Stelle di pietra: Le incisioni rupestri di Monte Cotrozzi e le origini di Lucca
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Anteprima del libro
Stelle di pietra - Gabriele Panigada
Gabriele Panigada, Riccardo Simonetti
Stelle di pietra
Mani sagge
Titolo originale: Stelle di pietra
© 2014 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu)
I edizione cartacea febbraio 2011
I ristampa luglio 2011
ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-139-3
I edizione e-book novembre 2014
ISBN edizione e-book: 978-88-6396-602-2
www.giovaneholden.it
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UUID: 9788863966022
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Indice
Avviso ai naviganti
C’era una volta Ovvero sulle origini di Lucca
Gambe in spalla Ovvero salita a Monte Cotrozzi
AAA cercasi Arianna disperatamente Ovvero la misteriosa storia di Monte Cotrozzi
Acquasantiere e crocifissi Ovvero coppelle e dintorni
Stelle di pietra Ovvero come portare il cielo in terra
Lo stellario etrusco Ovvero le stelle di Monte Cotrozzi
Tutti a casa Ovvero conclusioni, se così possiamo dire
Debiti & affini Ovvero ringraziamenti
Riferimenti bibliografici
Gli Autori
A tutti quelli che
stanno cercando qualcosa
e non si stancano di cercare ancora.
La prima epoca della storia dell’uomo,
continuò a raccontare l’omiciattolo, è l’età di Mantus. Quell’epoca è durata dieci secoli, e ha segnato il passaggio di tutte le cose esistenti, dalla felicità delle origini all’infelicità che preannuncia la morte. Ma le epoche del mondo sono cinque: e il primo predecessore spiegò a Tarchon che mentre Mantus dava i nomi alle cose, la sua ombra Mània aveva continuato a riflettere, tracciando certi segni nel cielo che subito cancellava. Quando il dio del nulla ebbe finito di compiere la sua opera, Mània gli indicò una roccia, gli chiese: come si chiama quella roccia? Quella, rispose Mantus, è il granito. Allora l’ombra, che aveva inventato la scrittura, scrisse sul granito una parola di sette lettere: granito, e la morte entrò nel granito, che si sgretolò fino a diventare ghiaia e polvere. Poi l’ombra scrisse, una dopo l’altra, tutte le parole. Scrisse accanto alle pietre i nomi delle pietre, accanto agli alberi i nomi degli alberi e accanto agli animali i nomi degli animali: e il mondo si riempì di parole scritte, cioè di involucri vuoti e affamati di vita.
Fu allora,
disse Aisna, che la morte si impadronì di tutti gli esseri esistenti; e anche gli uomini se ne resero conto quando Mània incominciò a scrivere i loro nomi nel cielo notturno. Incominciarono a morire e a morire, e il buio della notte si riempì di piccolissime luci, dette stelle, che erano quanto rimaneva di ciascuno di loro. Nacquero altri uomini che si chiamarono con nomi nuovi e diversi, o anche con gli stessi nomi che erano appartenuti ai defunti; ma Mània scriveva e scriveva nel cielo pieno di stelle, e gli uomini continuavano a morire.
Vassalli Sebastiano, Un infinito numero.
Torino, Einaudi, 1999.
Avviso ai naviganti
Ipotesi s. f. [dal gr. ypóthesis, affine a ypotíthesi porre sotto
; il termine latino corrispondente è suppostitio, da cui l’italiano supposizione]. 1. [...] b. Spiegazione logica, fondata su indizi e congetture, che si dà provvisoriamente di un fatto o una serie di fatti, noti o accertabili in sé ma non nelle loro cause, nei loro processi, ecc. [...] In senso più strettamente scientifico, prima formulazione di una legge, non ancora sperimentata o sperimentabile in sé, ma tale da rendere ragione di fatti sperimentali o sperimentabili: tale formulazione provvisoria serve a determinare ulteriori ricerche dalle quali l’ipotesi stessa può avere o no conferma.
Così il Vocabolario Treccani; ma un altro avrebbe fatto lo stesso. è bene capire fin da subito dove andremo a mettere i piedi: i lavativi e i pusillanimi è meglio che restino a casa. Il viaggio che ci aspetta sarà lungo e non privo di avversità; le poche certezze andranno conquistate col pugnale tra i denti. Intesi?
Bene, possiamo partire. Mollate gli ormeggi, si è alzato un buon vento da terra: è il momento. E che il cielo ci assista, mai come in questo caso tali parole furono più giuste… Non ci credete? Pazientate, cari lettori, pazientate: arriverà il momento di guardare in alto e allora capirete.
Dunque, chi scrive è un ricercatore inesistente; chi ha letto Calvino sa cosa significa. Come il cavaliere Agilulfo anche noi abbiamo una bella corazza, trottiamo per villaggi e campagne, discettiamo del mondo, ma all’interno, in quanto a sostanza, beh, andatelo a chiedere a lui, ad Agilulfo, la cui esistenza, come quella di tutte le parole che seguiranno, è soltanto ipotesi.
Ma con ciò non vogliamo sminuirci, tutt’altro. Questa è una dichiarazione d’orgoglio, una professione di fede: abbiamo scelto un terreno impervio, battuto da altri solo in parte. Abbiamo salito coste di monti, vagato per terreni alluvionati, abbiamo navigato su mari lontani e tentato di volare in alto, nell’illusione di guardare ancora più su. Ma lo sappiamo tutti, abbandonare gli appigli sicuri del già detto, del già verificato, può comportare scivoloni e sfaceli, denigrazioni o più subdole damnatio memoriae. Del resto noi non abbiamo nome, la nostra memoria è uguale a zero; in caso di naufragio il danno sarà poca cosa. Ma siete sicuri di volerci ancora seguire?
Questo viaggio vi condurrà lontano nel tempo, in una sorta di labirinto dai passaggi nascosti: il nostro compito sarà quello di farvi scoprire quei barbagli di luce in grado di guidarvi avanti, ma la scia che lascerete non sarà rettilinea né ininterrotta. Non dovrete temere il buio, né il caos della ragione.
A questo punto, i più svegli già avranno subodorato l’inghippo. Troppi svolazzi privi di senso. Non doveva essere, questo, un saggio su antiche incisioni rupestri, una trattazione erudita su una fetta sconosciuta di storia del territorio lucchese?
Acqua, cari lettori; ma anche un po’ di fuoco. Chi scrive ha voluto giocare prima di tutto con le parole, perché in fin dei conti quello è il suo ‘mestiere’. Ma non disperate: ogni concetto, ogni frase ha alle spalle solidi ormeggi. Le note e i riferimenti bibliografici non mancheranno, quasi rimpiangerete i romanzi. Il lavoro è stato condotto con zelo certosino, il metodo è scientifico, seppure nei limiti del possibile. Dietro ogni affermazione che potrà apparirvi leggera, ci sono nottate su libri difficili da trovare, giornate in biblioteca o tra le teche di musei, ore e ore davanti a un computer e un’infinità di dubbi.
Fra tutte, c’è una cosa che dovete sapere fin dall’inizio: l’argomento, il campo d’indagine che abbiamo scelto permetterà di appellarci ai dati, ai riscontri scientifici soltanto fino a un certo punto. Da lì in poi, i nostri passi tenteranno la via dell’ipotesi più libera e insicura, la trattazione sfumerà nella narrazione, in un mondo ricostruito più dal supposto che dal certo. Perché mai?, chiederete voi, perché destinarsi di proposito a un volo impossibile? Perché si è voluto guardare laddove non era lecito, almeno non per un ricercatore degno di questo nome, si è voluto tentare una strada inesistente ma affascinante, così affascinante che non abbiamo potuto fare a meno di pensarla, dunque di raccontarvela.
Abbiamo ascoltato antiche favole, nuove teorie, vecchie certezze e tanti consigli: chi scrive sa bene dove si devono mettere i piedi per camminare sicuri, ma ha voluto andare oltre, senza per questo vestirsi da profeta o indovino. Non si raccontano verità qui, sia ben chiaro: si propongono altri modi di vedere le cose, alcune piccole cose, senza la pretesa di dichiarare chissà che roboanti scoperte. In fin dei conti vogliamo narrarvi una storia, niente di più, e vogliate prenderla così, come un grumo di parole che mischiano verità a pensieri più liberi, che ancora si permettono il lusso di volare alto e di rendere conto soltanto alla passione e alla curiosità.
Ciò che gonfia le nostre vele è soltanto pura e semplice curiosità. Curiosità per un fatto, una cosa che abbiamo visto e che ci è rimasta impigliata negli occhi, con tutta la sua sfacciata – ma solo apparente, si badi bene – insensatezza. Un groviglio di bizzarre incisioni rupestri, segni di cui ignoravamo totalmente l’esistenza, tracciati in vetta a monti scoscesi e sassosi, quasi fossero antichi guardiani di magiche verità oggi irrimediabilmente perdute. Il loro mistero ci ha spinto lontano, ovunque fosse possibile scoprire indizi e prove, alla ricerca di moventi e colpevoli. In fin dei conti siamo soltanto vittime della nostra curiosità, in tutta la sua banale semplicità di sguardo prima vergine, adesso almeno un po’ più informato sui fatti. E ciò che abbiamo faticosamente trovato, costruito e ipotizzato, lo vogliamo raccontare dal punto di vista di ingenui ficcanaso che iniziano a calpestare un magnifico, quanto scivoloso, percorso.
è proprio per questo che il tono vuole essere, quando la materia lo consente, più lieve: per cercare di trasmettervi almeno un briciolo di quella curiosità che ci ha fatto dannare per anni, e saltare di gioia non appena abbiamo intravisto la migliore delle nostre ipotesi, quella funzionante col minore dei costi, anche se si tratta di una pura e semplice ipotesi, niente di più.
Il nostro augurio è quello di risultare chiari ai digiuni di storia, di linguistica, di archeologia e di astronomia; le nostre parole nascono soprattutto per voi. Ma la speranza è anche quella di non annoiare gli specialisti: sappiateci perdonare se il risultato non sarà all’altezza. Se abbiamo peccato, non lo si è fatto apposta.
Rem tene verba sequentur, diceva Catone. Abbi ben fermo il concetto, le cose di cui vuoi parlare, e vedrai che le parole verranno da sé. Facile a dirsi… Per afferrare la rem abbiamo inseguito l’impossibile, in quanto alle verba, beh, anche di più.
Di tutte queste parole ci auguriamo che resti almeno una scia: aver portato alla vostra attenzione un’affascinante storia, un’avventura che forse abbiamo dimenticato ma che potrebbe appartenerci nel profondo, e magari aver sollevato il problema quanto basta perché un vento migliore, scaturito da maggiori divinità, possa avvicinarci di più al vero, alla certezza figlia delle scienze esatte. A chiunque vorrà portare critiche, dubbi e insegnamenti saremo eternamente grati.
Ma abbiamo ciarlato abbastanza. Gli autori vi danno il benvenuto a bordo e vi augurano buon viaggio. Per le uscite di emergenza, guardate ovunque attorno a voi: per vostra fortuna, un libro è sempre e solo un piccolo ingombro tra le mani di cui ci si libera facilmente.
C’era una volta
Ovvero sulle origini di Lucca
C’era una volta… un re!, direte voi. Beh, non proprio.
C’era una volta un aruspice, una sorta di gran sacerdote, all’occorrenza indovino. Uno di quelli che, dando una sbirciatina alle viscere fumanti di un animale appena sacrificato, rivelava all’intera comunità il volere divino, fasto o nefasto che fosse, muovendo con le proprie parole fatti privati e di pubblico interesse.[1] Insomma, un pezzo grosso. Un funzionario religioso e politico allo stesso tempo, di quelli che contano.
Il suo compito non era esclusivamente quello di rovistare tra le interiora calde di malcapitati animali – affare piuttosto infame, penserete voi – ma all’occorrenza profetizzava persino osservando la caduta dei fulmini – questi sì, messaggi divini allo stato puro – o la direzione del volo di certi uccelli in cielo. Per assolvere a quest’ultimo compito ritagliava in aria una specie di spazio di osservazione, per mezzo di un bastone chiamato lituo, tracciando linee invisibili e aspettando che da lì transitasse qualche volatile. A seconda da dove arrivasse un corvo, un’aquila, un passero o gruppi più consistenti di questi o altri pennuti, si prospettava alla popolazione un futuro più o meno roseo, e giù coi sacrifici!
Non per niente, il più importante testo sacro dei Rasenna,[2] la Disciplina Etrusca,[3] conteneva in apertura proprio i Libri Haruspicini, il cuore della loro religione, la sezione più antica e solenne: costituiva il vademecum del perfetto aruspice, il complesso di funzioni divinatorie che tale sacerdote esercitava nella continuità ancestrale di un complesso di credenze e riti che sembra derivare dal mondo religioso del vicino Oriente.[4]
Dicevamo: c’era una volta un aruspice. Un aruspice che vagava tra le mura deserte di Lucca. Di questa immagine piuttosto malinconica ci narra Lucano, autore latino del I secolo d.C. Nel primo libro della Pharsalia, poema sulla guerra civile tra Cesare e Pompeo (50-49 a.C.), racconta di come all’inizio dei combattimenti il Senato, non sapendo più che pesci pigliare, mandò a chiamare alcuni aruspici etruschi: l’ultima speranza per dar luce a un futuro che si prospettava dei più neri. Il potere crescente di personalità politiche sempre più in vista e le ormai aperte rivalità tra queste minacciavano di sconvolgere la Repubblica fin dalle sue fondamenta, si doveva correre ai ripari.
Tra i sacerdoti etruschi che giunsero a Roma, "maximus aevo ovvero il più anziano di tutti e dunque anche il più esperto, c’era un certo
Arruns, qui incoluit desertae moenia Lucae".[5] Arronte, che abitava le mura deserte di Lucca, "fulminis edoctus motus venasque calentis fibrarum et monitus errantis in aere pinnae", esperto nell’interpretare i tracciati della folgore e le calde vene della carne e i presagi degli uccelli errabondi nel cielo.
Dunque un aruspice lucchese. Ecco che abbiamo la prima denotazione etnico-culturale dell’area lucense in letteratura. Il passo appena riportato costituisce infatti un caposaldo per chi vuole rintracciare nelle fonti classiche l’origine della città sotto il profilo etrusco. E questo è ciò che per il momento anche a noi interessa: Lucca in quanto città – ovvero insediamento dotato di moenia, di mura seppur deserte – inquadrabile nel I secolo a.C. all’interno dell’etnia e della religione etrusche.[6] Una città talmente etrusca da avere tra i suoi abitanti un rinomato aruspice chiamato Arronte – un nome etruschissimo![7] ai cui servigi si appellò addirittura il Senatus Popolusque Romanorum.
Ma prima di proseguire, appare doveroso un chiarimento circa la desolazione intra moenia descritta da Lucano. Perché la città era quasi del tutto spopolata? L’immagine ci appare ancor più insolita se pensiamo che pochi anni prima, esattamente nel 55 a.C., Lucca era stata sede di un importante meeting politico-militare: il triumvirato tra Cesare, Pompeo e Crasso. Alcuni commentatori ne attribuiscono la causa al timore generato dall’avanzare delle truppe di Cesare: di fronte a cotanto esercito i Lucchesi avrebbero preferito la macchia, o magari si sarebbero rifugiati nelle impenetrabili valli montane dominio di popoli rudi e battaglieri quali gli Apuani. Come che stiano le cose, lungi dal voler fugare l’accusa di codardia nei confronti dei primi cittadini lucensi, il dato archeologico ci narra di piene disastrose dell’Auser, l’antico Serchio, di ponti abbandonati in quel periodo, almeno fino al 46 a.C.[8] Insomma, dove non arrivò Cesare ci pensarono l’acqua e il fango. Ma ritorniamo al nostro Arronte.
Ecco che l’aruspice solitario diviene l’emblema della genuina origine tirrena (leggi etrusca) di Lucca, il solido avamposto letterario da cui scagliare saccenti dardi contro chi sostiene invece che siano stati i Liguri Apuani a occupare per primi la fertile piana dell’Auser.
Che cosa c’entrano i Liguri, adesso? Prima di provare a vederci un po’ più chiaro, fermiamoci giusto il tempo per notare un fatto insolito: un’ambiguità nel testo di Lucano, una svista di un trascrittore, un errore che sembra fatto apposta per prendersi gioco degli storici di oggi.
Torniamo al verso 586: "Arruns qui incoluit desertae moenia Lucae". A vederlo così, niente di strano: abbiamo di nuovo il nostro Arronte che se ne sta solo soletto dentro alle mura di Lucca. Ma provate a immaginare cosa può succedere se un amanuense medievale, ‘operaio culturale’ necessario alla trasmissione dei testi letterari quando ancora la stampa era un assurdo congegno inimmaginabile, così, vuoi perché la candela sullo scrittoio non mandava abbastanza luce, vuoi perché era un po’ stanco, distratto e assolutamente disinteressato alle parole che stava diligentemente copiando, leggendo il testo di riferimento scambiasse la c di Lucae per una n.[9] Confondere una lettera per un’altra, soprattutto di fronte a grafie minute e ininterrotte come quelle medievali, era un errore talmente diffuso da avere addirittura un supervisore: il diavoletto Titivillus. Uno spiritello che si divertiva a tormentare i copisti, inducendoli a leggere (e trascrivere) lucciole per lanterne.
Dunque, Lucae, ‘di Lucca’, diviene Lunae, ‘di Luni’. Di colpo ci ritroviamo nella cittadina alla foce del Magra, e con noi Arronte, che adesso abiterà rassegnato le deserte mura di Luni. Inutile dire quanto i filologi delle due vicine città si siano accapigliati in passato per aggiudicarsi la cittadinanza dello spaesato aruspice, sballottato ora di qua ora di là per attestare la nobile origine etrusca delle rispettive città. Perché, ammettiamolo, essere generati dalla stirpe tirrena poteva di gran lunga apparire preferibile rispetto a vedersi discendere dai rudi Apuani: popolo fiero e battagliero ma che in fatto di cultura e di civiltà, soprattutto se visto con gli occhi di un’archeologia ancora acerba, lasciava molto a desiderare.
Del resto, Luni già poteva vantare un’originaria identità etrusca grazie alla testimonianza di Strabone, storico greco del I secolo a.C. Nella sua Geographia, afferma infatti che all’epoca tale città, pur non essendo una metropoli, possedeva un porto "assai grande e assai bello, includendo più porti, tutti profondi, quale dovrebbe essere naturalmente la base navale di un popolo