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Morti te salutant, l'origine del contagio
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Morti te salutant, l'origine del contagio
E-book228 pagine3 ore

Morti te salutant, l'origine del contagio

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Info su questo ebook

The Walking Dead di Robert Kirkman incontra il Gladiatore di Ridley Scott.

“Secondo le credenze germaniche il morto non è mai completamente morto, può sempre tornare a nuocere ai vivi. Ma i germani sono popolazioni barbare e primitive a cui noi romani abbiamo portato la civiltà. Noi romani non possiamo credere a queste favole che si raccontano ai bambini prima che vadano a dormire.”

Il contagio si è diffuso nei territori di Roma. l’Imperatore Tiberio vuole la verità. Cassio Cherea, veterano delle gallie, deve scoprire le origini dell’epidemia. Alla guida di un gruppo di mercenari, Cassio accompagna un misterioso prefetto in Africa e scopre che tutto è già accaduto.

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti non è puramente casuale. Tutto ciò che è narrato nel libro in qualche modo è già successo, e potrebbe succedere ancora.
LinguaItaliano
Data di uscita8 gen 2016
ISBN9788893320467
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    Anteprima del libro

    Morti te salutant, l'origine del contagio - Giancarlo Lupo

    Self-Publishing

    Capitolo I

    Ricordo che il bianco e il freddo avvolgevano ogni cosa. Procedevamo attraverso foreste sempre più intricate. Tullio, il mio optio, faceva cadere la neve, sferrando colpi secchi con l'accetta affilata e tagliando rovi intricati per rendere più agevole il passaggio. Tenui raggi di sole filtravano tra i rami degli alberi. Vedevamo vallate e montagne bianche punteggiate di verde con nuvole in lontananza. Vidi i barbari che facevano scivolare travi di legno pesante su ripide collinette e sentieri nevosi, trainandole grazie a corde legate al busto. I loro volti erano induriti dal freddo; non ci degnavano di uno sguardo. Tra queste popolazioni vigeva la credenza che il dio albero avesse creato tutto, i barbari ne tagliavano rami e radici solo perché i romani conquistatori lo ordinavano. E ci odiavano per questo.

    Dove si trova il nostro Caronte? domandò Tullio.

    Ci siamo quasi, risposi.

    Gli indicai la direzione e mi strinsi nel mantello per ripararmi dal gelo. Tra muschi ed alberi a lungo fusto seguitammo a discendere per un sentiero che conduceva al fiume limaccioso e scuro, con attorno foreste bianche di neve.

    Su una barchetta di legno, stretta e traballante, ci attendeva un barbaro dalla pelle biancastra e dai lunghi baffi biondi; indossava braghe larghe di stoffe colorate ed era coperto solo da un peloso mantello di lana. In capo aveva un elmo con corna di toro; non conosceva la lingua degli uomini, il latino o il greco. Sapeva solo che il suo compito era traghettarci sull'altra sponda del fiume.

    Quando salimmo a bordo il legno della barca scricchiolò. Il barbaro affondò il remo nell'acqua verdastra con colpi lenti e decisi; ci trovammo rinchiusi tra montagne lussureggianti. Si alzò la nebbia che immerse tutto in un'atmosfera lattiginosa. In mezzo al fiume affioravano qua e là spuntoni di roccia e gorghi.

    Dall'altro lato ci attendeva un legionario con indosso la lorica e la tunica rossa. Su un braccio aveva lo scudo rettangolare, con l'altra mano stringeva le redini di una pariglia di cavalli. Mostrammo il sigillo del comando, ci salutò, cedette le redini, salimmo in groppa e cavalcammo per ore finché non arrivammo alla pianura nevosa con sentieri di ciottoli. Incrociammo pochi carri di commercianti, spinti a forza da uomini che affondavano i piedi nella neve.

    Capii che il forte di Massilia era vicino per via della manutenzione della strada che migliorava e per il numero dei legionari a piedi che gradualmente aumentava. A un certo punto sentimmo un tambureggiare attenuato di zoccoli e il tonfo dei piedi che marciavano nella neve. Scorgemmo le insegne con l'aquila e i vessilli tenuti bene in vista dai signiferi, in prima fila.

    Passarono due ali di cavalieri e un reparto di fanti. Ci limitammo a salutare con cenni del capo poiché eravamo impossibilitati a fermarci.

    Comparirono le prime capanne di legno coi tetti in paglia, sparse qua e là ai margini della strada acciottolata su cui trascorrevano carri che cigolavano e sobbalzavano.

    Giungemmo all'accampamento. Di lato alla trincea era costruito, con la terra di riporto, un bastione su cui erano infilati i pali acuminati.

    Un legionario con la barba incolta ci fermò all'ingresso e mi riconobbe: Cassio, sei tu, disse.

    Erano trascorsi tre lustri da quando avevo iniziato a combattere i barbari al di là delle frontiere. Tutti mi conoscevano nelle Gallie e sapevano cosa aspettarsi da me.

    Maledissi lui e i suoi penati, gli gridai di non farmi perdere tempo.

    Rise. Impartì ordini all'interno del forte. Di far passare il sopravvissuto di Teutoburgo. L'eroe.

    Subito dopo i cardini del portone scricchiolarono, appesantititi da troppa ruggine, poi emisero piccole esplosioni di polvere quando cedettero con un lungo lamento metallico. I battenti del portone di legno si aprirono lentamente e io e Tullio fummo all’interno del perimetro difensivo dove erano allestite tende per seimila uomini; la maggior parte degli uomini però era al fronte. Per questa ragione io e Tullio eravamo stati mandati al forte di Massilia. Dovevamo accelerare le pratiche per gli approvvigionamenti: armature, armi, attrezzi per cucinare, strumenti di scavo, persino i pali acuminati per le staccionate difensive degli accampamenti. Serviva tutto. E infine dovevo guidare la mia centuria e riportarla al fronte.

    Al centro del campo, come quartier generale, era stato approntato un capanno con la tettoia di paglia per ospitare il legato dell'accampamento. La tettoia si piegava sotto il peso della neve, che continuava a cadere da troppo tempo.

    Resta qui, dissi a Tullio.

    Entrai dentro e Agrippa, un vecchio combattente con mille cicatrici sul volto, mi salutò offrendomi da bere del vino tiepido con cannella. In assenza dei superiori al fronte era il legato.

    In un angolo osservavo le funi trascorrere all'interno di due anelli fissati a pesanti battenti di legno. Le corde servivano a legare tre uomini alti e massicci, dai lunghi baffi che coprivano quasi interamente la bocca. Indossavano un’armatura in maglia di ferro, dei pantaloni corti e portavano in capo elmi di metallo con due corni d'avorio in cima. Riconobbi dal loro aspetto che erano allobrogi. In un forziere accanto vidi gioielli, anelli e catene d’oro, probabilmente il frutto delle loro rapine.

    Uno dei tre allobrogi si rialzò in piedi e fece per sputarmi appena mi fui avvicinato. Un legionario accanto a me gli sferrò un pugno sulla corazza, poi con la lancia gli menò un colpo alle gambe per costringerlo a piegarsi nuovamente. Riconobbi il coraggio del gallo; sebbene fosse in ginocchio, non cadde a terra e seguitò a fissarmi dritto negli occhi. Il suo respiro si materializzò nell'aria fredda.

    Hanno trovato questi barbari al porto, volevano derubare la nave dei cilici, disse Agrippa. Avevano anche questo scrigno di gioielli, rubati ai cittadini romani.

    Un legionario estrasse dallo scrigno una collana di perle.

    Si divertono a derubare matrone romane, disse.

    Il gallo che mi aveva sputato addosso esibì il riso di chi aveva i denti consumati dalla fame. Lo ascoltai proferire battute sulla madre del console Varo, sulla sconfitta di Teutoburgo di cui si parlava in tutti i luoghi al di qua e al di là del Reno, e sulle aquile che avevano perduto le loro penne. Uno dei suoi compagni accennò una risata, l'altro invece tenne il capo chino sul petto, dove era visibile un ampio solco; sembrava febbricitante, tremava, sussultava e gemeva.

    Io, al contrario di voi, c'ero durante la battaglia, dissi. E ho portato a casa la mia centuria.

    Ma quanti dei tuoi hai perduto? mi domandò il barbaro impunemente.

    Meno di quanti, dei tuoi, ho mandato nei campi elisi, dissi. E non capisco perché poi ti glori di una vittoria a cui il tuo popolo non ha minimamente partecipato, aggiunsi.

    Ho combattuto contro daci, pannoni, dalmati, ho ucciso talmente tanti barbari che le dita della mano e dei piedi non riuscirebbero a computare. Ricordai loro che Germanico aveva recuperato due delle aquile perdute, e la terza non avrebbe tardato a giungere.

    Il barbaro a lato non rideva più.

    Mi rivolsi ad Agrippa e dissi, mentre sorseggiavo il vino: Quello sembra più morto che vivo, indicai con il dito il gallo che sudava; notai gli occhi chiusi e i sussulti improvvisi che si spargevano per tutto il corpo.

    In realtà non sappiamo chi l'abbia colpito. Non sono stati i nostri. Era già così quando l'abbiamo trovato. Osserva la ferita sul petto.

    Mi avvicinai con la coppa di vino in mano e sentii il barbaro emettere un lamento simile a un grugnito. Avvertii uno spiacevole odore di carne putrefatta e muffa mista a feci. La fronte e il collo dell'allobrogo erano imperlati di sudore. Buttai giù un altro sorso di vino.

    Più che una ferita da gladio sembra un morso di qualche belva feroce, dissi.

    A proposito di morsi. Non ti avvicinare troppo. Stamattina in un attacco di rabbia, ha tentato di mordere un legionario che voleva dargli da mangiare. Hanno legato tutti i suoi compagni per evitare altri problemi.

    A sentire questo, il legionario, prodigo di punizioni corporali, si avvicinò al barbaro e gli sferrò un calcio sulla pancia, ma l'uomo non sembrava provare dolore.

    Sono venuto a sollecitare gli aiuti per la guarnigione di confine, dissi cambiando discorso. E a prendere la mia centuria ovviamente.

    La nave dei cilici è ferma al porto. Non può ormeggiare da diversi giorni perché il mare è grosso, disse Agrippa.

    Questo è inusuale. Di solito i pirati cilici hanno fretta di attraccare per godere di vino e puttane. Non esiste il mare grosso per loro, dissi io.

    Domani tu e la tua centuria, di buon'ora, potete andare al porto a sollecitare l'attracco. Poi siete liberi di ritornare al fronte, Agrippa rise, sapeva che solo i pazzi, come me e Tullio, erano ansiosi di tornare in prima linea.

    Con la coda dell'occhio osservai i tre barbari in ginocchio. Quello febbricitante ruotava gli occhi acquosi verso il suo compagno. Pur essendo legato si divincolò, digrignò i denti, scattò in avanti muovendo la mascella, preso da rabbia si scagliò verso il compagno e riuscì a raggiungerne il collo a morsi.

    Il legionario a lato disse: I cani si sbranano tra loro a quanto pare, e si mise a ridere.

    Separali, ordinai seccamente.

    L'altro gallo osservava la scena spaventato, si ritrasse indietro e invocò Toutatis nella sua lingua. Capivo facilmente il suo dialetto. Da troppi anni vivevo in quelle lande. Disse che quello era un segno degli dei. I fratelli che mangiavano i propri fratelli. Il cielo adesso era pronto a cadere sulla testa di noi tutti, diceva.

    Il legionario provò ad afferrare l'invasato da dietro; nonostante avesse le mani legate, il barbaro gli si avventò contro, emettendo un gorgoglio sordo. Gli morse il collo e il legionario iniziò a perdere fiotti di sangue mentre l'altro allobrogo ferito si contorceva, terrorizzato a terra, in preda al dolore. Il legionario lo colpiva ripetutamente con il gladio, ma il gallo non allentava minimamente la presa. Posai la coppa di vino sotto gli occhi di Agrippa, afferrai un pesante tavolo di ferro e lo sbattei in testa al barbaro. La testa esplose, il cervello si sparse al suolo e il corpo si afflosciò all'istante. Il legionario si ritrasse spaventato, strisciando sulle gambe e tamponandosi la ferita con le mani.

    Non riesci a gestire neppure un prigioniero legato? gli domandò Agrippa quasi divertito.

    Osservai gli occhi del legionario, pieni di terrore, guardare un punto dietro di me. Mi voltai indietro e vidi l'altro barbaro, con la ferita al collo, gli occhi acquosi e i denti digrignanti, saltarmi addosso e tentare di mordermi. Lo tenni lontano con le mani. Eravamo a terra. Il barbaro aveva le mani legate dietro la schiena, con le fauci mordeva l'aria, il volto contratto di rabbia e fame.

    Tullio entrò dentro in quel preciso istante e gli arrivò alle spalle; probabilmente aveva sentito il trambusto all'interno del capanno e aveva disobbedito ai miei ordini; lo uccise infilandogli il gladio dietro la nuca. Quando la lama fuoriuscì dalla bocca il sangue scivolò sulla polvere. La mascella del barbaro gli schizzò via dalla faccia, lasciando la lingua a penzoloni.

    Una cicatrice solcava il volto di Tullio, come ad allargargli il sorriso. L'aveva guadagnata durante la famosa battaglia di Teutoburgo. Io gli salvai la vita allora e da allora Tullio aveva giurato che l'avrebbe salvata a me.

    Sono arrivato giusto in tempo, centurione, disse.

    Come sempre, dissi rialzandomi in piedi.

    L'unico allobrogo sopravvissuto, rannicchiato in posizione fetale, fissava il pavimento sporco di sangue, piangeva e continuava a invocare Toutatis.

    Osservai la pelle avvizzita, la carne cascante chiazzata di rosso sangue, ne ero sicuro, non avevo sognato: si trattava di carne morta che aveva ripreso vita.

    Secondo le credenze germaniche il morto non è mai completamente morto, può sempre tornare a nuocere ai vivi. Ma i germani sono popolazioni barbare e primitive a cui noi romani abbiamo portato la civiltà. Noi romani non possiamo credere a queste favole che si raccontano ai bambini prima che vadano a dormire.

    Cosa succedeva in quelle terre maledette?

    Questo avvenne il giorno prima che il cielo ci cadesse sulla testa.

    Capitolo II

    L'indomani partimmo all'alba. L'aria odorava di terra umida e aghi di pino, le ombre danzavano dentro il fogliame coperto di neve. Marciammo a tappe forzate sul tappeto bianco. Una porzione di cielo, all'orizzonte, era gonfia di nuvole e immergeva tutto in una atmosfera irreale e gelatinosa. Un forte vento faceva crollare la neve dalle cime degli alberi.

    Giungemmo al porto. Le onde si frangevano sulla battigia. Al largo vidi imbarcazioni colme di botti di vino, anfore e schiavi da vendere, catturati oltre confine. Sulla terraferma gli schiavi di Roma trascinavano le navi a forza di gambe, con le funi arrotolate intorno al torace, avanzando chini come chi cammina contro una tempesta. La riva era cosparsa di anfore rotte, ossa di animali e rifiuti di ogni tipo.

    Scorsi la nave dei pirati cilici che eravamo venuti a sollecitare, con il fasciame che marciva a prua, le vele rattoppate e spiegate, non ammaestrate da nessuno. Stranamente non vidi i rematori che affondavano i remi nell'acqua.

    Che succede? domandai al legionario di guardia.

    Non sembra ci sia alcun equipaggio a bordo. Da giorni è al largo.

    Mandate qualcuno a vedere allora, ordinai.

    Nessun pescatore, con il mare grosso, si arrischia a prendere il largo.

    Osservai meglio. Le vele gonfiate dal vento stavano portando la nave in secca. Era solo questione di tempo.

    Centurione, disse un altro legionario. Qualcosa merita la tua attenzione.

    Annuii e lo seguii. Tullio mi accompagnò.

    In fondo alla spiaggia i pescatori scrutavano il mare. Io e Tullio ci facemmo largo tra la folla seguendo il legionario.

    Guarda laggiù, disse. Dove pescano le piovre.

    I pescatori adottavano una tecnica particolare: erano soliti legare tra loro otto anfore in una specie di intelaiatura, le immergevano in acqua e, non appena il polipo entrava dentro i vasi in cerca di riparo e le anfore diventavano pesanti, i pescatori tiravano su il meccanismo.

    Sono pesantissime, disse uno dei pescatori.

    Forse si sono incastrate in qualcosa, dissi. Non mi sembra un fenomeno così importante da meritare la mia attenzione.

    Osserva bene, incalzò il legionario.

    Quando le giare di terracotta finalmente affiorarono e io fui in grado di vedere meglio non riuscii a capacitarmi. Vidi una mostruosità incastrata fra i vasi. Una intera gabbia toracica di un uomo, con la testa ancora attaccata, senza braccia e con le gambe rosicchiate dai pesci. La cosa mordeva l'aria, in eterna agonia, cercando di afferrare i polipi che gli strisciavano sul petto.

    Come fa ad essere ancora viva quella... cosa?

    Il capannello dei pescatori dietro di me si fece sempre più animato.

    Sembra come il barbaro di ieri, disse Tullio pensieroso. Ha gli stessi occhi bianchi, privi di vita.

    I pescatori si spintonavano per riuscire a vedere l'insieme di anfore che emergevano dalle acque torbide. Tre pescatori manovravano le stanghe collegate tra loro, per trasportare i vasi sulla terraferma.

    La mostruosità in cima alle anfore venne sollevata e trasportata sulla battigia; cadde a terra con la piovra ancora abbarbicata al corpo. Ora era ben visibile, tra i tentacoli del polipo, una ferita profonda, purulenta, che pareva avergli aperto e divorato gran parte del ventre.

    L'essere, perché non si poteva più parlare di uomo, era ormai completamente annerito, con la pelle del viso tirata all'indietro e tesa come cuoio, cosi da scoprire tutti i denti marci. Al posto della sua gamba destra vidi un pezzo d'osso aguzzo e lungo. La mostruosità sentì le nostri voci e, incurante della gamba rigirata quasi completamente in qualche punto sotto il ginocchio, strisciò verso di noi emettendo un brontolio gutturale da lupo affamato. Muoveva le fauci e mordeva l'aria. I pescatori si ritraevano indietro per la paura.

    Mi avvicinai. Tentò di mordermi la caliga. Gli schiacciai la testa con lo scudo. La creatura si afflosciò.

    Cosa sono queste cose, centurione? domandò Tullio.

    Non ebbi neppure il tempo di rispondere. Un grido richiamò la nostra attenzione.

    La nave degli approvvigionamenti si stava arenando sulla spiaggia. Distinguevo chiaramente alcune creature sopra il pontile, ma non sembravano essere umani. Si trascinavano barcollando, i capelli tirati all'indietro alla foggia dei pirati, alcuni indossavano panni laceri che ricoprivano il corpo, altri erano nudi e mostruosi. A uno di loro pendevano le viscere dal ventre. Un altro, privo di gambe, si trascinava sul legno marcio della nave.

    Appena ci avvistarono, quello con le viscere penzolanti si sporse verso di noi, cadendo in acqua, scomparendo nelle acque torbide

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