo lo guardò avvicinarsi, gli occhi azzurri fissi nei suoi. «Buono, bello», disse sapendo che quelle creature, se inferocite, potevano essere letali. Ma il lupo sembrava amichevole – le orecchie erano schiacciate sulla testa e rivolte verso il basso – e lo lasciò passare. Entrò in casa e si ritrovò in una stanza con un camino. L’aquila giaceva al centro del pavimento. Era di un bianco puro, intenso, e vide che aveva un’ala rotta. Ma non si dibatteva più, ormai esausta. Si rese conto che stava morendo. Rimase inginocchiato accanto a lei per un po’, finché non esalò l’ultimo respiro e le ali ricaddero inerti. «Dormi adesso», sussurrò.

    Fece per alzarsi quando un sordo ringhio lo fermò. Alzò gli occhi e vide che il lupo lo aveva seguito dentro casa. Il suo atteggiamento era cambiato: adesso aveva il muso arricciato e i denti snudati, le zampe posteriori contratte e pronte a scattare. «Buono!», ripeté. Ma si accorse che il lupo non stava ringhiando a lui, bensì a qualcosa… dietro di lui.

    Si alzò girandosi e vide che una sagoma alta e indistinta era scivolata su di lui, come un gigante ammantato in una coperta nera quanto la notte, senza forma e minaccioso, con rivoli di fumo scuro che esalavano dal corpo. Pavone si allontanò di scatto dalla figura. «Tu?», annaspò riconoscendo la forma eterea. Molti anni prima, quest’uomo-ombra si trovava al mercato degli schiavi a osservare Pavone, ancora ragazzo, mentre veniva venduto. «Non mi hai sentito l’ultima volta che hai infestato i miei sogni? Fatti vedere oppure vattene!».

    L’uomo-ombra divenne più grande, come se quelle parole lo avessero provocato, e lo spinse indietro con mani nere e invisibili. Pavone incespicò e cadde sul pavimento di pietra. L’ombra avanzò, come a volerlo colpire ancora, ma il lupo saltò in mezzo a loro ringhiando ferocemente. La sagoma fece saettare una lama argentata e colpì il lupo che cadde a terra, ululante, quindi tornò a incombere su Pavone.

    Gli sbuffi di fumo che emanavano da quella creatura senza forma si fecero sempre più spessi e intensi, bruciavano gli occhi. Un istante dopo, le mura, il pavimento e il soffitto della fattoria esplosero in una gabbia arancione di fiamme ruggenti. Il calore del pavimento lo bruciò. Rimase lì, inerme, mentre l’uomo- ombra sollevava la lama argentata per colpirlo a morte…

    «No!».

    «No!», gridò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, le braccia alzate in un gesto di protezione. Sentì una folata d’aria, poi un colpo e un dolore a ginocchia e palmi delle mani. Il mondo che gli vorticava attorno si fermò e lui si rese conto di dove fosse: a Costantinopoli. Più precisamente, si trovava carponi sul pavimento di fredda pietra della caserma, su cui era atterrato dopo esser caduto dalla cuccetta, la coperta ancora avvolta intorno alla vita e la pelle viscida di sudore. Strizzò gli occhi, scosse la testa ansimando e vide il fosco chiarore che preannunciava l’alba attraverso le finestre a feritoia.

    Confuse e un po’ irritate si mossero altre due figure nella camerata da quattro. Sura – gli occhi gonfi di sonno e i riccioli biondi arruffati e pieni di nodi – si tirò su, rovistò nella borsa accanto al suo letto e lanciò una moneta a Quadrato, il gigantesco centurione gallo dai capelli chiari e i baffi spioventi. «Te l’avevo detto», grugnì Quadrato afferrando la moneta, per poi voltarsi verso il muro e rilasciare tre scorregge in rapida successione, come per sottolineare quanto asserito: «Tutto come previsto».

    Pavone rivolse un’occhiata interrogativa a Sura.

    «Avevo scommesso che avresti dormito tranquillamente fino a che il sole non fosse stato alto in cielo. Quadrato sosteneva che prima dell’alba ti saresti messo a gridare», spiegò Sura stringendosi nelle spalle.

    Pavone si passò una mano tra i corti capelli neri e si asciugò la pellicola di sudore sulla fronte, una goccia del quale colò fino alla radice del naso aquilino. «Fate scommesse sui miei incubi? È bello sapere che avete a cuore il mio benessere».

    In quel momento si mosse anche la quarta figura nella stanza. «Per Mitra, ma voi bastardi me lo fate apposta?», gracchiò il centurione Zosimo alzandosi a sedere sulla sua branda. Il costante cipiglio del centurione anziano della xi Claudia era ancora più accentuato e la sua mascella squadrata sporgeva offesa. «Stavo facendo un sogno bellissimo… ero tornato a casa a Adrianopoli e stavo con Lupia». Tracciò nell’aria il profilo della moglie come se stesse a cavalcioni sopra di lui. «Ero a tanto così», grugnì tenendo pollice e indice vicini quasi fino a toccarsi, poi aprì le mani come per cogliere due pere mature dall’albero, «a tanto così dal mettere le mani sulle sue te…».

    «Tieni», s’intromise Sura lanciando controvoglia una moneta anche a Zosimo.

    Pavone si fece scuro in volto. «Ah, insomma avete tutti scommesso sui miei problemi personali?».

    Zosimo tirò su col naso e inghiottì il contenuto che gli si raccolse in gola, sul viso gli sbocciò un sorriso malevolo mentre col pollice faceva saltare la moneta e la riprendeva al volo. «Be’, io ero dell’idea di prenderti a pugni nelle palle – ma belli forti – tutte le volte che ci avresti svegliato prima dell’appello, quindi considerati fortunato».

    «A proposito di appello». Quadrato guardò fuori dalla finestra sottile, oltre la quale la luce dell’alba si era fatta più intensa.

    La faccia di Zosimo s’incupì nuovamente. Sporse il corpo taurino oltre la branda, agguantò una buccina da un gancio nel muro e lanciò il corno di bronzo a Pavone. «Tieni, vedi di renderti utile».

    Dopo essersi scrollato di dosso gli ultimi residui di sonno e aver indossato una tunica bianca, una cotta di maglia lunga fino alla coscia, il mantello marrone, stivali di pelle e un elmo intercisa con la cresta di ferro, il centurione Numerio Vitellio Pavone della xi Claudia Pia Fidelis, seconda coorte, prima centuria, uscì dal blocco degli alloggi nella fresca mattina di aprile. Attraversò la piccola piazza d’armi e salì le scale fino al parapetto in cima alle tozze e robuste mura del complesso a nord della città. Individuò la sentinella solitaria all’angolo, rivolta di spalle. Quell’uomo era il bucinator, quello che doveva suonare la sveglia mattutina. Fece un passo verso il commilitone ma qualcosa lo fece fermare: il desiderio di gustarsi quel momento di quiete prima che la legione venisse svegliata.

    Si permise per il tempo di qualche respiro di godersi il clemente tepore del sole sulla pelle, e contemplò quella perla di marmo che era la capitale dell’impero: colline gentili punteggiate da rigogliosi giardini e frutteti, cupole di terracotta, statue dorate e templi, colonne di porfido che si allungavano verso il cielo, volute di scale e ampi viali percorsi dai cittadini più mattinieri e dai venditori diretti ai molti mercati. Tutto ciò era bagnato dalla morbida luce dorata, le ultime ombre grigie che lentamente cedevano il passo sulle note dei canti degli uccelli. Un soffuso chiacchiericcio e l’aroma di pane fresco e pesce arrostito spostarono la sua attenzione a nord e all’attività dei pescatori nel vicino porto del Neorion, integrato nelle tozze mura marittime della città. Dietro il pontile un basso e lattiginoso banco di nebbia aleggiava sopra le acque del Corno d’Oro, e sulla sponda opposta la torre di Sycae sbadigliava al cielo. Istintivamente aprì una mano come per offrirla a un’assente compagna ripensando alla primavera precedente, quando lui e Felicia avevano assistito al sorgere del sole proprio da lassù.

    Un giorno i nostri figli si affacceranno su queste acque, aveva detto lei mentre la stringeva tra le braccia, il fiato di quelle parole sussurrate che danzava sulla pelle del suo collo come aria mossa dalle ali di una farfalla.

    Sorrise tristemente e chiuse la mano. La sofferenza era stata in fase acuta per molti mesi e, benché adesso stesse diminuendo, a volte era ancora crudele come un colpo di frusta inaspettato. Fece un gran respiro, si avvicinò al bucinator e gli porse il corno. Il soldato fece il saluto e poi alzò la buccina, in cui si svuotò i polmoni. Il lamento del corno si diffuse per Costantinopoli. Come bestie feroci che rispondevano al richiamo, molti altri corni suonarono dalle altre caserme sparse per la città.

    Una volta spentosi il pianto dei corni, il piazzale deserto proprio sotto Pavone si riempì di un coro di gemiti e urla, quando la xi Claudia tornò a vivere riversandosi dai blocchi serrati dei dormitori. I legionari uscirono all’aperto sistemandosi addosso l’armatura in tutta fretta. Pavone li osservò radunarsi e, mentre le prime due centurie finivano di prepararsi e correvano a prender posto davanti a lui, egli si impettì leggermente e avvertì un piccolo nodo allo stomaco. Era una cosa che non aveva mai preso in considerazione prima della sua recente promozione a centurione: che ogni azione, ogni atteggiamento, ogni parola avrebbero avuto conseguenze sugli uomini al suo comando. Lì in caserma forse non aveva molta importanza, ma presto, pensò mentre con lo sguardo andava all’orizzonte a nordovest, presto le loro vite sarebbero state nelle sue mani.

    Gli ultimi mesi erano stati sventurati per la Claudia. Lo scontro con i goti del reiks Farnobio al passo di Succi, nelle regioni occidentali della Tracia, era stato terribile. Centinaia di uomini erano caduti nella gelida desolazione di quella stretta vallata. Sin da quando dopo la battaglia erano tornati a Costantinopoli per superare l’inverno, si erano impegnati a ricostituire la legione in tutta la sua forza prima della fine di maggio, in tempo per unirsi all’esercito dell’imperatore Valente quando fosse giunto da Antiochia. Solo alcune centinaia di soldati della legione erano sopravvissute al passo di Succi, perciò reclute e veterani erano stati coscritti in massa per ripristinare i ranghi. Adesso i millecinquecento uomini che affollavano gli alloggi indicavano che alla Claudia mancavano solo poche centurie per tornare a pieno regime. Tra le molte facce nuove allineate dinanzi a lui ce n’era qualcuna familiare: Cornico e Trupone, ragazzi di pochi anni più giovani di lui che erano diventanti rapidamente veterani al passo di Succi e ora erano un esempio per gli altri della sua coorte. Cornico era un legionario alto e longilineo, con un talento per la cucina che gli aveva fatto guadagnare popolarità tra i soldati, e una livida cicatrice lasciata da una spada gotica che andava dalla mandibola alla fronte, a testimonianza del suo coraggio sul campo di battaglia. Trupone – sovrappeso e timido quando era entrato nella legione – adesso era snello come un levriero ed entusiasta, nonché uno dei più veloci corridori che Pavone avesse mai visto. Guardò tra i ranghi della prima coorte di Zosimo e annuì quasi impercettibilmente a Retto, il centurione dal volto sottile, e a Libone, il suo optio dai capelli arruffati e alquanto esagitato, che esibiva un occhio buono e uno di legno, con l’iride argentata e la pupilla dipinta, storta e troppo grande. Anche quei due erano veterani del passo di Succi, nonché istigatori di ogni attività illecita fuori e dentro la caserma.

    Come imponeva l’appello del mattino, ogni uomo in riga indossava una cotta di maglia e portava un cinturone con la spada, una lancia e uno scudo dipinto di rosso rubino e decorato con motivi dorati. Presto si unirono a loro Ereno, il cretese dalla carnagione scura, e la sua centuria di funditores, esperti frombolieri che avevano servito bene la legione al passo di Succi. Anche la centuria di sagittarii provenienti dalla stessa campagna militare si stava allineando accanto a loro: questi fanti arcieri indossavano elmi bronzei conici con la protezione nasale, cotte di maglia e mantelli rossi.

    Nel giro di minuti il piazzale traboccava di legionari, tre coorti quasi complete. Il complesso degli alloggi era stato progettato per ospitare solo la metà di quella cifra, perciò Pavone perdonò l’irregolarità in alcune delle formazioni, vedendo che i signiferi di ogni centuria reggevano ben alti gli stendardi della loro unità e avevano assunto la posizione corretta, mentre l’aquilifer della legione era fermo davanti e alzava al cielo lo stendardo della legione, più alto e più grande, in modo che l’aquila d’argento e il toro color rubino appesi sotto prendessero in pieno la prima luce del mattino.

    Sura, suo optio e secondo al comando, salì le scale e si unì a lui, subito seguito dai centurioni Zosimo e Quadrato. Qualcosa di non detto li fece girare tutti e quattro in direzione del posto accanto al centurione Zosimo. Uno spazio vuoto di norma occupato dal tribuno Gallo. Di norma. E c’era un altro spazio… per il secondo al comando nella legione. Il primus pilus. Dessione.

    L’assenza del tribuno e del primus pilus era per Pavone una ferita aperta nella sua carne. Dove siete?

    I due erano andati a ovest per mettere assieme una forza di supporto per il passo di Succi. Questo contingente – una banda di lancieri sarmati – era arrivata e aveva contribuito a volgere le sorti dello scontro a favore della Claudia, ma il tribuno Gallo e il primus pilus Dessione non erano tornati con loro. Tutti i sarmati sapevano che la coppia aveva continuato a viaggiare a ovest per portare la notizia della guerra gotica all’imperatore Graziano, così da far affrettare il cammino delle sue legioni verso la Tracia.

    Che Mitra vi metta le ali ai piedi, sussurrò a fil di voce, e protegga il vostro cammino, aggiunse, poiché conosceva fin troppo bene il nero rancore provato da Gallo nei confronti della corte occidentale.

    «Avevo in mente di farvi fare un po’ di allenamento in armatura oggi», latrò improvvisamente Zosimo alle coorti radunate. Pavone guardò gli uomini accalcati scattare sull’attenti alla prospettiva di allenarsi con spada, scudo e giavellotto. «Ma come sappiamo tutti bene, c’è a malapena spazio qui dentro per montare una capra. E qualcuno di noi lo sa anche troppo bene», aggiunse scoccando un’occhiata di rimprovero a un legionario sdentato, che chinò la testa imbarazzato.

    Pavone alzò un sopracciglio, ricordando il terrorizzato belare di una capra che lo aveva svegliato qualche notte prima, poi si scrollò dalla mente quella distrazione. Guardò Zosimo ripensando alle tante chiacchierate che lui, Sura e Quadrato avevano fatto con il centurione anziano sul regolamento vigente: la xi Claudia, come le restanti legioni tracie, aveva il divieto di oltrepassare le spesse mura cittadine, un divieto che andava avanti sin dagli inizi di marzo. Era stato nel primo giorno di quel mese che le bande di guerrieri goti erano state avvistate sulle colline fuori della città. Una coorte che si stava allenando nelle radure lì vicino era stata attaccata con una rapida incursione. Centinaia di preziosi legionari erano stati uccisi o menomati. Perciò il magister officiorum – l’uomo al comando della città sotto gli ordini diretti di Valente – era stato costretto a imporre il coprifuoco, negando alle poche forze di stanza e alle loro reclute la possibilità di addestrarsi a dovere e di prepararsi, rinchiudendole all’interno delle mura. «Come pecore», mormorò Pavone.

    «No, capre», sussurrò Sura fraintendendo. «Gli piacciono le capre».

    Pavone a malapena registrò il commento, ancora concentrato su quel problema. Le ampie strade e le piazze di Costantinopoli non erano adatte all’addestramento dei legionari, soprattutto dal momento che erano zeppe di rifugiati provenienti dalla campagna trace, ma era evidente che a quegli uomini servisse un posto per scaricare la tensione. Alcuni, comprendeva lui, erano ansiosi di mettersi alla prova. Altri avevano i nervi a fior di pelle e volevano lanciarsi in qualche addestramento o combattimento che desse modo di sfogare l’ansia accumulata. Troppo spesso nell’ultimo mese i soldati non avevano avuto altro modo di passare il tempo se non riversandosi nelle strade affollate, nelle taverne o nei bordelli della città. In linea di principio Pavone non aveva alcun problema al riguardo – anzi, in qualche serata si era anche unito a loro per un bicchiere o due – però sapeva bene che non era quello il modo di prepararsi all’arrivo dell’imperatore Valente e alla marcia in territorio trace che sarebbe seguita. Certo, i ranghi erano stati rinforzati, ma quanti di loro sapevano maneggiare una lancia? Quanti potevano marciare per otto ore senza mettersi a vomitare? C’erano abbastanza uomini nelle coorti in grado di controllare la paura senza indietreggiare di fronte all’esercito dei goti?

    «Ho provato ad aggiudicarmi il campo vicino al mercato del pesce, nei pressi del porto di Giuliano», proseguì Zosimo, «ma i bastardi della V Macedonica sono arrivati prima. Però forse è meglio così: quel posto puzza come la passera di una puttana!».

    A quelle parole i soldati si rilassarono e partì un sommesso coro di risate.

    «Quindi rompete le righe, macinate il grano e cuocetevi il pane, poi dedicatevi al vostro equipaggiamento. Faremo un’altra esercitazione a mezzogiorno. Vedrò quello che posso fare per domani», concluse Zosimo. Mentre gli uomini tornavano dentro gli alloggi si rivolse ai suoi colleghi ufficiali. Pavone riusciva quasi a sentire il peso che sopportavano le spalle di quell’uomo massiccio; gli occhi del trace erano iniettati di sangue e quando le coorti si furono disperse lo vide afflosciarsi un poco. A Zosimo era stato offerto il ruolo di tribuno, ma lui l’aveva rifiutato sostenendo che Gallo era ancora in carica, anche se assente.

    «Prima torneranno tuo fratello e il tribuno, meglio sarà», borbottò Zosimo, più una speranza che un’aspettativa.

    Pavone notò che Sura e Quadrato si erano scambiati un’occhiata dubbiosa. Il fatto che persino quei due stessero abbandonando le speranze gli causò una fitta di angoscia nel petto. «Se così vuole Mitra, allora così sarà», sentenziò, poi si voltò a guardare le coorti che si mettevano al lavoro per pulire le armature, affilare le spade e cuocere il pane mattutino. «E ora, riguardo a questo coprifuoco, io dico che è durato abbastanza. È stato stabilito per proteggere le poche legioni di stanza qui fino all’arrivo dell’imperatore Valente, ma sta diventando esso stesso un pericolo. Di certo ci sarà pure un modo per poter utilizzare il terreno fuori le mura».

    «Non vorrei sembrare petulante, ma il magister officiorum è uno scroto senza cervello. A malapena mi ha dato ascolto quando sono andato da lui ieri. Ha detto che in mattinata è stato di guardia sulle mura e ha visto la situazione coi suoi occhi. E il coprifuoco deve rimanere».

    «Non è neppure un maledetto soldato», si lamentò Quadrato. «Probabilmente si è fidato di uno di quei coglioni in armatura che pattugliano le mura».

    Gli occhi di Pavone si socchiusero e lui si accarezzò il mento, pensoso. «Nessuno di noi ha visto il terreno oltre le mura cittadine da quando è stato imposto il coprifuoco. Forse Sura e io dovremmo fare un giro sui bastioni… e dare uno sguardo coi nostri occhi».

    «Sicuro», rispose Sura, «con la mia famosa vista. Potrei vedere lontano per chilometri».

    «Perfetto, il pazzo è d’accordo», brontolò Quadrato. «Una sventura per qualsiasi piano».

    Zosimo parve sul punto di trattenerli, ma poi rinunciò. «E allora andate, ma come civili, e non oltrepassate i cancelli. In questo modo non violerete il coprifuoco».

    Un’ora dopo la nebbia che aleggiava sulle acque si era diradata e il sole aveva scacciato le ombre dell’alba dalla città. Pavone e Sura avevano dismesso le loro vesti di ferro e si erano diretti alle mura cittadine indossando calzoni di lino e tuniche bianche decorate sul petto con strisce viola, che li identificavano come militari in libera uscita. Gli indumenti leggeri davano loro un po’ di sollievo dal caldo primaverile, ma tutti e due avevano la fronte imperlata di sudore. Si addentrarono nei vicoli affollati che conducevano alla terza collina: in quell’agglomerato fitto la pianta cittadina fatta di larghi viali e strade trionfali cedeva il passo a insulae sbilenche dai mattoni rossi, che immergevano le strette viuzze nell’ombra. L’assordante eco di una stridula voce di donna che intimava al marito di «svuotare il secchio della latrina» risuonò da uno degli appartamenti dei piani superiori.

    Attraversarono i mercati gremiti tra la terza e la quarta collina, seguendo il percorso del grande acquedotto, entrando e uscendo dall’ombra proiettata dai suoi alti archi, poi salirono una rampa di scale di pietra e giunsero sulla grande strada settentrionale orlata di marciapiedi rialzati e camminamenti porticati – una delle arterie della città. Questo viale li condusse alle mura cittadine e a un grande corpo di guardia fortificato. Una coorte di legionari comitatenses – i coglioni in armatura, come li aveva diplomaticamente chiamati Quadrato – pattugliavano i bastioni.

    «Faccia-da-culo non è qui oggi, a quanto pare», disse Sura osservando gli uomini presenti. Pavone guardò ma non vide tra loro il tracotante centurione che come niente fosse aveva liquidato la Claudia quando loro avevano chiesto di aiutare la guarnigione di stanza sulle mura, qualche settimana prima. Perché dovrei volere il supporto di semplici limitanei?, aveva replicato sdegnato l’ufficiale dai lineamenti scolpiti. Quelli come voi sono carne per gli arcieri goti, nient’altro.

    Passarono accanto alle stalle vicino al corpo di guardia e attesero finché la sezione del muro alla destra di questo non ebbe che una sentinella a pattugliarla. Pavone fece un cenno a Sura e senza dire una parola i due si mossero verso un piccolo cancello posteriore, per salire le scale subito oltre. Sbucarono in cima ai bastioni e la sentinella solitaria scoccò loro un’occhiata di traverso, quindi si avvicinò, come Pavone si era aspettato. Lui incrociò lo sguardo del soldato con occhi d’acciaio, un’espressione che aveva imparato da Gallo e che indicava alla sentinella di trovarsi al cospetto di un ufficiale. «Signore», salutò quello notando poi le decorazioni sulle tuniche, e tornò a scrutare la campagna.

    Pavone riprese a respirare, accorgendosi solo ora di aver trattenuto il fiato, e con Sura camminò verso le merlature alte fino al petto che orlavano il muro. Improvvisamente furono investiti da una lieve brezza proveniente da nord, che arruffò i corti capelli di Pavone e spinse i riccioli di Sura davanti alla sua faccia. I due si appoggiarono con i gomiti al parapetto e volsero lo sguardo alla landa che si stendeva oltre la città. I loro occhi andarono dalle acque turchesi e seriche del Propontide a sud fino alle colline verdeggianti e dorate a nord. La vasta distesa di terra era priva di vita. Uno spazio adeguato per l’addestramento, pensò Pavone, poi Sura gli diede di gomito indicando una nuvola grigia oltre le colline, che macchiava il cielo altrimenti terso. Era il fumo dei saccheggi, sapevano entrambi, distante appena due o tre chilometri.

    «Pare che le voci dicano il vero, dopo tutto», mormorò Sura in tono rassegnato.

    Pavone digrignò i denti. Quindi non era stata solo l’immaginazione di un magister officiorum troppo cauto la causa del coprifuoco. «Non ho mai dubitato che i goti fossero vicini», replicò cupamente, «credevo soltanto che non fossero così vicini».

    Guardò a sinistra e a destra, lungo le mura parzialmente coperte da una nube di foschia rugginosa che saliva dalle vie cittadine. Ogni torre aveva in cima un paio di balistae, di scorpioni lanciafrecce o di onagri caricati a pietre. Basteranno?, si chiese.

    Si alzò in punta di piedi e sporse il collo oltre il parapetto per guardare il vicus in basso: un aggregato di capanne di legno, tende e bancarelle improvvisate che era cresciuto appena fuori dalle mura come cirripedi attaccati allo scafo di una nave. Con la Tracia invasa dai goti, i rurali erano stati cacciati dalle loro fattorie, costretti a cercare rifugio nella prima città che potesse accoglierli. La maggioranza era fuggita a Adrianopoli, a Perinto e lì. Ai primi fu permesso di entrare senza difficoltà, ma quando poche migliaia diventarono decine e poi centinaia di migliaia, il magister officiorum era stato costretto a chiudere i portoni. Questo però non aveva fatto molto per ridurre la marea di rifugiati, e così il vicus era cresciuto drasticamente, con innumerevoli famiglie che vagavano avanti e indietro disperatamente alla ricerca di cibo o posto dentro una capanna. Pavone sentì il morso della colpa quando vide una madre intabarrata in uno scialle e con addosso due bambini fasciati che implorava un venditore ambulante per una pagnotta. I figli piangevano e lei era quasi scheletrica, ma le guardie del corpo del venditore la respinsero con uno sguardo minaccioso. Le preziose riserve di grano nelle città romane della Tracia erano andate riducendosi per tutto l’inverno, a causa del raccolto perso l’autunno precedente, reclamato dalla guerra e dal freddo feroce. Nelle ultime settimane le razioni di pane all’interno della città erano state dimezzate. Una volta giunta inevitabilmente, la carestia avrebbe colpito i poveri per primi. D’un tratto una piccola crosta di pane rotolò in terra davanti alla madre e lei l’afferrò, la spezzò a metà e ne diede un pezzo a ciascuno dei suoi piccoli. Pavone cercò con lo sguardo la fonte del pane.

    Un gruppetto di legionari comitatenses di stanza sulle mura era lì sotto, a bere vino su una panchina accanto a una taverna improvvisata. In mezzo a loro avevano una cesta di pane, e tra uno scherzo e una risata briciole e tozzi volavano in strada. Indossavano soltanto cappe e tuniche, ma quello che pagava per tutti aveva una corazza di cuoio marrone. I capelli rossi e la pelle chiara sembravano scolpiti nel fine marmo greco, con una piega incredibilmente perfetta al centro del mento e brillanti occhi d’argento che gli conferivano l’aspetto di un celebrato eroe di guerra.

    «Faccia-di-culo», mormorò Sura riconoscendo il centurione comitatensis. «Zosimo ha detto che dobbiamo restare dentro la città…».

    «Se Zosimo fosse qui ci resterebbe?», obiettò Pavone.

    I due si voltarono e scesero dalle mura. Riemersero nuovamente dal cancello posteriore, poi seguirono il carretto di un venditore che portava l’acqua fuori dal cancello principale e sgusciarono fuori con esso, approfittando del breve istante di apertura delle porte. Passarono sotto l’ombra del corpo di guardia, voltarono a destra attraversando i soffocanti viottoli sterrati del vicus, facendosi strada tra i volti sudici della folla, le tende luride e le capanne scricchiolanti. Erano circondati dall’odore dell’acre fumo di legna, i latrati di cani li seguivano e un generale brusio di voci intente a barattare andava e veniva di continuo.

    «Rallenta, se Faccia-di-culo ci vede pianterà un casino», sibilò Sura che faceva fatica a stare dietro a Pavone.

    «Se Faccia-di-culo e i suoi scagnozzi possono stare qui a ubriacarsi, non vedo perché noi non possiamo portare la Claudia sui campi qua fuori», disse Pavone indicando le radure chiazzate d’erba appena oltre il vicus. «Saremo sempre sotto la protezione delle mura», aggiunse alzando gli occhi alle torri coi loro pezzi d’artiglieria. Le balistae facevano capolino come becchi di uccelli rapaci. Andò dal venditore di pane e comprò quattro pagnotte. Era rustico ma ancora caldo e profumava deliziosamente. Ne diede una a Sura, raggiunse la donna e gliene porse due.

    Lei lo guardò, con una lacrima che le rigava la guancia. Pavone s’inchinò gentilmente e proseguì verso la taverna di fortuna, sedendosi su una panchina libera. «Allora, passiamo un po’ di tempo qui fuori e capiamo esattamente quant’è pericoloso».

    «Questo è parlare», fece Sura con un ghigno, sedendosi di traverso sulla panchina; alzò un dito per catturare l’attenzione della cameriera, ne tenne due sollevati e con la bocca mimò: vino. Subito dopo guardò di sbieco l’altra panchina mentre un coro di risate esplodeva alla fine dell’ultima battuta del bel centurione. Il quale fece una pausa prima di cominciare la prossima barzelletta per lanciare una gelida occhiata a Sura, riconoscendo lui e Pavone.

    «Bah, ecco fatto», mormorò Sura.

    «Ignoralo», disse Pavone addentando il pane caldo e masticando distrattamente, gli occhi di nuovo alla distesa verde oltre il vicus, immaginando cosa avrebbe potuto fare per i ranghi della Claudia anche solo qualche sessione di addestramento. La landa era vuota a eccezione di pochi coraggiosi carri di commercianti e, all’orizzonte, una turma di una trentina di equites esploratori incappucciati, che galoppando si avvicinavano al cancello. «Possiamo addestrarci qui. Ma come riusciamo a convincere il magister officiorum

    «Baciandogli il culo?», rispose Sura facendo spallucce. «O magari permettendo a lui di baciare i nostri? Sembra il tipo».

    Un rumore li riscosse dai loro pensieri quando due coppe di vino furono posate sul tavolo in mezzo a loro. Per un fugace istante la vista della delicata mano della cameriera smosse un ricordo perduto che punse il cuore di Pavone. Risalì con lo sguardo le braccia nude fino al collo sottile, velato in parte da riccioli di capelli neri. Era graziosa, con labbra piene e lo sguardo sensuale. Non assomigliava per niente a Felicia, ma c’era in lei qualcosa che la ricordava: qualcosa che aveva a che fare col sorriso – un sorriso che le accendeva gli occhi di una luce che aveva la stessa brillantezza e la stessa fiera bellezza che lui aveva visto in Felicia. Per un attimo dimenticò dove si trovasse e perché. Ma poi vide Sura che gli sorrideva e distolse lo sguardo, imbarazzato.

    «È passato un sacco di tempo», disse Sura sottovoce mentre la cameriera si allontanava.

    Pavone alzò gli occhi e incontrò quelli dell’amico, poi si girò dall’altra parte, temendo che il groppo che aveva in gola potesse fuoruscire.

    «Quant’è, sei mesi?», insisté Sura.

    Sei mesi e cinque giorni, pensò lui.

    «Di certo lei ti avrebbe detto di andare avanti, di fare quello che fanno gli uomini. Per Mitra, non era mica timida su certe…», cominciò Sura, poi ci ripensò.

    Pavone annuì, fingendo di scacciare una mosca davanti agli occhi. Guardò ancora la cameriera, che colse nuovamente il suo sguardo voltandosi con fare civettuolo. Allora lui ricordò quanto tempo fosse passato da quando aveva sentito per l’ultima volta una qualsiasi forma di eccitazione. «Mi direbbe di tirare fuori le palle» rispose con uno sghignazzo, poi scosse la testa e sbatté la mano sul tavolo. «E comunque, tu in quanto a fregole basti per entrambi», aggiunse con un ghigno.

    «Ah, è vero», ammise Sura rilassandosi un poco sulla panchina e facendo scrocchiare le dita. «Il rubacuori di Adrianopoli, mi chiamavano un tempo. Rubavo di letto in letto per tutta la città, notte dopo notte. Certi dicono che le mie concittadine ancora parlano estasiate della lunghezza de…».

    «Delle tue fandonie?», lo anticipò Pavone impassibile.

    Sura sussultò per l’affronto, poi agitò un dito vedendo il luccichio negli occhi di Pavone. «Vedrai. Un giorno di questi andremo a Adrianopoli. Allora vedrai…».

    Pavone sorrise e prese un sorso di vino. Era fresco e acidulo, perfetto per mandare giù il pane.

    Sura fece altrettanto, si pulì uno sbaffo di schiuma dalle labbra e si mise di nuovo a guardare la campagna. «E comunque hai ragione, domani potremmo portare i ragazzi qua fuori ad addestrarsi, se riusciamo a far cancellare questo coprifuoco, o quantomeno ad allentarlo».

    «Portare qui fuori i tuoi legionari… sei matto?», fece una voce distinta e profonda che tagliò l’aria tra i due come un’ascia affilata, arrivando assieme a un puzzo di alcol stantio.

    Pavone e Sura si voltarono vedendo il centurione che sorrideva con un sopracciglio inarcato, come se si trovasse di fronte a un mimo non particolarmente bravo. «Matto? No, ma potremmo diventarlo tutti se passiamo un altro

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