Omicidio sul Genova-Milano: Una nuova indagine del commissario Marcenaro
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Info su questo ebook
Daniele Grillo nasce a Genova il 7 gennaio 1979. Laureato in Giornalismo, editoria e comunicazione multimediale, da oltre tredici anni racconta la sua Liguria sulle pagine de “Il Secolo XIX”, settore Cronaca. Da un paio di anni collabora con Cisco, ex voce dei Modena City Ramblers, in qualità di coautore di alcuni testi.
Valeria Valentini nasce a Genova il 10 giugno 1978. Una laurea in Chimica, lavora all’Asl come micologa e ispettore di Igiene. Il loro romanzo d’esordio, L’isola delle chiatte (II ed.), è stato pubblicato da Fratelli Frilli Editori nel 2012. La seconda indagine del commissario Marcenaro, Il dolore del fango (Fratelli Frilli Editori 2014), ha meritato il Marchio Microeditoria di Qualità all’omonima rassegna di Chiari. L’inedito di De André, (Fratelli Frilli Editori 2016), è stato ristampato due volte a pochi mesi dall’uscita. L’anno successivo, sempre per i tipi della Fratelli Frilli Editori, è uscito La scommessa del centravanti, noir ambientato nel mondo del calcio tra le città di Genova e Chiavari. A firma dei due autori, all’interno dell’antologia 44 gatti in noir (Fratelli Frilli Editori 2018) è stato pubblicato il racconto Fino all’ultima goccia.
Dalla penna di Daniele Grillo è nato anche il personaggio del maresciallo Corrado Pacone, protagonista dei racconti Il cielo capovolto e La casa delle bambole, entrambi segnalati al concorso Gialli sui laghi e pubblicati nelle due antologie Delitti di lago e Delitti di lago vol. 3, editi da Morellini (2014 e 2017). Nel 2019 Daniele Grillo ha partecipato con un nuovo lavoro di narrativa, Il grande Hans, al concorso nazionale Romanzo Italiano, indetto da Rtl 102.5 e Mursia, classificandosi tra i primi dieci su un migliaio di opere.
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Anteprima del libro
Omicidio sul Genova-Milano - Daniele Grillo e Valeria Valentini
PRIMA PARTE
Binario morto
Una cattedrale di ferro, vetro e carne in movimento, piena di litanie gracchianti sparate nel vuoto e annunciate sempre dallo stesso plin plon. Troppi anni prima era stata questa, l’immagine che Milano Centrale gli aveva impresso in testa. Spesso amava riportare alla mente quanto l’ingresso in quella stazione avesse accompagnato le sue aspettative, l’inseguimento del successo, le attese durante gli anni dell’università. Spesso, ma non questa volta.
Scese dal regionale veloce numero 2176 stringendo il colletto della giacca e ponendo la solita attenzione nell’allungare l’ultimo passo sulla banchina. Una volta sul marciapiede alzò le spalle e roteò la testa in senso antiorario per far scrocchiare le vertebre del collo. Con la mano sinistra impugnò la maniglia della ventiquattrore di pelle scura, inizialmente riposta sotto l’altro braccio per scendere più agevolmente dal treno. Con la destra si aggiustò un ciuffo ribelle di capelli, ormai per un buon quaranta per cento bianchi nonostante l’età non troppo avanzata. La camicia gli stringeva il Pomo d’Adamo in maniera spietata. Non era abituato, a indossarla, soprattutto la sera. Inspirò profondamente liberando l’ultimo bottone dall’asola, raddrizzò la postura e accelerò impercettibilmente il passo verso l’atrio del grande tabellone e le scale mobili. Per la prima volta dopo mesi si ritrovò a sorridere. All’altezza della prima carrozza voltò lo sguardo verso il terzo finestrino. Oltre il rettangolo di vetro tempestato di macchie di pioggia sporca, un uomo di mezza età completamente calvo, folte sopracciglia nere, guardava fisso nella sua direzione, la testa appoggiata al vetro. Anch’egli elegantissimo, pareva rilassato nell’attesa di qualcuno, o di qualcosa. A tradire quella lettura – ma occorreva conoscere qualcosa di più di quanto accaduto sessanta minuti prima, per rilevare il dettaglio – il colore innaturale della pelle sotto il mento, rossastra e molto diversa da quella del resto del volto. Nessun cenno, tra l’unico passeggero del treno rimasto seduto al suo posto e il tizio con la valigetta e la cravatta stretta attorno al collo. Eppure, si conoscevano. Eccome se si conoscevano. Ma rapporti prima idilliaci e poi tempestosi, tensioni mal sedate e ambizioni agli antipodi si erano cristallizzate nel passato in un attimo. Pochi decisivi benedetti secondi. Qualche minuto prima che, attorno alle undici meno un quarto, una donna bassa e grassottella, addetta alla pulizia del treno, iniziasse a urlare, un rivolo di sangue iniziò a scendere dall’orecchio sinistro dell’uomo della prima carrozza. Il liquido rosso prese a macchiargli leggermente il colletto della camicia azzurra. E sul tessuto diventò nero come un buco.
Prima carrozza
Il cianuro annulla ogni pensiero. Quasi sempre, contemporaneamente, di chi lo assume e di chi lo fa assumere. Aldo l’aveva studiato e ristudiato, questo film. Lontano da ogni velleità di perfezione, era cosciente che con un po’ di cura per i particolari il piano sarebbe riuscito senza troppi rischi. Certo, lo sfondo era molto più suggestivo di come se l’era immaginato. Anzi, lo sfondo era la cosa in più. La campagna poco oltre Arquata urlava la normalità di una sera di freddo pungente oltre il finestrino della prima carrozza, seconda fila di sedili a sinistra. Gran culo, beccarla quasi vuota nel giorno del giudizio. Aldo Simoncelli e Marco Deovich a tu per tu, per l’ultima volta, a tutta velocità in mezzo alla pianura padana. Beh, in realtà quel viaggio in treno destinazione Milano, per Marco, voleva essere l’occasione per mettere a posto un po’ di cose. La paternità della ricetta sarebbe stata definita una volta per tutte, e lui ne sarebbe stato l’unico depositario. Aldo aveva ben altro in mente.
– Vuoi un caffè? – chiese candidamente all’avversario.
Marco annuì. Fidarsi: l’ultima cazzata che il destino gli concesse. Pochi sorsi di quel liquido nero acquistato nel vagone-bar – ah, che meraviglia quella sperimentazione lanciata da Trenitalia su regionali e Frecciabianca – e il veleno stroncò il professor Deovich in una manciata di secondi. Il suo orologio biologico si fermò bruscamente, e tutto sommato inaspettatamente, vista la buona salute, in corrispondenza dei suoi 49 anni più dieci giorni. La morte lo accolse smagrito da una dieta risultata non troppo equilibrata, completamente calvo, fasciato da un abito di lana comprato all’outlet in uno di quei negozi con la tenda verde, un paio di caramelle golia alla liquirizia in tasca. E il numero di una escort dai capelli rossi nel portafogli: il premio che si era preparato per festeggiare la risoluzione di quella noiosa questione.
Aldo non firmò nulla, e nessuno dei due arrivò mai davanti al notaio Vittorio Segalerba in piazza Cordusio, ombelico dei grandi affari. Piuttosto, Simoncelli si ritrovò a cingere un braccio attorno alle spalle dell’ex collega, per contenerne lo spasmo mortale. Con l’altra mano agguantò il bicchierino di plastica beige prima che cadesse a terra. Chiuse gli occhi e aspettò. I cuori che battevano a velocità doppia rispetto ai tu-tun del treno erano due. Quello di Marco a un certo punto si fece sincopato e si arrestò. Chissà se ebbe il tempo di realizzare che l’altro l’aveva fregato, dopo avergli fatto credere che con poche decine di migliaia di euro e il ritiro della denuncia se ne sarebbe stato buono. Che le questioni di principio, l’orgoglio e perfino l’etica sarebbero state accantonate in favore di un accordo che ovviamente Marco aveva giudicato estremamente vantaggioso. Chissà a chi erano state assegnate le camere 15 e 17 dell’albergo Ibis, in realtà mai prenotate, e che cosa avrebbe avuto da fare il notaio Segalerba, la mattina successiva, visto che l’appuntamento con i due ricercatori non era nella sua agenda, e questo semplicemente perché Aldo non l’aveva mai contattato. Chissà invece cosa avrebbe pensato Layla, la puttana di lusso di zona San Siro. Lei che al contrario di Segalerba, una chiamata l’aveva ricevuta, si era preparata per l’appuntamento e sperava di incassare facile facile trecento euro per un’oretta di finta passione. Di chissà
son piene le morti, specie quelle improvvise. Di congetture, sospetti e illusioni al vento, invece, sono tappezzate vite intere. E poi c’è la certezza di pochi millilitri. Il cianuro annulla ogni pensiero, lo fa all’istante. Quasi sempre, contemporaneamente, di chi lo assume e di chi lo fa assumere.
Seconda carrozza
Il professor Deovich rimase appoggiato tra finestrino e parete del treno, all’apparenza assorto, gli occhi spalancati su una pianura quasi interamente avvolta dalle tenebre ma tempestata di luci e insegne colorate che un cervello ormai spento non poteva più decodificare, registrare, interpretare. Aldo guardò fisso davanti a sé per diversi secondi, ripassando i passaggi successivi del piano e riuscendo, forte di una preparazione di giorni e confortato dalla rapidità con cui Marco aveva abbandonato la scena, a rallentare i battiti nella cassa toracica. Gli accarezzò il capo nudo, freddo, e con la stessa cinica cura riservò un’altra falsa premura alla vittima: giacca appoggiata sulle spalle, come a rendere più confortevole il viaggio e il sonno di un comune pendolare, faccia rivolta al finestrino, da dietro era quella, l’immagine comunicata dal cadavere di Deovich. Un impiegato dormiente sulla via di casa. Gli occhi aperti ma non spalancati, invece, non avrebbero attratto troppi sospetti neppure col treno fermo nelle stazioni successive. E poi era pur sempre uno strano treno della sera, di quelli poco frequentati perché nel bel mezzo di un ponte di festa. Di quelli a metà tra l’autunno e l’inverno che non invitano di certo a scegliere il mare. Non era stato difficile, convincere Marco che il notaio Segalerba aveva accettato di incontrarli in mezzo a un pacchetto di giorni di festa. Il firmacarte era un discreto stacanovista, e qui c’era in ballo una bella parcella. Prima di adagiare la giacca sulle spalle del corpo immobile appoggiato al vetro del finestrino, Aldo non dimenticò di frugare nelle tasche del morto. Fin dall’inizio aveva indossato i suoi adorati guanti di pelle scura, accessorio non per tutti, investimento a tre cifre per strapparli a una sontuosa vetrina di corso Buenos Aires. Cartine per sigarette, busta di tabacco, le due golia in carta bianca e verde, portafogli e cellulare. E l’agenda. Prese tabacco e cartine per quando avrebbe potuto gustarsi la tranquillità che da così lungo tempo inseguiva, infilò telefonino e caramelle nella tasca interna della giacca. Passò a ispezionare lo zainetto tra le gambe del cadavere. Ne estrasse una fascetta trasparente con l’intestazione del notaio e una serie di marche da bollo timbrate sul frontespizio. Sorrise, diede una pacca sulla spalla al defunto e si alzò. Il ragazzo di colore nell’ultima fila di posti, ben vestito e profumato di acqua di colonia, sembrava non essersi accorto di nulla, occupato com’era a trapanarsi il cervello con quanto di più duro e metallico potesse trovare posto in un lettore di musica. Premette il pulsante della porta scorrevole, qualche passo e si lasciò alle spalle la carrozza numero uno, non prima di aver appiccicato sul vetro il cartello che si era preparato in precedenza. Affrontò il secondo vagone ripassando il da farsi. Aveva previsto tutto nei dettagli, ma sapeva di aver bisogno anche di un bel po’ di buona sorte. Nulla da perdere, la vita davanti. La sua. Ma pure quella di centinaia di altri sventurati che avevano già in mano un biglietto per l’inferno.
Il ragazzo con l’iPod
Ahmed aveva imparato a far finta di niente, quando qualcosa rischiava di metterlo in difficoltà. Come quella mano inghiottita dal mare. Bastava fingere che non si fosse mai agitata oltre le onde, anzi era sufficiente ripetersi che non c’era mai stata. Notò uno strano movimento, in testa a quella carrozza semivuota, ma il ragazzo distolse lo sguardo quasi immediatamente proseguendo a sciogliere i pensieri di quei giorni nella musica. Aveva dovuto abbassare il cappello con la visiera per coprire gli occhi e il naso, dopo essere stato riconosciuto almeno quattro volte, prima a Termini e dopo a Firenze, tappe di un viaggio che non sembrava finire mai di ritorno dalla Capitale, dove era stato ripreso da tutte le televisioni accanto al Presidente della Repubblica. Popolarità alla quale non si era ancora abituato, nonostante il fatto che dallo sbarco fossero passati due mesi.
Il doppiopetto glielo aveva procurato la cooperativa di Tortona nella quale aveva trovato lavoro dopo essere diventato famoso sui giornali. Si trattava di una società di brave persone che aveva voluto dargli un’opportunità formandolo al mestiere di giardiniere. Un impiego che aveva sognato di intraprendere anche in Africa, ma là non incontrò il sostegno della famiglia. Lui era il sesto figlio di otto, e i suoi avevano scelto di puntare sui primi due – piazzando il primogenito nelle milizie clandestine e l’altro in un’azienda agricola – ma pure su di lui che aveva sempre dimostrato di avere una buona testa. Avrebbe studiato in Germania, Ahmed, per poi tornare un giorno e sollevare i fratelli disoccupati dalla polvere. Lui questa responsabilità la sentiva, eccome se la sentiva. Per anni, prima di raggiungere l’età giusta per partire, sognò di entrare nel giardino del re, che spiava dall’esterno quasi ogni giorno. Per semplificare, avrebbe detto a tutti di essere originario del Mali, come molti africani arrivati in Italia con i barconi. In realtà veniva dallo Swaziland, l’unico Stato africano retto da una monarchia assoluta impersonata da re Mswati III, noto soltanto per l’harem di quattordici mogli e altre stravaganze da medioevo. In Italia aveva trovato un nuovo mondo,