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Una cittadina tranquilla
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Una cittadina tranquilla
E-book406 pagine5 ore

Una cittadina tranquilla

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Info su questo ebook

In onda la serie TV Dicte

Un grande thriller

Dicte Svendsen, giornalista di Århus, una cittadina della Danimarca, insieme alle amiche Ida Marie e Anne, sta festeggiando il compleanno in un delizioso caffè in riva al fiume, quando una bacinella compare sulle acque, suscitando la loro curiosità.
La sorpresa, però, diventa subito orrore quando si scopre che dentro c’è il corpo senza vita di un neonato, accompagnato dalla copia di una pagina del Corano. Il commissario Wagner viene incaricato del caso e a Dicte viene assegnato dal suo giornale il compito di scriverne. Ma i particolari inquietanti non smettono di ossessionare le tre amiche, visto che nella clinica in cui Ida Marie sta per partorire qualcuno ha tracciato delle agghiaccianti scritte sulle fronti di alcuni neonati. Poco dopo, appena nato, lo stesso figlio di Ida Marie viene rapito e Dicte si ritrova sempre più invischiata nelle indagini. Dovrà trovare la forza di affrontare il proprio passato, fare finalmente pace con i suoi fantasmi interiori. Ma per farlo dovrà imparare a guardare oltre le apparenze.

Un’autrice da oltre 1 milione di copie vendute nel mondo
Tradotta in 12 lingue

Dai suoi libri la serie Dicte

«Davvero promettente.»
Daily Mail

«Elsebeth Egholm ha scritto un giallo trascinante e un pungente ritratto dei nostri pregiudizi».
Søndag

«Tra The Killing e Twin Peaks. La serie TV che ha stregato la Danimarca.»
The Sun
Elsebeth Egholm
Nata nel 1960, è cresciuta a Århus, in Danimarca. Dopo una carriera come giornalista, si è dedicata alla scrittura. La sua serie di romanzi con la protagonista Dicte è stata un successo anche nella trasposizione televisiva.
LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2017
ISBN9788822715197
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    Anteprima del libro

    Una cittadina tranquilla - Elsebeth Egholm

    1

    Il sole splendeva sul canale di Århus e l’aria era carica della coda dell’estate. La fiorista all’angolo con il grande magazzino Magasin era indaffarata nel suo negozio, mentre la Immervad aveva appena iniziato a popolarsi di genitori con i figli piccoli e adolescenti pronti per il primo gelato. Sembrava tutto normalissimo. Straordinariamente ordinario. Tutto sommato avrebbe potuto essere una bella giornata, se non fosse stata così terribile.

    Era più o meno ciò cui stava pensando quando vide il bambino. O, per meglio dire, quando udì il rumore, perché fu quello a raggiungerla per primo. Il suono ruvido della plastica che sfregava contro la pietra. Non sapeva perché fosse stato captato proprio dalle sue orecchie. Forse gli avventori del caffè che come lei occupavano i tavolini sotto i funghi riscaldanti erano deboli di udito, dopo i concerti della stagione estiva. O forse era un senso che si affinava raggiunti i quaranta.

    Ma un istante prima, prima del bambino, c’erano le amiche. Ida Marie e Anne. E la loro cavolo di trovata per il compleanno che lei, rossa e goffa per l’imbarazzo, aveva cercato di accogliere con nonchalance. Cosa piuttosto difficile dal momento che Ida Marie si era alzata con il suo pancione gravido e aveva intonato in svedese la canzone di buon compleanno, per il gradimento di clienti e passanti. Il tutto mentre sventolava una bandierina svedese, che le valse gli applausi finali.

    Dicte si sentiva tutti gli occhi addosso. Non avrebbe rappresentato chissà che, non fosse stato per il regalo che Ida Marie e Anne le avevano consegnato con fare solenne.

    «Auguri di buon compleanno, e congratulazioni per la casa e il divorzio», canticchiò Anne come se leggesse la lista della spesa. Non era mai stata la più spontanea, perciò di sicuro aveva imparato il discorso a memoria. «Abbiamo fatto del nostro meglio per trovare un regalo che valesse per tre, da utilizzare in qualsiasi caso».

    «Casa», corresse Ida Marie, che avendo la madre svedese era facile agli equivoci. «Quella che ha comprato Dicte è una casa», disse, prendendo la fotocamera dalla borsa. La macchina compatta di Ida Marie aveva una certa fama.

    Anne la ignorò.

    «Non credere che sia stato facile, e nemmeno a buon mercato. Ci siamo rivolte a diversi consulenti. Psicologi, presentatori televisivi, concorrenti di Survivor ed editorialisti. Ciascuno ha dato il proprio contributo e il risultato è toccante, se così si può dire».

    «Proprio da toccare con mano», puntualizzò Ida Marie seria, mentre Anne, che sembrava uscita dalla Ruota della fortuna, diceva a gran voce: «La categoria è: oggetti».

    Nell’istante in cui le mostrarono il pacchetto, un oggetto oblungo avvolto in fogli di velina nera stretti da un nastro verde bottiglia, fu come se si fosse aperto un file compresso e Dicte passò in rassegna gli ultimi compleanni. O forse, era più corretto dire che li vide distillati in uno solo, con quell’irritante senso di protezione e intimità che le sventolava sotto il naso. Irritante perché ne sentiva la mancanza. Come della famiglia. E di Torsten, maledetto. Torsten era stato un organizzatore di compleanni insuperabile, doveva riconoscerglielo. La colazione a letto con panini e caffè, le candele sul comodino e l’amore con effetti speciali in stile Dicte, come diceva lui. La sera, cena con una manciata di amici intimi, che più tardi, dopo il divorzio, si erano schierati dalla parte di lui. Non perché la morale fosse dalla sua: lo sapevano tutti che non era così. Ma perché era di compagnia alle cene e, di quando in quando, lo si vedeva in televisione. O comunque quella era la conclusione cui era giunta.

    Lei, dal canto suo, si era trasferita a Århus, dove, come mezza Copenaghen, aveva svolto gli studi. L’idea era di ricominciare da zero. Riprendere contatto con i vecchi amici e farsene di nuovi, così che nonostante tutto avesse qualcosa cui aggrapparsi, a parte Rose. Le figlie adolescenti erano una specie instabile.

    Mentre lasciava correre i pensieri, le altre battibeccavano sulla categoria di appartenenza: attrezzi, utensili, strumenti o qualcosa di totalmente diverso. Anne propose d’inserirlo tra gli articoli da bagno, accanto a spazzolini da denti e dischetti struccanti.

    «Dai, aprilo», istruì Ida Marie con impazienza e le puntò addosso la macchina fotografica. «Siamo curiose».

    A giudicare dagli sguardi dei presenti non erano le sole.

    Osservò il pacchetto, con l’impressione che quello la fissasse a sua volta, canzonatorio. Immaginò una grande scatola da cui, non appena l’avesse aperta, sarebbe schizzato fuori un pagliaccio a molla che l’avrebbe messa al tappeto con un guantone da boxe. Lo stesso, sciolse il fiocco. Scartò lentamente la confezione.

    D’un tratto si ritrovò quel coso tra le mani e mentre tentava invano di inquadrarne la funzione, Ida Marie la immortalava con professionalità.

    Era rosa acceso a piccoli pois rossi, caratteristica da cui dedusse che fosse stata Ida Marie a sceglierlo. Era in plastica. La forma allungata ricordava quella di un razzo.

    «Di sicuro è maneggevole», disse nervosa. «Qualunque cosa sia».

    Ci furono risate e risatine non soltanto tra Anne e Ida Marie, ma anche ai tavoli più vicini.

    Cominciò a ispezionarlo e capovolgendolo scoprì che la base ruotava. Senza preavviso, la creatura si mise a vibrare così forte che lei la fece ricadere sul tavolo per lo shock.

    Il primo pensiero non appena capì fu: Non possono esserne consapevoli. Subito seguito da: Chissà com’è?.

    Quando seppellì il viso tra le mani, si accorse che il sangue le stava schizzando al cervello colorando tutto di rosso, dentro e fuori.

    «Un vibratore!».

    Osservò Ida Marie e Anne. Il massaggiatore che le ringhiava da sopra il tavolo, indignato per essere stato lanciato in modo tanto brusco.

    «Devi ammettere che è geniale», disse Anne guardandola con quei suoi occhi obliqui da asiatica. Anne, che era sempre serissima. Anne, che leggeva Salman Rushdie e che, da appena sei mesi, era atterrata a casa di un pastore dello Jutland orientale con un volo proveniente dalla Corea. E che adesso si guadagnava da vivere facendo venire al mondo piccoli danesi rosei.

    Ida Marie tese una mano compassionevole che, con gesto esperto, spense il vibratore.

    «Sennò si consumano le pile», spiegò mentre rivolgeva a Dicte uno sguardo innocente dello stesso blu della bandierina svedese che giaceva inutilizzata sul tavolo. «Sul giornale c’era scritto che una danese su sette ne possiede uno», la informò prontamente.

    Dicte non poteva farsi sfuggire quell’occasione.

    «E le svedesi? O forse in Svezia queste cose sono vietate? Potresti prendere in considerazione l’idea di contrabbandarli», suggerì.

    «Prima però è meglio se levi le batterie», aggiunse Anne.

    L’immagine di Ida Marie alle prese con centinaia di vibratori accesi e un doganiere svedese adirato fece apparire come per magia il primo sorriso della giornata sul volto di Dicte. Avvertì gli angoli della bocca sollevarsi, i muscoli contrarsi. Quasi sollevata, si lasciò andare a una risata che si portò via un po’ della tensione causata dal compleanno.

    «In Svezia non ne sanno un bel niente di queste cose. Loro hanno gli svedesi», ripose Ida Marie con voce neutra, suscitando l’ilarità dei vicini.

    «Alcune li preferiscono agli uomini», fece Anne, affabile. «Dovrebbe essere meno faticoso. A quanto si dice».

    «A quanto si dice», ripeté Dicte, che stava ritrovando la calma. «Vorrebbe dire che non l’avete mai sperimentato?».

    Anne rimase interdetta, ma il suo senso pratico le venne in aiuto. «Si può cambiare», commentò seria. «Se non ti piace, puoi prenderne uno che assomigli a un telefono».

    Dicte rimise prontamente il vibratore nella confezione. «Ma no, anzi, grazie», bofonchiò senza guardarle negli occhi. Invece, seccata che non si fossero limitate a comprarle un bouquet, o qualsiasi altra cosa, volse lo sguardo in direzione della fiorista all’angolo. Osservò la folla settembrina. Un pattinatore serpeggiava tra genitori novelli e adolescenti affamati di gelato. Sembrava tutto normale, ma l’apparenza inganna. Non aveva appena compiuto quarant’anni? E il compleanno indesiderato non era forse stato un fallimento, assieme al recente divorzio, con tanto di vibratore in regalo come ciliegina sulla torta, giusto a sottolineare la nuova – e altrettanto indesiderata – condizione di single?

    Fu in quell’istante che udì il rumore provenire dal canale, proprio sotto il loro tavolo. Con le voci di Anne e Ida Marie in sottofondo, le fece venire in mente quando da bambina, cent’anni prima, aveva calato un secchio di plastica nel pozzo che avevano in cortile, un luogo senza fondo e proibitissimo. In seguito le sarebbe valso il suo primo schiaffo.

    Fu per questo, forse, che all’improvviso rimosse vibratori, separazioni e amiche delle quali non ci si poteva che vergognare.

    Si alzò, fece qualche passo fino alla sponda e guardò giù nell’acqua verde fango. Rimase in ascolto. Socchiuse gli occhi per schermarli dal sole e nel dondolio dell’acqua colse la differenza rispetto a quella volta.

    Poi si accorse della bacinella di plastica blu che ondeggiava sulla superficie, inclinata verso la sponda forse a causa della corrente. Fu allora che vide il volto seminascosto sotto qualcosa di simile a un asciugamano. Era minuto, pallido e aveva gli occhi chiusi.

    Rimase immobile a guardarlo per un lungo istante, mentre il rumore del contenitore che raschiava contro la pietra diventava un sottofondo irreale. Poi si sbloccò e avvertì l’impulso assurdo di prenderlo tra le braccia. Per proteggerlo. Per sentire la pelle morbida contro la sua guancia e tenerlo al caldo, sfamato e contento. Istinto, constatò meravigliata. Intatto. Dopo tutti quegli anni.

    «Un bambino», sentì dire alla sua voce, lontana e tremolante come se provenisse da un registratore malandato.

    Si accorse di aver trattenuto il fiato e l’aria uscì con le parole.

    «C’è un bambino laggiù».

    Indicò l’acqua torbida.

    2

    «Svendsen?»

    «Kaiser», constatò Dicte nel ricevitore e, con un gesto automatico, prese la penna. Un appiglio. Insicurezza. L’analisi scattò in automatico. Sebbene l’avesse abbandonata a metà, aver studiato psicologia poteva essere una maledizione.

    Anche al telefono, era come se i cronisti riuscissero a capire all’istante che lei non era un tipo da stuzzicare. E proprio per questo lui non si astenne, era fatto così. Come la maggior parte dei redattori di qualsiasi parte del mondo, pensò. Quella specie nasceva con un particolare gene che li poneva in grado di provocare spasmi nervosi nei giornalisti e di fare domande che richiedevano risposte brevi e concise. Di regola con Kaiser si comunicava a titoli.

    «Ho sentito dire che ti sei fatta una nuotata».

    Un altro turbine di pensieri. La penna prese a scarabocchiare sul blocco come animata da vita propria.

    «E dove l’avresti sentito?»

    «C’è di mezzo un piccolo Mosè sul canale di Århus».

    Non aveva idea di come facesse a saperlo. D’altro canto non che ne fosse sorpresa. Stando alla superstizione, Otto Kaiser era dotato di un sesto e settimo senso per le storie e per l’arte di colpire nei punti deboli. A lei era capitato poche volte di sperimentarlo di persona, ma le erano bastate e da allora si era tenuta alla larga dalla cronaca nera, per quanto possibile. Alla larga dal dominio di Kaiser. Per la sua gioia, con il trasferimento a Århus la distanza era aumentata ulteriormente, uno dei piccoli effetti positivi di quella scelta. Il vantaggio principale era non avere più Torsten tra i piedi.

    «Non che io c’entri molto», rispose esitante.

    Mentre rifletteva, la penna tracciò un volto. Forma triangolare, occhi scuri, baffi. Kaiser.

    «Io ho sentito qualcosa di diverso», insistette lui con voce suadente. «Un uccellino mi ha raccontato che sei stata tu a scoprire il piccolo Mosè, e che poi ti sei buttata nel canale come un labrador. Potevi diventare un’eroina, Svendsen. Peccato fosse troppo tardi», aggiunse perfido.

    «Ammettiamo che sia andata così», concesse lei mentre lo dotava di una specie di corpo. Lungo, flessuoso, con l’argento vivo addosso. Imprevedibile. «Comunque non ne so nulla di più. Il bambino era morto. L’ambulanza è arrivata in fretta e la polizia ha preso in mano la situazione. Questo è quanto».

    Mentre lo diceva, si rendeva perfettamente conto di infrangere una regola del giornalismo cui non si era mai abituata del tutto. Una buona storia andava raccontata da ogni angolazione, e di sicuro c’era altro da scoprire. Molto altro. C’era abbastanza carne al fuoco per un romanzo a puntate.

    «Be’, ora devo proprio andare», azzardò. «Tra mezz’ora devo consegnare l’articolo agli Affari».

    Sperava così di farlo tornare dai suoi cronisti e che smettesse di ficcare il naso nella redazione Affari e Finanza, dove era impiegata lei. Era la solita guerra.

    «Ho parlato con Mikkelsen», fece lui, scaltro. «Ed è stato così gentile da darti in prestito per una una settimana, dato che Sejfert è in congedo e Davidsen è impegnato sul caso del biker di Randers».

    Dicte aveva l’impressione che il mondo le si rivoltasse contro. La sola idea di finire nel reggimento di cronisti soldato di Kaiser la faceva sudare. Molti desideravano quel lavoro. Ma non lei. Ciò che voleva era concentrarsi sulle sue cose, scrivere i suoi articoletti sulla psicologia del lavoro e di quando in quando un’intervista lunga e tediosa a qualche capitano d’industria.

    «Non mi occupo di cronaca nera», fece un tentativo, che tuttavia non lo fece demordere.

    «Ci serve un resoconto dettagliato per la prima pagina. I lettori sapranno cosa, quando e come è successo».

    Se lo vedeva davanti, seduto alla sua scrivania con lo schienale della sedia reclinato; la cornetta sotto il mento e la tastiera del computer sulle gambe, mentre seguiva l’agenzia di stampa Ritzau. Forse aveva aperto il cassetto. Kaiser era perennemente a dieta, ma spesso ci nascondeva una fetta di torta appoggiata su un piattino. Meglio se al cioccolato.

    «E un reportage in terza pagina», proseguì. «Come te ne sei accorta, quali sensazioni hai provato, che atmosfera c’era, le reazioni e via dicendo. Sei proprio quello che ci manca, Svendsen. La consegna è alle sei in punto».

    Mancavano tre ore. Fu in procinto di dire qualcosa. Giustificarsi. Raccontargli che le si era intasato il bagno nella casa nuova e alle cinque sarebbero arrivati gli spurghi; che la cappa della cucina era senza sfiato e l’odore di cibo si diffondeva in camera da letto anziché andare fuori. Che nel corso delle prime sei settimane, quella maledetta casa si era rivelata un’enorme fregatura. Dunque, non aveva voglia di pensare al bambino, men che meno di scriverne.

    «Ricorda di portarti dietro un fotografo», disse Kaiser prima di mettere giù. «Avremo un’immagine completa: il luogo, te. Il catino».

    «E il cadavere?» domandò pungente.

    Lui borbottò qualcosa di indecifrabile.

    Soltanto quando riagganciò si accorse che le tremavano le mani. Soprattutto per la rabbia, ma c’era anche qualcos’altro. Una specie di fame insaziabile. Una voragine proprio al centro della pancia, come fosse sul punto di vomitare: era così che si sentiva.

    Le tornò in mente la sensazione dell’acqua di poche ore prima, i mormorii inquieti della gente nei caffè, lo smarrimento di fronte alla sua reazione. Aveva ragione, Kaiser, ovunque l’avesse sentito. Si era buttata dentro. Non di testa, ovvio, ma dalle scale, e si era immersa nell’acqua, che da vicino era ancora più torbida. Aveva un vago ricordo di ciò che galleggiava in superficie. Della carta di gelato che mentre raggiungeva la bacinella le si era impigliata tra le dita o della bottiglia in balia dello sciabordio che aveva scansato. Era di una bevanda energetica, Faxe Kondi, ricordava, e s’interrogò sulla propria memoria. Il volto del bambino non lo ricordava più. Non voleva ricordarlo.

    Aveva afferrato la cesta e tenendola davanti a sé aveva nuotato lungo l’argine. Alla scala, l’aveva sollevata verso Anne che, forte della sua professionalità di ostetrica, l’aveva presa senza esitazione, mentre Ida Marie aveva continuato a scattare in modo automatico e decisamente grottesco, come un robot. Questo fu ciò che arrivò a pensare. Come un robot. Prima, però, di scorgere le lacrime e il ventre gravido che si protendeva indifeso, come una corazza vulnerabile. La macchina fotografica che la proteggeva dalla realtà.

    A quel punto qualcuno doveva aver già chiamato i soccorsi della Falck, ma fino al loro arrivo era stata Anne a prendere in mano la situazione. Con un’occhiata circospetta al fagotto di stracci vecchi, si era fatta strada con mani tremanti e aveva constatato quel che Dicte sapeva già. Quello di cui si era resa conto per via del silenzio assordante che proveniva dal catino.

    «Un maschietto», aveva mormorato Anne, questa volta senza il fare da ostetrica che le veniva fuori ogni volto che c’erano neonati nelle vicinanze. «Appena nato. Da due giorni al massimo, direi».

    Sollevò lo sguardo. Dicte riuscì a scorgervi un luccichio, prima che un battito di ciglia lo facesse scomparire.

    «È morto».

    3

    Il fotografo sembrava un cane randagio. Magro, guardingo e con il pelo arruffato. Non soltanto per la chioma indisciplinata, ma anche per la barba, rada come quella di un adolescente, e i vestiti che assomigliavano a una divisa militare albanese. Tutto sommato, aveva un aspetto molto moderno.

    «Sono Bo», disse prima di calpestare la sigaretta sotto uno stivale, con l’aria di uno che avrebbe preferito essere in Afghanistan piuttosto che davanti all’ingresso del reparto maternità dell’ospedale di Skejby.

    Gli strinse la mano.

    «Dicte».

    Aveva sentito parlare di lui. Ne aveva letto, persino, quando aveva vinto chissà quale concorso fotografico straniero con le immagini della Sierra Leone, o era la Bolivia? O un’altra zona di guerra che non ricordava di preciso. Ma anche i fotografi pluripremiati dovevano guadagnarsi da vivere, e lui lavorava come freelance per la redazione di Århus.

    «Dobbiamo parlare con l’ostetrica che era al fiume», lo informò mentre percorrevano i lunghi corridoi dove il personale sfrecciava in monopattino. Una nonnina disabile avanzava coraggiosa con il suo bastone. Per lei niente monopattino. Dicte lanciò un’occhiata furtiva al fotografo e di nuovo ebbe la netta sensazione che avrebbe preferito essere altrove.

    Lui tirò su con il naso e si pulì sulla manica del golf, mentre aggrappato alla borsa della macchina fotografica si trascinava accanto a lei. Lo sguardo lo vide bene: sfrecciava sulle pareti alla ricerca della verità e s’infilava in ogni stanza o ufficio capitasse a tiro. Notò che era sull’attenti, come se si aspettasse di essere aggredito alle spalle con un ak47 da una delle sale parto da cui provenivano urla strazianti.

    «Sembra un luogo di tortura».

    «In parte lo è», rispose lei.

    Dopo la chiacchierata con Kaiser era riuscita a prendere appuntamento con Anne, che con i minuti contati era riuscita a incastrarla tra un parto podalico e una paziente al primo figlio. Ma tanto di cappello a lei e alla sua disponibilità, sebbene avesse già trascorso un’ora alla centrale di polizia per fornire chiarimenti a questo e a quell’altro agente. Doveva ricordarsi di chiamare in commissariato per scoprire a chi fosse stato affidato il caso. Se era fortunata, sarebbe riuscita a spedire in fretta quella storia e si sarebbe liberata di Kaiser. Si sarebbe liberata di tutto, sebbene forse fosse una speranza eccessiva. Mentre rifletteva, si sforzava di stare al passo con la falcata del fotografo. Come avevano potuto abbandonarlo con tanta brutalità. Come un squarcio inferto con un piede di porco.

    Anne li fece attendere. Furono informati che era ancora in pieno parto podalico, così si accomodarono tra le donne in camice, urlanti ed esauste. Nel reparto c’era un’atmosfera intensa e allo stesso tempo incontrollata. Le grida di dolore si mescolavano a risa di felicità e stanchi visi sorridenti sull’orlo del pianto.

    «Hai figli?» domandò il fotografo all’improvviso.

    Lei annuì. «Una figlia adolescente. Un lavoraccio», aggiunse, sentendosi vecchia. Lui non poteva avere più di ventotto o ventinove anni.

    «Io ne ho due», disse sorprendendola. «Maschio e femmina. Cinque e sette anni». Dato che sembrava piuttosto meravigliata, proseguì: «Sono uscito di casa presto».

    Sopraggiunse Anne, che fu intervistata in piedi nell’angolo di un ufficio dove gente indaffarata andava avanti e indietro chiedendo scusa. Quando Bo si mise a scattare, subito ripensò a Ida Marie. A quanto era a pezzi: Anne temeva che il bambino venisse alla luce lì in mezzo. Si era seduta sporgendosi in avanti, per quanto possibile, e aveva pianto. Scossa dai singhiozzi, aveva boccheggiato: «Non voglio. Non voglio». E loro non erano riuscite a capire se si riferisse al figlio che portava in grembo, oppure se stesse cercando di prendere le distanze dalla morte, che era così vicina.

    Anne riportò i fatti con calma. Un parto casalingo, secondo lei. Il cordone ombelicale era stato reciso grossolanamente e annodato, e il corpo era ricoperto di sangue rappreso.

    «Per come la vedo io, è stato abbandonato sul canale non oltre ventiquattr’ore dopo il parto. Ma potete chiedere all’istituto di medicina legale», disse prima di deglutire in modo evidente, e intanto tormentava la tasca del camice come se vi potesse trovare qualcosa cui aggrapparsi. «So solo quello che ho visto sul momento».

    Medievale, l’aveva definito quasi in lacrime giù al fiume. «Al giorno d’oggi, in Danimarca. Chi abbandona il proprio figlio così, in un Paese che offre così tante possibilità di aiuto?».

    Dicte non avrebbe mai immaginato che Anne potesse impallidire. Ma era stato come se a un tratto avessero premuto un tasto del telecomando e tutto fosse diventato in bianco e nero. Come se in quel momento le si potesse vedere attraverso, giù nelle acque scure del fiume.

    «Come facciamo per le foto della cesta?», domandò Bo. «Dove si trova?»

    «Alla centrale di polizia. Per rilievi tecnici», rispose Anne, che sapeva come andavano certe cose. «Ma Ida Marie ha scattato qualche foto. Del compleanno e anche del resto. Perché non vi fate dare il rullino?».

    «Compleanno?» indagò Bo, non appena lasciarono l’ospedale, diretti all’agenzia di viaggi di Ida Marie.

    «Lasciamo perdere», sospirò Dicte, che ripensò al piccolo regno di Anne all’ospedale. Aveva la sensazione che niente sarebbe più stato lo stesso per lei. E per Ida Marie. Incinta. Per la prima volta a trentanove anni. Delle tre, era quella che non avrebbe mai dovuto esserci, non avrebbe mai dovuto vedere. Quella che al risveglio avrebbe dovuto ricevere la grazia di un’amnesia totale. Sebbene fosse impossibile, era ciò che si augurava per Ida Marie. Che non ricordasse niente, a parte il figlio che aveva in pancia.

    Ida Marie ara andata all’agenzia di viaggi che condivideva con tre soci in Store Torv. Dove altro sarebbe dovuta andare, rifletté Dicte, considerato che Theis era a Copenaghen per lavoro. Chi meglio dei colleghi poteva darle conforto e tranquillità? Sarebbe servito uno psicologo, ma non erano cose da dire a Ida Marie. Di sicuro avrebbe risposto di averne già visti abbastanza di psicologi e che non c’era niente di personale.

    Sedeva nella saletta caffè minimalista in compagnia di una collega, stretta a una tazza di tè caldo. Abbozzò un saluto: «Ciao».

    Dicte non poté fare a meno di sedersi vicino a lei e accarezzarle il braccio, sentendo i muscoli in tensione.

    «Come va?»

    «D’inferno», mormorò rivolta alla tazza di tè.

    Dicte indicò il fotografo, che si era tenuto in disparte.

    «Lui è Bo. Devo scrivere un articolo, che Dio mi aiuti. Su quanto accaduto».

    Ida Marie s’inumidì le labbra con circospezione, quasi volesse accertarsi che fossero ancora lì. Rivolse un debole cenno a Bo e s’immerse di nuovo nel suo tè.

    Dicte si schiarì la voce. «Forse hai bisogno di aiuto», suggerì prudente. «Potresti venire da me, finché non torna Theis».

    L’altra scosse la testa. «Sto bene. Benissimo. Mai stata meglio».

    Dicte soppesò quella bugia. Non sapeva da che parte prenderla.

    «Hai per caso la macchina fotografica? Il rullino?», domandò piano, come se un tono di voce più alto avesse potuto rompere qualcosa. «Potrebbe tornarci utile per l’articolo». E si sentì un avvoltoio.

    Ida Marie la guardò inorridita e allontanò la tazza facendola tintinnare.

    «Foto del bambino?».

    Dicte fece segno di no. Le accarezzò di nuovo il braccio appoggiato sul tavolo, che ora si muoveva appena.

    «Non mostreremo il bambino», promise. «Giusto la situazione. Noi. La cesta, se troviamo un’immagine adatta».

    Ida Marie rimase immobile a fissarsi il braccio, come non le appartenesse, dopodiché allontanò la mano di Dicte, si abbassò a recuperare la borsa e ne tirò fuori la macchina fotografica, porgendogliela.

    «Puoi prendere tutto», disse con voce rauca.

    La redazione era troppo piccola per sei giornalisti, e fin dal primo giorno gli altri avevano parlato di trasferirsi. Ma alla fine Dicte aveva capito che facevano così da anni. Sognavano. Gli uffici alla nuova marina, una barca con il logo aziendale. Ma erano rimaste soltanto parole, perché a Copenaghen avevano sempre bisogno di risparmiare, e lì erano costretti a stringersi in tre piccole stanze e una poco più grande che lei condivideva con altri due, con poetico affaccio su Telefontorvet e i venditori ambulanti che a intervalli regolari venivano invitati a sloggiare dalla polizia.

    Bo era svanito nella vecchia camera oscura assieme al rullino di Ida Marie. Dicte si era messa alla scrivania, che non le era ancora del tutto familiare. Taccuino alla mano, le bastò una chiamata per rintracciare il detective John Wagner, il quale non voleva sbottonarsi.

    Ottenne un paio di risposte prevedibili del tipo: «Non posso rilasciare dichiarazioni» oppure «È troppo presto per fare congetture». Prima di agganciare era stata sul punto di consigliargli una carriera in politica.

    Guardò fuori dalla finestra. Poteva vedere sino al canale, volendo. Avrebbe potuto alzarsi a dare un’occhiata, ma evitò. Non doveva pensarci. Il lavoro avrebbe aiutato. Sì, era proprio quel che ci voleva. Anche se odiava la cronaca. Soprattutto scriverne.

    Durante il praticantato al giornale, cent’anni prima, Kaiser l’aveva adocchiata e le aveva tenuto un corso individuale che aveva lasciato entrambi frustrati. Lui perché, per ragioni sconosciute, era convinto lei fosse dotata di un talento nascosto. Lei perché sapeva che lui si sbagliava. Era altro ciò che le riusciva bene. Scrivere lunghe analisi psicologiche sugli stili di gestione aziendale, leggere la contabilità e farsi venire idee per storie insolite. Ma la cronaca era e restava un enigma. Non capiva perché una cosa tanto semplice ed elementare dovesse essere tremendamente difficile. Forse dipendeva dal fatto che di regola non vedeva niente di innovativo nelle notizie di cronaca e non comprendeva il prestigio derivante dall’avere il nome in prima pagina.

    «Smetti di infiorettare», aveva l’abitudine di dire quando rispolverava i suoi articoli. «Ci servono i fatti. La storia va raccontata nelle prime tre righe. E nel titolo».

    Provò dunque a fare del suo meglio e si sentì catapultata all’epoca del praticantato. A quarant’anni compiuti, se ne stava lì come se le fosse passato sopra un rullo compressore dopo gli eventi della giornata, che era un disastro su tutti i fronti. Ce n’era per ogni gusto. Con una figlia adolescente e vulnerabile sguinzagliata per la città, era la felice proprietaria di un tugurio diroccato di campagna e sapeva che a breve avrebbe avuto Kaiser dall’altro lato della cornetta, con le solite obiezioni in merito a stile, priorità e taglio complessivo.

    Controllò l’orologio. Mancava mezz’ora alla consegna ed era ancora alle prese con il testo dello speciale, mentre con il titolo si era arresa. Se ne sarebbe occupata la segreteria di redazione. Era troppo difficile. Troppo impossibile, pensava. Stava per ributtarsi sul testo, quando una voce alle sue spalle si mise a leggere marcando la dizione da presentatore televisivo: «Un neonato è stato ritrovato ieri in una bacinella di plastica sul canale di Århus».

    Bo sorrise amichevole e si fece aria con un ventaglio di fotografie.

    «I lettori non dovrebbero sapere subito che il bambino era morto?»

    «Lo dice più avanti. Ci dev’essere un elemento di suspense che invogli a leggere oltre», disse lei con un sospiro, improvvisando.

    Lui si sedette sul bordo della scrivania e la guardò con aria di sfida.

    «Ammettilo, non ci avevi neanche pensato».

    «E allora, anche se fosse?» ribatté, stanca. «A te cosa importa? Sei soltanto un fotografo».

    Quelle parole le erano sfuggite di bocca prima che potesse intervenire l’autocensura. Allarmi rossi le lampeggiavano nella mente. Non erano cose da dire a un fotografo. Le si poteva pensare, ma anche quello era ai limiti del biasimo.

    Lui scosse lentamente la testa.

    «Credo sia una brutta giornata per te», disse con tranquillità.

    «Bruttissima», ammise lei.

    «E sta per peggiorare», fece serio, ma con un sorrisetto sotto la barba appena accennata e una punta di divertimento nello sguardo.

    «Che cosa intenti dire?»

    «Intendo dire

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