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L'arte di non muoversi
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E-book297 pagine3 ore

L'arte di non muoversi

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Info su questo ebook

Fantascienza - romanzo (215 pagine) - Dopo tanti anni di isolamento finalmente sta arrivando un’astronave dalla Terra.
Ma qualcuno deve avvertirli del terribile pericolo che li aspetta. PREMIO ODISSEA 2022


Pianeta è un vero e proprio eden. Un mondo ospitale, generoso nei raccolti, privo di insidie naturali. E la comunità umana che lo abita è pacifica, bene organizzata. Ognuno è libero di trovare il propriio ruolo nella società, non esiste il denaro, non ci sono categorie oppresse o emarginate. L’unico rimpianto è aver perso ormai da secoli il contatto con la Terra e le altre colonie. Ora questo esilio sta per finire e tutti sono eccitati: gli astronomi hanno avvistato una nave spaziale in arrivo. C’è un grosso problema però: su Pianeta c’è un solo luogo dove una nave spaziale può atterrare, ed un luogo infestato dall’unico animale pericolo di quel mondo, il terribile punteruolo.


Giovanna Repetto. Genovese di nascita, da tempo risiede a Roma dove ha svolto la professione di psicologa e psicoterapeuta. Due volte finalista al Premio Urania, ha pubblicato con Delos Digital Il Nastro di Sanchez (2017), primo di una trilogia che continua con Il figlio di Nergal e Tequiero La stagione dei mostri (entrambi usciti nel 2019). Nel 2018 ha pubblicato Icarus (Watson Edizioni) e nel 2020 La mappa dei gesti possibili (CS_Libri). Nel 2021 è uscito Il sigillo del dolore (Kipple Officina Libraria). Oltre ai romanzi ha pubblicato diversi racconti in antologie e riviste italiane e straniere. Con La legge della penombra ha vinto il Premio Kipple Short 2017, mentre Vuoti a perdere è apparso su Robot 86. Nel 2021 Urania Millemondi 90 (a cura di Franco Forte, Mondadori) ha ospitato Corpi paralleli, racconto finalista al Premio Vegetti. È appassionata di enigmistica, scrive poesie e pratica teatro amatoriale.

LinguaItaliano
Data di uscita25 ott 2022
ISBN9788825421491
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    Anteprima del libro

    L'arte di non muoversi - Giovanna Repetto

    Probabilmente ogni animale aveva il suo odore del pensiero. Uno scoiattolo ne emetteva un tipo, un lupo un altro e un uomo un altro ancora. La domanda più importante era questa: egli poteva essere tracciato solo quando pensava a un determinato animale? O il suo pensiero poteva essere colto anche quando non pensava a niente di particolare?

    L’odore del pensiero, Robert Sheckley (in Destinazione universo, a cura di Piero Pieroni, Vallecchi 1957)

    Prologo

    Il Primo Maestro della Casa Rossa per le Arti della Massima Difesa sbirciò l’elenco su cui il Secondo Maestro aveva spuntato diligentemente i nomi dei candidati. L’aiutante era arrivato all’ultimo e intinse ancora una volta il bastoncino nella boccetta di crusca liquida. Era un bastoncino con la punta bene affilata, perché il Secondo Maestro ci teneva ad avere una scrittura elegante.

    Il Primo Maestro sospirò, mentre la riga d’inchiostro brunito barrava l’ultimo nome. Il bando era stato diramato nel modo più ampio possibile in tutta la parte colonizzata di Pianeta. Numerosi ragazzi della Difesa Giovanile erano stati reclutati per girare di villaggio in villaggio informando le Madri e annunciando la selezione che si sarebbe tenuta presso la nuova scuola. Avevano visitato tutti i villaggi a est del Villaggio Grande, tutti quelli a ovest e quelli a sud. A nord non occorreva andare, perché c’erano solo foreste e deserti. Per molti giorni i messaggeri avevano diffuso le informazioni necessarie e raccolto coscienziosamente i nomi degli aspiranti.

    – Nessun altro? – domandò l’anziano, benché la cosa fosse evidente.

    Il Secondo era giovane, e tradiva l’impazienza di concludere il lavoro. Scorse rapidamente i fogli in fibra vegetale su cui era vergata la lista.

    – Qualcuno non si è presentato. Ma erano nell’elenco del mattino. Ormai è tardi.

    Se ne stavano tutt’e due inginocchiati davanti ai loro banchetti da scrittura, mentre le ombre della sera invadevano la Stanza delle Prime Parole. Il Primo Maestro indossava una semplice tunica nera su cui risaltavano barba e capelli candidi. Il Secondo Maestro aveva le guance ben rasate, come si usava fra i maschi giovani, e vestiva con più ricercatezza. La casacca nera, indossata sopra morbidi pantaloni, era fregiata da arabeschi color porpora.

    Il maestro anziano non era soddisfatto. Non perché gli aspiranti fossero pochi. Se n’era presentato un buon numero, ma i più erano stati scartati perché non idonei. I migliori erano quelli che avevano già frequentato altre scuole similari, principalmente la scuola della Difesa Giovanile, però questo elemento violava la più tassativa delle regole. Lui stesso, il Primo Maestro, aveva stabilito che l’assenza di un un’esperienza precedente fosse il requisito fondamentale.

    – Troppo tardi, dici? – borbottò a malincuore, stentando a rassegnarsi.

    – Maestro, ne abbiamo selezionato undici. Non è un numero sufficiente?

    Il Primo Maestro rispose con una smorfia ironica.

    – Se durassero sì. Se durassero. Ho una certa esperienza di scuole. – Era vecchio per età, ma aveva anche quell’anzianità dell’esperienza che rende prezioso il giudizio di un maestro. – È già tanto se non si dimezzano nei primi dieci giorni.

    Il Primo Maestro aveva insegnato per molti anni nelle migliori scuole, coltivando le arti della difesa e tutte le possibili tecniche adatte a controllare la mente e il corpo. Negli ultimi tempi si era concesso un parziale riposo ritirandosi in un villaggio dove gli piaceva condurre brevi corsi per i figli dei coloni impegnati nella campagna. Avrebbe finito così i suoi giorni, se una lettera non l’avesse chiamato all’urgenza di una missione inderogabile. Il Secondo Maestro era stato suo allievo in passato e il vecchio, ritenendo che il suo zelo potesse compensare alcuni suoi difetti, se l’era preso come aiuto.

    Il sole era prossimo al tramonto, ma il vecchio maestro non accennava ad alzarsi.

    – Accendo il lume? – lo sollecitò il Secondo. – Preparo il pasto?

    Il Primo Maestro stava per acconsentire, quando gli cadde l’occhio sul vano della porta, e sul volto rugoso si allargò un sorriso.

    Un visetto minuto si stava affacciando dallo stipite, con un’espressine che pareva incerta o incredula. Poi l’esile figura varcò la soglia.

    – E tu chi sei?

    Indossava un paio di pantaloni neri, larghi, e una corta casacca bianca. La divisa preferita degli studenti di campagna, che alternavano i libri agli attrezzi da lavoro.

    – Sono venuta per l’esame – rispose la ragazzina con voce squillante. Sì, era una femmina, benché la cosa non fosse così evidente al primo sguardo. I capelli neri erano dritti come spaghi, il corpo piatto come un foglio da scrittura.

    – Come ti chiami? – domandò il Secondo, accigliato. Quel fuori programma rischiava di allungare i tempi della cena.

    – Lili 333.– Lo sguardo balenava, vivace, negli occhi dal taglio a mandorla appena accennato.

    – Sei fra gli iscritti? – domandò gentilmente l’anziano.

    La ragazza sembrava più giovane dell’età prescritta. Il Secondo scorreva gli elenchi, sempre più nervoso.

    – Non c’è. Qui non c’è nessuna Lili. Ragazzina, hai sbagliato posto.

    Il Primo Maestro, al contrario, aveva un’espressione divertita.

    – Da dove vieni?

    – Sono nata nel villaggio Luce dell’Alba. – Raddrizzò leggermente le spalle. – Mia madre è la Madre del Villaggio.

    – Me ne compiaccio – ridacchiò il vecchio. – Però non credo che questo sia posto per te.

    – Non è affatto in lista! – ribadì il Secondo.

    – Guardate meglio – replicò la ragazzina, improvvisamente sfrontata.

    Il Maestro trattenne con un gesto l’assistente che stava per entrare in aperto conflitto, e si rivolse a lei con pazienza.

    – Credo che tu non abbia l’età, cara.

    – Non è vero. Ho già passato sessanta Cicli di Luna. Più di sedici anni terrestri!

    Il Secondo scoppiò a ridere senza ritegno. Il Maestro inarcò le sopracciglia.

    – Sei una Ragazza Calendario?

    Lili arrossì vistosamente.

    – No! Cioè… Prima sì, ora non più.

    – Ancora queste superstizioni – sbuffò il Secondo con un’occhiata sprezzante. – Qui non si usano certi riti primitivi. E non esistono lune.

    Ora Lili teneva la testa bassa esibendo un’espressione mortificata, ma questo non le impediva di guardare da sotto in su facendo saettare gli occhi fra i due maestri.

    – Il tuo nome non c’è – disse il Primo Maestro. – Come lo spieghi?

    – Deve essere un errore – rispose lei con determinazione.

    – Per sostenere il colloquio bisogna aver compiuto dodici anni planetari – sentenziò il Secondo Maestro, ravviandosi con la mano i capelli, che in realtà erano già belli impomatati e tesi, e raccolti in una crocchia dietro la nuca.

    Il Primo Maestro gli fece cenno di lasciar perdere.

    – Corrisponde a quello che ha detto – precisò sottovoce.

    Si rivolse nuovamente a lei.

    – Che cosa cerchi qui? Che cosa credi di poter fare?

    – Voglio apprendere le Arti della Massima Difesa.

    Il Secondo sghignazzò. La ragazza lo guardò severamente.

    – E applicarle quando sarà necessario – aggiunse.

    Il vecchio si era alzato in piedi. I suoi capelli bianchi erano raccolti con minor cura di quelli del suo assistente, ma la barba lunga e sottile si stringeva sotto il mento in un nodo complicato. Un raro capriccio di certi anziani che si ritenevano autorevoli. Cominciò a girarle attorno, mentre lei accentuava la sua postura rigida e impettita.

    Guardava davanti a sé ignorando i movimenti del Maestro, ma quando lui le sferrò un attacco improvviso, fingendo di colpirla con il dorso della mano, non riuscì a coglierla impreparata. Lili schizzò indietro, fronteggiandolo e parandosi con le braccia tese, i palmi in avanti.

    – Ehi, ehi! – strillò l’assistente, con gli occhi sgranati.

    Il Primo Maestro la scrutò con attenzione.

    – Chi ti ha insegnato questa mossa?

    – Nessuno. È stato lo spavento.

    L’anziano storse la bocca.

    – C’era della tecnica nel tuo spavento. Chi ti ha insegnato?

    Lei non rispose. Il Maestro continuò.

    – Lo sai che il primo requisito è la verginità?

    Lili si inalberò.

    – Credete che io perda il mio tempo a trafficare con gli uomini?

    Questa volta nemmeno il Primo Maestro riuscì a trattenere il riso. Da dove veniva la piccola balorda, con quello strano modo di esprimersi?

    Il Secondo Maestro stava accennando un commento, quando l’anziano lo fermò.

    – Intendevo dire che non vogliamo studenti che abbiano già frequentato altre scuole.

    Lili spalancò gli occhi.

    – Non dovrei nemmeno saper leggere?

    Questa volta fu solo il Secondo a ridere.

    – Questo non c’entra – spiegò il Primo Maestro. – Non parlavo delle scuole dei villaggi. Mi riferivo ai corsi d’addestramento specifici.

    – Non ho fatto nessun corso – affermò lei decisa ora che aveva capito. – Non avrei potuto. L’anno scorso non avevo ancora l’età.

    – Eppure qualcuno ti ha insegnato. Non mentire, perché qui non sono ammessi i bugiardi.

    La ragazza assunse un’espressione contrita.

    – L’ho visto fare a mia sorella, Lili 332. Ha un anno più di me. Non so dove l’abbia imparato. A me non ha mai detto niente.

    Il Secondo sbuffò.

    – Maestro, ti sembra il caso di perdere tempo con questa stupidella?

    L’altro non parve udirlo. Si rivolse di nuovo a Lili.

    – Sei brava a correre?

    Lei rispose con il broncio.

    – Sarebbe un modo per dirmi che devo scappare via da qui?

    – No, cos’hai capito! Domando se sei veloce nella corsa.

    Il viso le si illuminò.

    – Sì, la più veloce! Ero la più veloce della…

    Si bloccò, mordendosi il labbro.

    – Della…?

    – Della mia età. Di tutto il gruppo di ragazzi della mia età, al villaggio. E anche di quelli più grandi, a volte.

    – Bene. Vieni un momento qui fuori.

    Il Primo Maestro ignorò lo sguardo di disappunto dell’assistente e accompagnò Lili fino all’uscita. Lei lo seguì con diffidenza. Nell’aria fresca della sera si poteva avvertire il profumo dell’erba levarsi dal grande prato che circondava l’edificio. Un torrente che scorreva dietro la casa faceva udire lo sciacquio leggero della corrente.

    – Ora guarda. – Il vecchio indicò con il dito. – Se tu corri in questa direzione puoi fare tutto il giro della Casa Rossa e tornare dall’altra parte. Io misurerò il tempo con questa clessidra.

    Si sfilò lo strumento che portava appeso al collo e lo appoggiò sul parapetto accanto all’uscio.

    – Quando devo partire?

    – Ora.

    Parte prima

    La Casa Rossa

    1

    Tornando al villaggio, la mattina, Lili saltellava da un sasso all’altro per sfogare l’allegria. Si era fermata per la notte nel Villaggio Grande, per non avventurarsi al buio lungo la strada che solcava i campi, col rischio di essere sorpresa dalla pioggia notturna. Il suo villaggio era piuttosto lontano. Aveva dormito in una Casa Comune Provvisoria. Prima di coricarsi si era seduta a una lunga tavolata, dove i ragazzi addetti alle cucine scodellavano una bella zuppa fumante. Ne portavano in continuazione e ce n’era per tutti. Si condivideva il cibo in allegria. C’erano ragazze e ragazzi arrivati per cercare lavoro o iscriversi a una scuola, e i più loquaci si sbizzarrivano a raccontare fatti di ogni genere, divertenti o drammatici. Se fossero veri o falsi non si sapeva e non aveva importanza, era bello ascoltare. Lei aveva preferito parlare poco di sé, perché le sembrava opportuno mantenere un certo riserbo. Aveva i suoi buoni motivi.

    Aveva dormito nello stanzone comune, su uno dei pagliericci messi a disposizione degli ospiti, e al levar del sole si era incamminata. Il sentiero per il villaggio si apriva con una salita dolce, snodandosi fra vasti terrazzamenti coltivati a blenda. Lili camminava di buon passo fra le distese di blenda dorata, ormai prossima alla maturazione. Le spighe erano alte quasi quanto lei, benché ancora abbastanza tenere da piegarsi ondeggiando alla brezza. Lili ne avvertiva il profumo, così delicato da essere impercettibile al passante distratto, eppure così pervasivo da impregnare l’aria.

    Spingendo lo sguardo in lontananza, dai punti più elevati del sentiero, poteva notare la particolare struttura quadrettata dovuta alla tecnica delle colture sfalsate, così che si alternavano i campi di piante ancora verdi con quelli che avevano già un bel colore dorato, inframmezzati da colture di blenda regina. Quest’ultima si riconosceva per le spighe più alte e robuste e per le foglie ampie che avvolgevano sontuose pannocchie.

    In alcuni punti la vegetazione si apriva lasciando spazio alla geometria precisa delle teleferiche adibite al trasporto. Il loro meccanismo semplice, fatto di carrucole e contrappesi, sfruttava i dislivelli del suolo o il supporto di apposite torrette. In certi periodi c’era un gran movimento di carichi: sacchi blenda e di farina si spostavano fra mulini e villaggi, così come il legname da costruzione affastellato dai taglialegna e inviato a destinazione in grandi fascine appese ai ganci. Al momento però tutto era fermo e c’era un gran silenzio.

    Man mano che si avvicinava al suo villaggio, Lili vedeva spighe di blenda più mature, con i chicchi grandi e pieni, che facevano pregustare l’imminente festa del raccolto. Mentre guardava quelle messi splendenti non poté fare a meno di intonare una canzone.

    Le bionde distese di blenda…

    Cibo per gli occhi e poi per la mensa…

    La scuola sarebbe iniziata la mattina seguente.

    Mi hanno presa, ripeteva fra sé. Mi hanno presa, mi hanno presa! Bruciava dalla voglia di condividere con qualcuno la bella notizia, ma era necessario che per la maggior parte dei suoi conoscenti rimanesse un segreto. A chi poteva dirlo? Non certo a sua madre, che la credeva interessata a materie giuridiche. Né a sua sorella che, poco più grande di lei, aveva cominciato a indossare abiti larghi per prepararsi a una eventuale maternità. Le avrebbe dato della stupida. Nemmeno poteva raccontarlo ai suoi coetanei, che l’avrebbero spifferato in giro nel breve arco di un giorno.

    Pensò a Sami, che lavorava alle vasche di cibo iperproteico. Forse lui avrebbe mantenuto il segreto, almeno per un po’, se non altro per via dell’isolamento a cui lo costringeva il lavoro. Era un buon amico, ma lei non riusciva a fidarsi del tutto.

    Pensa e ripensa, Lili non riusciva ad arrivare a una conclusione. Intanto cantava e camminava con lena. Si godeva le sensazioni che venivano dai movimenti del corpo, leggero e agile, pensando all’allenamento che lo avrebbe reso più forte e adatto all’azione. I suoi piedi, nudi come sempre, battevano il terreno traendone un suono ritmato.

    Man mano che il sole si alzava, l’aria si riempiva di insetti, ed era tutto un frinire e un ronzare e un mulinare di ali. Incontrò un nugolo di farfalle coloratissime. Erano farfalle dei morti, le riconobbe dalla grandezza e da quanto erano numerose. Dovevano aver finito da poco il loro lavoro in uno dei prati che si alternavano ai campi. Si ricordava di quando era successo a sua nonna. Le farfalle avevano ricoperto tutto il corpo, che era stato deposto nudo in mezzo al prato, rimanendo su di esso per un giorno intero e per tutta la notte, incuranti del sole e della pioggia. Non si allontanavano mai prima di aver finito il lavoro. Il giorno dopo la nonna non c’era più. Si diceva che ogni defunto attirasse le farfalle del suo colore preferito. Forse era vero: la nonna amava vestirsi di un bel colore blu e le sue farfalle erano state quasi tutte blu e azzurre. È volata via con le farfalle, le aveva detto sua sorella. Per diversi anni, a ogni incontro con farfalle di quel colore, Lili non aveva mancato di salutare la nonna.

    Col tempo, le maestre del villaggio avevano preteso di spiegarle tutti i dettagli del procedimento, decantando la rapidità con cui gli insetti disidratavano la carne e polverizzavano le ossa. E la determinazione con cui ripulivano tutto fino all’ultimo granello di quello che era stato il corpo. Ma Lili non aveva mai voluto ascoltare. Preferiva non avventurarsi in un’idea troppo precisa di quei fenomeni e continuare a pensare alla morte come a un volo che si disperdeva nell’aria.

    Non c’erano solo farfalle lì intorno. Lili aveva l’occhio particolarmente allenato ai movimenti delle api. Sapeva indovinare la presenza di un’arnia nelle vicinanze e seguire le tracce giuste. L’idea di sgraffignare un po’ di miele la indusse ad allontanarsi dal sentiero. Seguì uno sciame finché non le rivelò un nido selvatico incastonato fra due pali confitti sull’argine di un canale come rudimentale testa di ponte. Del ponte non rimanevano che poche travi. Nel tempo il fiume aveva cambiato la sua morfologia, e un nuovo ponte era stato costruito poco distante, in un punto dove l’acqua più profonda rendeva difficile il guado.

    Gli insetti le formavano un nugolo intorno alla testa, solleticandole il viso, mentre spaccava abilmente il favo con il suo coltellino. Sarebbe stato un guaio, pensò, se le api di Pianeta avessero avuto un pungiglione come quelle terrestri. Glielo aveva raccontato il Vecchio Viaggiatore. Forse farneticava, perché a lei quella faccenda pareva strana. Alle api serviva una proboscide per succhiare il nettare, non un ago per pungere!

    Questi pensieri le offrirono l’ispirazione giusta. Ecco con chi poteva confidarsi.

    Si era seduta intanto sull’argine, dov’era più basso, e faceva ciondolare i piedi fin dentro l’acqua provocando i mulinelli delle meduse pulitrici, mentre succhiava con gusto il miele dalle cellette di cera. Si era accontentata di un pezzo del favo, lasciando il resto al suo posto, e sperava che le api non ne ricevessero troppo danno. Ebbe cura di tenere da parte un pezzetto di quello che aveva prelevato, per farne dono al Vecchio Viaggiatore che ne era ghiotto. Andare da lui avrebbe comportato un’ampia deviazione, ma che importanza aveva? Lili non aveva nessuna fretta di tornare al suo villaggio.

    L’imboccatura della grotta si apriva accanto a una piccola sorgente. Con quattro salti Lili superò la salita rocciosa e la raggiunse. Dovette aspettare che gli occhi si abituassero alla penombra, venendo dalla luce forte dell’esterno, prima di distinguere qualcosa. C’erano pochi oggetti sparsi qua e là. Alcuni erano poggiati a terra, altri appesi alla parete di roccia, che in alcuni punti era decorata con pezze colorate e strani fregi tracciati col nero del carbone.

    Il Vecchio Viaggiatore se ne stava al riparo lì dentro, com’era il suo solito, e in più indossava un ampio cappello parasole. Era l’uomo più vecchio che Lili avesse mai visto. Nessuno di sua conoscenza era mai arrivato ad accumulare in faccia una così imponente quantità di rughe.

    La loro conversazione cominciava sempre con lo stesso scambio di battute, come se avessero bisogno di riconoscersi attraverso delle precise parole d’ordine.

    – Sei all’ombra – disse Lili come tutte le altre volte, dopo averlo salutato con un profondo inchino. – Perché allora porti il cappello?

    – Eh, il sole picchia, da queste parti! – Aveva una voce flebile e rauca, come se parlasse attraverso uno strato di foglie secche.

    Diceva di non essersi mai abituato al sole di Pianeta, anche se Lili faceva fatica a crederlo. In fondo era lì da tanto di quel tempo!

    Ora toccava a lui domandare, o meglio fare la solita constatazione.

    – Tu sempre a piedi scalzi, eh? Non hai paura di pungerti con i rovi, o di essere morsa da un serpente?

    La ragazza ridacchiò. Non capiva come al vecchio rimanesse la voglia di dire quelle stupidaggini.

    – Potrei incontrare giusto un sasso più appuntito, ma ci sono abituata.

    – Già, già… me lo dimentico sempre. La memoria… Sono vecchio, Lili. Nessuno è mai diventato così vecchio.

    Si raschiò la gola con qualche colpo di tosse. Lei azzardò la solita domanda.

    – Credi che morirai anche tu, alla fine?

    L’uomo aggiunse alla tosse una nota più cavernosa, come se fosse arrabbiato.

    – Non è una domanda carina, questa. – Abbozzò una smorfia feroce, ma subito sorrise. – Tecnicamente, io sono un’anomalia. Per cui in teoria non si potrebbe essere sicuri…. Ma dato che tutto muore… be’ sì, suppongo che toccherà anche a me.

    A Lili sembrava che quel discorso celasse un trabocchetto. Il fatto è che non poteva credere che il vecchio fosse immortale, ma nemmeno accettare che scomparisse. Era l’ultimo testimone della Terra.

    Mancava solo una frase a quella conversazione ormai codificata, e Lili non mancò di dirla.

    – Ti ho portato una cosa.

    Non si presentava mai a mani vuote. Il più delle volte portava un frutto. Il vecchio era molto goloso e quando vide il pezzetto di favo spalancò gli occhi. Lili si divertì a vedere la pelle rugosa della sua gola andare

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