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La maledizione di un bacio
La maledizione di un bacio
La maledizione di un bacio
E-book158 pagine2 ore

La maledizione di un bacio

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Info su questo ebook

Filippo e Ginevra, due eroi dell’amore caduti in letargo e risvegliati da un destino beffardo.
Tra Bologna, Milano e Firenze si intreccia, si sfilaccia, si addormenta, si riallaccia il destino ventennale di due amanti che si ritenevano esclusivi ma sempre esclusi dalla propria storia.
Divisi ognuno dal proprio destino, si ricercheranno prepotentemente e si ritroveranno sempre più innamorati. Filippo sembra essere l’anello debole tra i due, Ginevra ne è cosciente, ma l’amore per lui torna sempre a galla, anche se i suoi disagi si riveleranno sempre gli stessi.
Proprio quando tutto sembra ricomporsi, quando il loro anelito d’amore è pronto al compimento, i destini di esseri sconosciuti si intrecciano ai loro richiudendosi su ognuno, soffocandoli e gettandoli nelle storie di un mondo che sembra davvero troppo grande e che, invece, è proprio lì, piccolo piccolo e così a portata di mano. Una storia d’amore e di dolore degna di un finale glorioso e intenso al quale nessuno dei due avrebbe mai pensato.
Dedicato a chi pensa di aver letto tutto sulle storie d’amore e ha paura di annoiarsi leggendone un’altra.
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2018
ISBN9788898041701
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    Anteprima del libro

    La maledizione di un bacio - Diego Montel

    La maledizione di un bacio

    Diego Montel

    Copyright© Officine Editoriali 2018

    Prima edizione ebook Dicembre 2018

    Tutti i diritti riservati.

    Il presente file può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Tutti i contenuti sono protetti dalla legge sul diritto d’autore. Officine Editoriali declina ogni responsabilità per ogni utilizzo del file non previsto dalla legge. È vietata qualsiasi duplicazione del presente ebook.

    ISBN 9788898041701

    info@officineditoriali.com

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    Facebook: http://www.facebook.com/officineditoriali

    Ebook by: Officine Editoriali

    Elaborazione grafica copertina: Officine Editoriali

    Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore e hanno il solo scopo di rendere realistica la narrazione. Qualsiasi analogia o riferimento a fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è da ritenersi puramente casuale.

    L'amore immaturo dice: ti amo perché ho bisogno di te.

    L'amore maturo dice: ho bisogno di te perché ti amo.

    Erich Fromm

    INDICE

    OPEN SPACE

    L’INTRUSO

    TROPPO PRESTO

    TACCONI AL RAGÙ VERDE

    PRIMA DI FILIPPO

    PRIMA DI GINEVRA

    INNAMORARSI

    LA LETTERA

    FORSE È AMORE

    L’ASSENZA

    L’ABBANDONO

    LA PERDITA

    DOPO GINEVRA

    DOPO FILIPPO

    CONVIVERE

    PENSIERI

    IL RITORNO

    SOPRAVVIVERE

    RITROVARSI

    L’INTESA

    SEMPRE AMANTE

    DI NUOVO ADDIO

    IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE

    RISVEGLIO

    OPEN SPACE

    Così non si può lavorare. Giuro che il prossimo lavoro, se mai l’avrò, lo accetto solo se mi offrono una postazione chiusa. Me ne basta una piccola, piccolissima, microscopica, ma con le pareti.

    La ragazza aveva sbattuto la sua borsa sul tavolo e guardava sconsolata il vuoto lasciato dall’eliminazione della barriera che aveva costruito ai lati e dietro la propria scrivania, solo qualche giorno prima. Era il giorno delle pulizie di fondo del piano. Se n’era dimenticata. Il biglietto del personale delle pulizie, che le faceva rimostranze per il disordine, spiccava sul vetro lucido del tavolo.

    Lei odiava l’open space e capiva chi non riusciva ad abituarcisi. Invidiava quel direttore che se ne era appena andato. Quando l’aveva incontrato, l’ultima volta, aveva visto un altro uomo, con il sorriso più ampio e rilassato rispetto a quello solito, triste e tirato. Era contenta per lui che andava a fare il direttore da qualche altra parte, sicuramente in un ufficio con quattro pareti. Ma lei lo avrebbe trovato un altro lavoro? Doveva ritenersi fortunata di averne uno sicuro, anche se in open space

    A ventiquattro anni, Ginevra Mazzini aveva alle spalle centinaia di curricula inviati ad aziende che manco si erano degnate di risponderle, tranne alcune. Così, dopo sporadiche supplenze in scuole medie disagiate, ultima in graduatoria e con un futuro da precaria, era riuscita a entrare, come copywriter, nel settore comunicazione di una grande azienda del Nord. Tanto per non avere dubbi su che razza di lavoro vi si svolgesse, il settore veniva chiamato La Propaganda. Quando aveva iniziato a fare quel mestiere per pagarsi l’università, non avrebbe mai pensato che sarebbe rimasta incastrata per sempre in quel lavoro che disprezzava. Aveva altri sogni: inviata di guerra, antropologa alle isole Marchesi, insegnante di filosofia. Lavori veri, lavori che riteneva alla sua altezza. Scrivere testi pubblicitari andava giusto bene per pagarsi gli studi ma, dalla vita, Ginevra si aspettava ben altro.

    L’azienda che l’aveva assunta, con un vero contratto a tempo indeterminato dopo appena tre mesi, era un inno allo spazio aperto. Come i suoi colleghi, Ginevra lo considerava esteticamente piacevole ma umanamente invivibile: un labirinto di loculi sempre più angusti.

    Sarà sicuramente una soluzione di successo per gli imprenditori, costa poco e si ottimizza lo spazio, ma non incoraggia certo la comunicazione, anzi.

    Questo era stato il suo primo commento.

    Ogni giorno, in quello spazio tragicamente aperto, si sentiva costretta a farsi gli affari degli altri. Anche a conoscere cose che avrebbe preferito ignorare su alcuni suoi colleghi che ormai vedeva sotto una luce talmente sinistra che neppure la vittoria di un Nobel le avrebbe fatto cambiare idea su di loro. Ma, se i pettegolezzi divampavano, le idee venivano tenute rigorosamente segrete. Di condividerle neanche a parlarne. In più, doveva imparare a difendersi dai furti. Era facile che qualcuno, di passaggio nell’ufficio di qualcun altro, si portasse via un ricordino. Era tutto così a portata di mano, come un supermarket senza cassa. In verità, anche lei si era ritrovata diverse volte, a fine riunione, con una penna non sua in agenda, ma quella non l’aveva mai ritenuta una cosa deplorevole, solo una svista; e non sempre aveva riportato indietro il malloppo. Ginevra era una vittima predestinata: lasciava tutto in vista incapace com’era a non fidarsi degli altri.

    Derubati di oggetti utili o cari, quelli di buon carattere facevano buon viso a cattivo gioco, gli altri si innervosivano. Lei non aveva un buon carattere; se n’erano accorti quando le avevano sgraffignato dalla giacca appesa all’armadietto la spilla-orologio, regalo di suo padre. Gliel’avevano sottratta mentre era alla macchinetta del caffè. Aveva dato i numeri. I creativi più vicini se lo ricordano ancora. Ma aveva ragioni da vendere. Era una bella spilla: un tondo d’oro con le ore e le lancette blu e una sola ora rossa, quella sulle 12. Aveva un valore solo affettivo. Suo padre gliel’aveva regalata tanto per ricordarle il limite orario consentito fino ai diciott’anni per rientrare a casa: la mezzanotte.

    La spilla non l’aveva mai più rivista, nonostante il biglietto strappalacrime – ‘Ho perso una spilla a forma di orologio, senza alcun valore. Mi era stata regalata da mio padre. Ci terrei molto a riaverla. Se qualcuno la ritrovasse, questo è il mio interno…’ – che aveva appiccicato in giro sulle timbratrici e sulle macchinette del caffè, ai quattro piani.

    Lavorare in uno spazio aperto comprendeva anche il brusio di fondo degli impiegati che si sommava al rumore dell’aria condizionata. Le sembrava di essere in un alveare in piena attività. Fino a che punto fosse infernale quel frastuono, se ne rendeva conto quando saltava la corrente. Le voci si interrompevano di botto per la sorpresa e le sembrava di essere in paradiso. Che pace! Ma durava poco, troppo poco. Il girone dantesco in cui si muoveva, tra ansiosi, arroganti e primi della classe, riprendeva vita più frenetico di prima. Tornava a essere il luogo adatto a farla diventare una potenziale assassina, soprattutto quando si ritrovava a subire con fastidio i dialoghi incazzati dei malati di protagonismo – ce n’erano parecchi al suo piano. Oppure quando, pur lavorando a mezzo metro di distanza, alcuni colleghi pretendevano di comunicare a colpi di mail, perfino per discutere di questioni delicate. Perché? Ginevra non riusciva a farsene una ragione.

    Dalle sue critiche non si salvavano neppure i bagni, aperti anche quelli, concentrati in fondo a ogni piano e sempre affollati: una serie di loculi dalle mezze porte che non arrivavano al pavimento e al di sotto delle quali si poteva capire, dalle scarpe che spuntavano, se il cesso era occupato. Troppi scandali erano nati per non aver guardato bene sotto quelle porte e avere involontariamente coinvolto estranei nelle proprie confidenze. Ginevra, che non ne era mai stata testimone ma era stata comunque ampiamente informata di fatti e misfatti ingigantiti dal passaparola, in bagno parlava solo del tempo, faceva apprezzamenti sugli abiti o beveva semplicemente un bicchier d’acqua. Insomma, cercava di tenere un atteggiamento riservato.

    E poi c’era il lavoro. In quello spazio che non permetteva intimità, la concentrazione era difficile. Di conseguenza, rimanere fino a tarda sera sotto l’aria condizionata, con la gola secca e gli occhi fosforescenti era diventata consuetudine anche per Ginevra, lei che all’inizio aveva criticato i suoi colleghi che ciondolavano in ufficio fino alle otto.

    Assicurarsi di avere le spalle ben coperte era il suo rito per propiziare le idee. Tutto andava bene per alzare la sua barriera. Essere sorpresa la rendeva insicura. E l’insicurezza rende fragili, genera stress, mette in fuga le idee e alla fine anche il lavoro. Ci manca anche quello. Con pazienza, Ginevra sistemava dove poteva, sul mobile alle spalle e su quelli divisori ai lati, pile di libri, riviste, raccoglitori, vecchi cataloghi, piante stentate rubate alla potatura dei giardinieri e abbandonate in mezza bottiglia di plastica, nell’acqua stantia e gelatinosa di muschio, residuati vacanzieri di sabbia, terra e conchiglie, fiori finti.

    Finalmente, alzato il muro, calmava l’ansia, si difendeva dall’aria condizionata a palla che usciva dalle bocchette – una proprio sopra di lei che faceva mulinello sulle sue delicate cervicali – e le sembrava, in questo modo, di attenuare il volume dei dialoghi vicini che il suo cervello non riusciva a ignorare. Era sempre stato così per lei: non poteva fare a meno di ascoltare i discorsi degli altri, la televisione degli altri, la musica degli altri. Perché tutto la interessava.

    In realtà, il suo inutile lavorìo era vano come il supplizio di Tantalo. Bastava superare in altezza il metro e settantacinque per affacciarsi facilmente in punta di piedi su di lei, dietro o di lato, e distruggere la sua privacy.

    "L’open space è una vera, grande stronzata, ragazzi. Se riesco a viaggiare nel tempo, la prima cosa che faccio è ammazzare Robert Propst. – Ginevra si lamenta con i suoi amici grafici.

    Povero Propst! Sei cattiva come tutti i toscani, Ginevra. Lui aveva pensato di fare del bene facilitando la comunicazione…

    Sì, ma di odio puro, Mario. Uffa! Anche Oppenheimer aveva pensato di fare del bene con la bomba atomica…

    "Hai ragione, Ginevra, ma a me l’open space piace perché ti ho davanti, alzo gli occhi e ti vedo."

    Alberto la corteggia, come Mario, ma solo a parole; due nordici gentili affascinati dalla personalità di quella toscanaccia fragile solo all’apparenza che, soddisfatti con l’impiego i suoi bisogni primari – casa, cibo, vestiti – inizia a stare bene economicamente e trova il tempo per lamentarsi.

    L’INTRUSO

    Aveva perso una buona mezz’ora a ricostruire il suo isolamento, distrutto dal clan delle pulizie. Aveva eretto uno ziggurat imbarazzante, ma ora poteva cominciare a studiare le idee che erano venute fuori nella riunione con il suo art.  La sua azienda si preparava a lanciare i Salvaestate, un set di contenitori estivi da spiaggia, impermeabili e refrigeranti. Sarebbe partita per prima dalla sua idea. E che cavolo!  È la migliore.

    China sulla tastiera, senza alzare lo sguardo sul monitor, scorge dalla trasparenza del vetro della scrivania un paio di scarpe maschili. Sono troppo classiche per appartenere a uno dei suoi colleghi, come la flanella grigia dei pantaloni. I creativi sono una razza a parte, eccessivamente vestita o eccessivamente nuda, ma sempre coi piedi in calzature originali.

    Ci manca anche questo! Chi è che viene a rompere le palle proprio adesso che sto ‘creando’?

    Immobile, Ginevra aspetta che l’intruso se ne vada, all’improvviso e silenziosamente, così come è apparso. Ma non succede, e dopo un tempo che le sembra lunghissimo, si decide ad alzare gli occhi, lentamente, per sottolineare il fastidio. Mano a mano che sale con lo sguardo nota un fisico che sembra palestrato dalla natura, come un surfista da point breack, ma è quando arriva al viso che ci rimane secca. Davanti a lei, imbambolato come in una vignetta di Mordillo, un giovane di una bellezza urlata, la stessa di cui era stata vittima altre volte e sempre con danni evidenti. Capelli folti e scuri, labbra piene, generose e occhi azzurri che la guardano come un’apparizione.

    Ginevra ingoia il suo turbamento e lo spinge in fondo allo stomaco. Bleffa da stronza: si guarda intorno come per assicurarsi di essere proprio lei l’interlocutore del surfista e torna a guardarlo.

    "Cercava me? – La voce

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