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Andata e Ritorno
Andata e Ritorno
Andata e Ritorno
E-book254 pagine3 ore

Andata e Ritorno

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Info su questo ebook

Il calcio è molto più che un semplice sport. Per Diego, protagonista di questo che i due giovani autori descrivono come uno “sperimentale romanzo caleidoscopico“, esso rappresenta la cartina al tornasole della sua esistenza. Uno stile di vivere e di pensare che tra le pagine non viene mai (o quasi) completamente a galla, ma che rimane sullo sfondo senza mai nascondersi o abbandonare il lettore. Accompagnato per mano dalla struttura singolare del racoonto, egli fa da spettatore ai fatti e ai ricordi che riscaldano l’estate del 2006 di Diego – “una delle più importanti della mia vita”, rivela lui stesso – come un tifoso che ogni domenica si reca allo stadio per sostenere la sua squadra del cuore. Un torneo fatto di sogni, racconti, personaggi, oggetti e non solo che si susseguono con un ritmo frenetico ” giornata dopo giornata”, disegnando scenari sempre nuovi (anche quando apparentemente già visti e vissuti). Fino al/alla finale che, come spesso nei libri e nel calcio capita, riserva la sorpresa più grande.
LinguaItaliano
Data di uscita26 feb 2013
ISBN9788862596725
Andata e Ritorno

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    Anteprima del libro

    Andata e Ritorno - Patrick Marzetti

    ANDATA E RITORNO

    Patrick Marzetti - Andrea Pompei

    EDIZIONI SIMPLE

    Via Weiden, 27

    62100, Macerata

    info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it

    ISBN edizione digitale: 978-88-6259-672-5

    ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-711-1

    Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand

    Via Weiden, 27 - 62100 Macerata

    Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.

    Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.

    Prima edizione cartacea febbraio 2013

    Prima edizione digitale febbraio 2013

    Copyright © Patrick Marzetti - Andrea Pompei

    Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale

    o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.

    a Fiocco,

    la voce candida del silenzio

    ANDATA

    1° Giornata

    Terza prova

    «Ragazzi, a che punto siete? Sbrigatevi, fra un quarto d’ora ritiriamo i compiti».

    Un quarto d’ora. Solo un quarto d’ora. Troppo poco per Diego che aveva appena finito di rispondere alla seconda domanda. Troppo poco per la commissione: con due risposte su cinque non avrebbero mai dato la sufficienza. Del resto la matematica non è mai stata un’opinione, e che due è meno della metà di cinque lo sa anche il più generoso dei professori.

    Sono le 12:45 del 7 luglio 2006, e al Liceo Classico Annibal Caro di Fermo si sta svolgendo la terza prova dell’esame di maturità. In fondo al corridoio principale della scuola c’è una lunga scalinata, scendendo la quale ci si ritrova immediatamente nella palestra. Oggi è piena di ragazzi. Mai nel corso dell’anno è stata così affollata. Ma mai nemmeno così silenziosa. Se i pensieri facessero rumore, la signora Adele, sola in cucina nella casa a fianco, dovrebbe chiudere la finestra e avvicinare l’orecchio alla gabbia per poter continuare a parlare con Loreto, il suo coloratissimo pappagallo quarantenne. Ma i pensieri non fanno rumore. A rompere quel silenzio quasi tombale è soltanto l’eco dei passi del professor Righetti che cammina tra i banchi. E il frinire delle penne sui fogli quasi come cicale in una notte di questa estate ancora acerba. Una di quelle penne è nella mano sinistra di Diego, e sicuramente non è tra quelle che friniscono più forte.

    «Illustra brevemente la storia della costruzione della Sagrada Familia di Antoni Gaudì e i tratti che la caratterizzano maggiormente».

    Seduto all’altezza del dischetto del calcio di rigore, Diego sta tentando con tutte le sue forze di rispondere almeno alla domanda di storia dell’arte. La vittoria è oramai un miraggio: il suo unico obiettivo ora è quello di evitare la sconfitta. Come un calciatore. È così che si sente Diego in questi ultimi minuti di gioco, all’attacco ma senza lucidità. E attaccare quando si avverte lo scorrere inesorabile del tempo non è facile, soprattutto se ci si ritrova a dover recuperare il risultato. Succede sempre così: quando si sta vincendo, l’orologio sembra fermarsi; ma quando si rincorre le lancette accelerano incontrollabili. Quella di Diego è diventata oramai una corsa contro il tempo. Tre ore per rispondere a cinque domande sembrano un’eternità. Eppure il tempo che si ha a disposizione non è mai abbastanza. Tardi è tardi.

    Letteratura inglese e filosofia sono ostacoli già superati. Diego è soddisfatto della risposta sul flusso di coscienza in James Joyce. La straordinarietà e l’originalità della sua scrittura hanno sin da subito affascinato Diego che più di una volta aveva cercato di emulare l’autore irlandese ottenendo scarsi risultati non ce ne voglia il ragazzo ma è ancora piuttosto acerbo la sua scrittura è piena di cliché letterari ma in fondo è normale per un diciottenne ispirarsi ai più grandi quando cerca di tradurre in parole i propri pensieri che a quell’età sono anticartesianamente né chiari né distinti ma vari e mutevoli come il cielo che in questo inizio di estate passa continuamente dal plumbeo al sereno dal sereno al plumbeo un attimo piove un attimo c’è il sole proprio così come sicuramente starà pensando la signora Adele che in questo momento ha abbandonato la conversazione con il suo pappagallo per stendere i panni fuori dal balcone gli stessi panni che appena un’ora prima aveva dovuto ritirare dopo averli appesi da nemmeno mezzora una vera lotta che la signora Adele stava perdendo contro il tempo quello atmosferico proprio mentre il nostro Diego stava iniziando la sua di battaglia contro il tempo quello cronologico rispondendo alla domanda di inglese cercando di arginare il suo di flusso di coscienza nelle invalicabili usando lo stesso termine usato dal professor Righetti quindici righe già stampate sul foglio.

    Nemmeno Nietzsche coglie Diego impreparato. La domanda sull’eterno ritorno dell’Uguale non è delle più semplici, ma la complessità della questione non lo scoraggia. Con calma riordina le idee, riprende in mano la penna e tira dritto… Nemmeno Nietzsche coglie Diego impreparato. La domanda sull’eterno ritorno dell’Uguale non è delle più semplici, ma la complessità della questione non lo scoraggia. Con calma riordina le idee, riprende in mano la penna e tira dritto… Nemmeno Nietzsche coglie Diego impreparato. La domanda sull’eterno ritorno dell’Uguale non è delle più semplici, ma la complessità della questione non lo scoraggia. Con calma riordina le idee, riprende in mano la penna e tira dritto…

    Ora il destino dell’esame è racchiuso tutto all’interno della Sagrada Familia, a Barcellona, in Spagna. Non c’è un biglietto da pagare, tantomeno una fila da fare. Bisogna solo scrivere. Qualsiasi cosa. Ma bisogna scrivere. Non è Diego a scegliere la domanda di storia dell’arte, è la domanda di storia dell’arte a scegliere Diego. Storia e geografia astronomica sono terreni inaccessibili, avversari imbattibili.

    La Via Lattea? La sola via Lattea che lui conosce è incredibilmente quella che porta da casa di Martina alla chiesa del quartiere, dietro la quale sono nascosti due campi da calcetto. In quello di destra, proprio sotto il campanile, Diego va spesso a giocare con i suoi amici. È l’unico in erba sintetica della zona. Le stelle? Le uniche stelle che brillano nel suo firmamento si chiamano Alex Del Piero e Gigi Buffon. Se l’argomento della domanda fossero loro, Diego riuscirebbe persino a riscrivere la voce stella della Treccani. Nemmeno Calciopoli con tutte le sue ombre sta offuscando la luce che questi nomi fanno risplendere nel suo cuore. Ma purtroppo le stelle che intende la professoressa Scipioni sono tutt’altra cosa. Questa leggera confusione di idee suggerisce a Diego di tralasciare la domanda di geografia astronomica.

    Per quella di storia vale lo stesso discorso: frugando nei cassettini della sua memoria non trova molte tracce riguardanti i trattati di pace della prima guerra mondiale. Versailles, Neuilly, Saint-Germain: i soli nomi delle località non sono sufficienti. Per quanto ne sa lui, le sorti della Grande Guerra potrebbero anche essere state decise ai calci di rigore.

    Per tutti questi motivi quella della domanda di storia dell’arte è una scelta obbligata. Un quarto d’ora. Solo un quarto d’ora. Riempire quindici righe in quindici minuti è ardua impresa, ma per aspirare alla sufficienza si deve tentare una risposta. Mentre il professor Righetti invita gli studenti a tenere d’occhio l’orologio della palestra, Diego se ne sta ad occhi chiusi cercando di ricordare il giorno in cui era di fronte alla Sagrada Familia con suo padre. Era Ferragosto. Quasi un anno fa. Il giorno del suo compleanno. Il diciottesimo. Quello della maturità. Il viaggio a Barcellona era un regalo di suo padre. Un regalo per il figlio. O forse un regalo per se stesso. Il rapporto tra i due è sempre stato in costruzione, proprio come l’ultima maestosa opera di Gaudì. Non sarebbe stato difficile un anno dopo rivivere le emozioni e le sensazioni di quel giorno, dato che nulla in quella città lo aveva impressionato di più della Sagrada Familia. Nulla, ovviamente, escludendo il Camp Nou, uno dei templi sacri del calcio mondiale. Che cosa lo colpì esattamente quel giorno Diego non riesce a spiegarlo. Non ci è mai riuscito. E adesso si trova addirittura a doverlo mettere nero su bianco, nel tentativo di riempire più righe possibili e di dare una risposta in più alla commissione. E anche a se stesso.

    Probabilmente di tutti i ragazzi presenti nella palestra Diego è l’unico ad aver avuto la fortuna di aver visto dal vivo l’oggetto di quella domanda, l’unico ad avere la fortuna di poter ricorrere all’esperienza personale oltre che al vuoto ricordo di foto e parole del libro di testo. Come non sfruttare ora questo bagaglio di vita vissuta?

    «Fu nel 1883 che Gaudì ottenne l’incarico della costruzione della chiesa. I lavori però erano già avviati da circa un anno. Al 1882 infatti risale l’inizio dei lavori sulla base di un progetto neogotico».

    All’improvviso a Diego tornano in mente queste parole, quasi qualcuno seduto vicino a lui gliele stesse suggerendo. Diego si guarda intorno con circospezione e si accorge che nessuno sta parlando. Se così fosse il professor Righetti non se ne starebbe seduto tranquillamente sotto il canestro a sfogliare il Corriere della Sera, ma avrebbe già ritirato il compito al suggeritore. E probabilmente anche a Diego, che invece si rende conto che quelle parole provengono dalla sua testa. Sono le parole di Luz, la preparatissima guida che aveva accompagnato Diego e suo padre a visitare la Sagrada Familia. Il ricordo di lei e del suo italiano fluente permette a Diego di richiamare alla memoria gli elementi necessari alla risposta della domanda.

    «Ragazzi, il tempo a vostra disposizione sta per scadere. Fra un minuto ritiriamo i compiti».

    Mentre la professoressa Marini pronuncia l’inappellabile sentenza, Diego rimette il cappuccio alla penna e la ripone nel suo astuccio. Ha appena terminato anche la risposta di storia dell’arte. Ha ricordato tutto. Forse anche troppo. Il tempo si è dilatato, e i quindici minuti sono diventati un’eternità. Lo spazio bianco del foglio, al contrario, si è improvvisamente ristretto e le quindici righe sono diventate troppo poche. In questa nuova dimensione Diego ha potuto illustrare la dedizione quasi malata di Gaudì per quello che secondo lui sarebbe diventato l’ultimo grande santuario del mondo cristiano e il valore quasi soggettivo che la chiesa stessa finì per ricoprire nella sua mente; la parziale distruzione dell’edificio e dei laboratori dell’artista durante la guerra civile spagnola; il significato di tutte le allegorie e dei numerosissimi simbolismi cristiani mistici progettati dallo stesso Gaudì. Senza tralasciare la grande sensazione di impotenza che lo colse quel giorno di Ferragosto, quando si trovò lui stesso al cospetto della maestosità della chiesa. Soltanto ora Diego riesce a spiegarsi cosa lo colpì esattamente di quella visione: era tornato bambino. Quel bambino che all’età di due anni, al mare con i genitori, ammira estasiato la mamma che riempie un secchiello di sabbia umida, lo capovolge, lo batte un paio di volte con la paletta e molto accuratamente lo solleva da terra per scoprire un magico castello incantato, abitato da chissà chi. Magari anche la Sagrada Familia è nata così. Da un secchiello più grande.

    «Grazie. Grazie. Grazie».

    Da un secchiello più piccolo intanto, ignaro di tutto, Loreto si appresta a consumare il suo pasto quotidiano. Ignaro di tutto, ma non senza riconoscenza per le costanti attenzioni della signora.

    2° Giornata

    Campioni del mondo?

    Sono tutti bravi nel dire che nella vita gli esami non finiscono mai, ma finché il peso di queste parole non grava sulle nostre spalle e ci costringe a chinare la schiena non si è in grado di cogliere appieno il loro profondo significato. La nostra esistenza altro non è che un buffo campionato di calcio. Una stramba competizione in cui siamo noi a condurre il gioco, siamo noi ad imbatterci in avversari più o meno difficili da affrontare, siamo noi a gioire delle vittorie e a piangere le sconfitte. A volte si cade e ci si infortuna, ma poi con pazienza ci si rialza e si ricomincia a camminare. A correre. Talvolta subentra un giocatore più bravo di noi e ci spedisce in panchina, ma con dedizione e sacrificio si lotta per tornare di nuovo tra i titolari. Dalla curva piovono applausi, ma anche fischi: ci sono tifosi che ci supporterebbero sempre e comunque, altri che al primo passaggio sbagliato sono lì pronti ad inveire contro di noi. Basta ricordare che la guida tecnica e morale dell’allenatore ci sostiene e ci incoraggia in ogni circostanza. Spesso le nostre squadre subiscono dei cambiamenti: amici che vanno, amici che vengono, famiglie che si allargano e che, purtroppo, si restringono. Acquisti e cessioni segnano nel bene e nel male la nostra vita: a volte l’oggetto del mercato siamo noi, altre chi ci circonda. Non sempre il fair play fa parte del gioco: malgrado i falli e le scorrettezze che subiamo o che siamo portati a commettere, si cerca sempre di essere migliori. I novanta minuti potrebbero anche non bastare. In tal caso si spera nei minuti di recupero. In attesa del fischio finale, dopo il quale non sempre ci è concesso giocare i tempi supplementari.

    Tutto questo Diego lo sa già. Il suo campionato è appena iniziato e la prima partita si è da poco conclusa. La partita d’esordio. Quella che più di tutte nell’immaginario collettivo suscita interesse e curiosità. È la partita che segna la fine di una lunga pausa, dell’attesa estenuante di un nuovo inizio, di nuove possibilità, di nuovi protagonisti, di nuove vittorie. E di nuove sconfitte. Fosse vissuto un po’ più a lungo, anche Nietzsche sarebbe stato un grande tifoso di calcio. Come dimostrazione per la sua teoria dell’eterno ritorno ricorrerebbe probabilmente al ripetuto e, chissà, infinito succedersi di partite dopo partite, campionati dopo campionati. Inoltre un inizio positivo è di buon auspicio per tutta la durata del torneo. Tutti questi aspetti rendono l’esordio speciale. Uno solo però rende questa partita unica e piena di fascino: è la prima. Ed essere la prima vuol dire fare da spartiacque nel cuore del tifoso tra l’attesa dell’inizio e il conto alla rovescia della fine. Tra l’ansia della partenza e la speranza dell’arrivo.

    E anche questo Diego lo sa già. Lui che da suo padre aveva ereditato una grande passione per il calcio facendone la sua filosofia di vita, il suo metro di giudizio nelle esperienze di tutti i giorni.

    «No, ti prego, segnalo! Segnalo! Ti prego!».

    Domenica 9 luglio 2006. Ore 22:43. All’altezza del dischetto del calcio di rigore adesso c’è Fabio Grosso.

    L’Italia si sta giocando la finale di coppa del mondo con la Francia. Diego sta seguendo la partita di fronte al maxischermo allestito al lato est del leggendario Campo dei Tigli di Montegranaro. Il lato lungo. Quello che soltanto una bassa e bucata rete metallica separa dall’asilo dove Diego ha passato la sua infanzia. Quelle quattro mura a giorni saranno abbattute. Se ci si soffermasse un attimino a guardarle, si capirebbe immediatamente che sono felici del destino a cui vanno incontro. Sicuramente lo sanno che la loro ora è oramai giunta. E sicuramente la staranno aspettando in trepidante attesa. Come un condannato a morte conta i passi che lo avvicinano a quella sedia negli ultimi giorni tanto anelata. Quando ci si trova a tu per tu con l’inesorabile è inutile rimandare. Ebbene, oramai da anni non ci sono più le grida dei bambini a tener compagnia a quelle mura. Si sentono sole senza i passi e le corse di chi da troppo poco tempo ha imparato a camminare e a correre per starsene seduto in un angolino e tranquillo. Si sentono spaesate e intorpidite senza le urla assordanti di chi da troppo poco tempo ha imparato a parlare per stare zitto e dormire tutto il giorno. Senza le loro risate. Senza i loro pianti. E quando si è abituati a tutto questo è impossibile abituarsi a doverne fare a meno. Tremendamente impossibile. Anche per un muro.

    La notizia della demolizione del vecchio asilo ha invece colto di sorpresa Diego. Lo ha anzi a dir poco spiazzato. Spesso si è reso conto di come gli facesse male vederlo ridotto in quello stato, abbandonato, circondato oramai da piante ed erbacce che, cresciute senza cura alcuna, rendevano effettivamente difficile persino ad un giovane diciottenne tornare indietro con la memoria, ricordare e rivivere fatti ed emozioni lontane nemmeno una dozzina di anni. Irriconoscibile. Proprio così è infatti diventato per Diego quel piccolo edificio colorato, per lui che più di ogni altro ragazzo della sua età si sente tuttora molto legato a quelle quattro mura. Mai quello è stato per Diego soltanto un semplice asilo. Lì dentro era entrato nel 1989, quando aveva appena compiuto due anni. Lì era entrato soltanto pochi giorni dopo che sua madre era uscita per sempre dalla sua vita. Ora quel bambino non c’è più. La sua mamma non c’è più. E di quel nido che l’asilo ha rappresentato nella prima fase della sua crescita nessuna rondine ora se ne cura più. Fra poco al suo posto ci sarà un imponente centro commerciale. Dei bambini e del loro giardino pieno di giochi non vi sarà più traccia alcuna. Eccetto che nel cuore di Diego, che a quell’asilo ha già da qualche tempo riservato un angoletto speciale. Un posto d’onore. Accanto a mamma Lidia.

    Certamente a tutto questo Diego non sta pensando. Non adesso che Grosso sta sistemando la palla sul dischetto.

    Quella del maxischermo non è una novità per Montegranaro, né tantomeno per il Campo dei Tigli. Palcoscenico delle più importanti nonché storiche partite di calcetto tra amici, non c’è bambino, ragazzo, adulto o anziano del paese che, rispettivamente, non scruti, rincorra, ricordi o rimpianga almeno una volta nella vita un pallone in questo campetto. Sia esso da calcio o da basket. Attenzione. Non si tratta affatto di un piccolo particolare. La disputa intorno all’effettiva identità del Campo dei Tigli c’è sempre stata. E sempre ci sarà. È nata con lui. È scritta nel DNA del suo grigio cemento. Righe bianche e righe rosse lo attraversano come arterie e vene, dando così vita ad un meraviglioso connubio di due diverse scuole di pensiero. Cestisti e calciofili. Così è divisa la linea verde di Montegranaro. Un po’ come guelfi e ghibellini dividevano la Firenze di dantesca memoria. Qui però non ci sono di mezzo né imperatori né papi. Soltanto una corda intrecciata, che per una metà dei giovani del paese deve essere attaccata a due pali e una traversa, e per l’altra metà ad un pezzo di ferro rotondo. Le lotte tra i sostenitori delle due fazioni si susseguono oramai da decenni con frequenza giornaliera. Il campetto stesso si sveste dei suoi abiti sportivi e indossa quelli bellici, trasformandosi così da campo di calcio a terreno di battaglia. A scatenare la guerra è quasi sempre un semplice pallone. Uno da calcio che invade improvvisamente il campo e interrompe una tiratissima partita di basket due contro due. O uno da basket che cade inspiegabilmente dalla retina del canestro e colpisce in testa il portiere mentre sta piazzando i suoi in barriera, in attesa di dover fronteggiare un calcio di punizione fischiato contro la sua squadra. Sono questi i segnali dell’inferno, dopo i quali in campo inizia a volare di tutto. Pugni. Spinte. Calci. Sputi. Insulti. Di tutto. Tranne che i palloni. Nel frattempo il povero Gino se ne sta tranquillo sul divano del suo salotto, ascoltando Radio Maria con la solita tazza da tè giallo ocra in mano. Oramai è in pensione. E probabilmente non sa cosa ha scatenato quella mattina di più di cinquant’anni fa quando uscì dal negozio di ferramenta accanto a Comprameglio con due secchi di vernice, uno rosso e uno bianco, e si incamminò verso il Campo dei Tigli al seguito del cigolio della sua vecchia macchinetta traccialinee. Ma oramai Gino è in pensione e nulla lo può turbare. Neanche se lo sapesse.

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