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IL Ramayana: L'Immortale Racconto di Avventura, Amore e Saggezza
IL Ramayana: L'Immortale Racconto di Avventura, Amore e Saggezza
IL Ramayana: L'Immortale Racconto di Avventura, Amore e Saggezza
E-book578 pagine10 ore

IL Ramayana: L'Immortale Racconto di Avventura, Amore e Saggezza

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Info su questo ebook

"In India, il Ramayana e il Mahabharata, da migliaia di anni, sono considerati i libri più famosi e più letti. Questa edizione italiana del Ramayana, resa in un linguaggio moderno e comprensibile, è un grande libro di storia che ci offre l'opportunità di capire e conoscere direttamente i valori e l'essenza spirituale dell'antica società indiana. George Lucas, il creatore della famosa saga cinematografica 'Guerre Stellari', ha ammesso di essersi ispirato direttamente alle straordinarie avventure del Ramayana, che letteralmente vuol dire le gesta e le glorie dell'eroe sovrannaturale Rama. Leggendo questo libro tutti gli amanti dell'India esploreranno la grandiosità e lo splendore della mitica civiltà indiana giunta ad elevati livelli materiali e spirituali migliaia di anni prima dell'avvento di Cristo.
LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2017
ISBN9788899450861
IL Ramayana: L'Immortale Racconto di Avventura, Amore e Saggezza

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    Anteprima del libro

    IL Ramayana - DHARMA KRISHNA

    Prabhupada

    Prefazione

    Sono molto felice di aver curato l’edizione italiana del Ramayana e del Mahabharata. Alfredo Lafranco, responsabile delle Edizioni Om, da anni ama e visita l’India ed ha creduto in questa impegnativa impresa, io lo ringrazio per aver messo in contatto diretto i lettori italiani con l’antica saggezza indiana. In questi due grandi classici si parla di realtà che adesso cominciano ad essere accettate anche nella cultura occidentale.

    Ultimamente anche il Vaticano ha ufficialmente accettato l’ipotesi dell’esistenza di altri esseri al di fuori del Pianeta Terra. Questi due poemi epici parlano di astronavi, di esseri che vivono in altri pianeti ed altre dimensioni, di civiltà umane molto evolute risalenti a decine di migliaia di anni fa, di guerre stellari combattute con armi tecnologicamente molto avanzate, del controllo mentale dell’energia e della legge karmica che regola le reincarnazioni. Si parla anche di valori eterni come l’amore, la giustizia, l’equanimità, il rispetto di ogni forma di vita, dell’onore che vincola la persona alla parola data, le caratteristiche di un buon governo ed altre qualità importanti per lo sviluppo ed il mantenimento della società umana. In questi due libri ci sono i principi fondamentali dell’antica filosofia indiana a cui tutti gli Yogi ed i maestri spirituali autentici si sono ispirati.

    Per capire meglio gli insegnamenti contenuti in questi due libri vi consiglio la lettura di altri due testi, L’Origine Segreta della Razza Umana di Michael Cremo, Om Edizioni, e I Deva, Gli Abitanti dei Pianeti Superiori di Giorgio Cerquetti, Om edizioni. Il Ramayana e il Mahabharata sono scritti in un linguaggio comprensibile a tutti, molti fatti storici, realmente accaduti, e molte verità, scientifiche e spirituali, sono esposte in un linguaggio che appare romanzato. Cogliete i simboli reali dietro le semplici parole ed apprezzate che gli autori di queste narrazioni hanno pensato al bene dell’umanità, in ogni tempo e luogo.

    Giorgio Cerquetti

    Introduzione

    Il Ramayana è la prima delle grandi epiche dell’antica India. È scritto nella antica tradizione dei Veda, con la saggezza di quelle scritture sanscrite senza tempo. Fu compilato dal saggio Valmiki, ed è noto come Adi Kavya, che significa poema originale. I seguaci della tradizione Vedica dicono che fu composto 880. 000 anni prima di Cristo, e naturalmente molti studiosi e scienziati occidentali lo contestano.

    Quando sia stato scritto non ha molta importanza, il Ramayana rimane una delle narrazioni più toccanti e più belle di tutti i tempi. Racconta la storia di Rama, un re della dinastia solare che origina dal re-sole Surya. I Veda dicono che Rama e sua moglie Sita sono le manifestazioni di Vishnu e Lakshmi, che sono considerati come il Signore Supremo e la sua Eterna Consorte. Rama è descritto come il settimo dei dieci Avatar, o incarnazioni di Vishnu, che appaiono negli attuali cicli temporali. Il libro si può leggere a diversi livelli. A un primo livello è semplicemente una storia meravigliosa. Coloro che amano racconti come Il Signore degli Anelli vi troveranno avvenimenti fantastici in un mondo di magia e misticismo, un mondo in cui gli umani vivevano a fianco di altri esseri più potenti, e dove la stessa società umana possedeva conoscenze di forze divine oggi sconosciute.

    Per chi è affascinato dalle diverse culture, il Ramayana descrive dettagliatamente la cosiddetta età vedica, un tempo in cui grandi re guerrieri governavano il mondo, guidati da santi e mistici spiritualmente risvegliati. Erano epoche in cui gli uomini vivevano nella consapevolezza di essere anime eterne, muovendosi di vita in vita verso uno stato di emancipazione totale. Fondamentali quindi il perseguimento della virtù e la ricerca della verità, e la vita umana era considerata come l’opportunità per raggiungere la realizzazione spirituale, intesa come la liberazione dal ciclo della nascita e della morte. Ma per coloro che accettano la divinità di Rama il Ramayana diventa un’altra cosa. Se si accetta che Rama sia un’incarnazione divina, allora si può chiedere: perché egli appare? Che cosa sta facendo sulla terra, mentre sembra che agisca come un uomo ordinario?

    A queste domande si trovano risposte nel famoso testo spirituale Bhagavad Gita . Vi si afferma che Dio appare in questo mondo per ripristinare i principi della spiritualità, per distruggere elementi demoniaci nella società quando divengono troppo potenti ma anche per corrispondere all’amore dei suoi devoti. Quest’ultimo motivo è il più rilevante e si dice che sia la ragione principale per la comparsa del Signore sulla terra. La Bhagavad Gita spiega che il Signore non ha nessuno scopo materiale da adempiere. Non si comporta come un uomo ordinario interessato a vantaggi materiali come il profitto, la fama e l’adorazione, e non ha scopi politici. Agisce semplicemente per amore.

    Se si studia il Ramayana con questo in mente, il libro diviene una lettura immensamente profonda e toccante. Le interazioni tra Rama e gli altri personaggi appaiono in una luce diversa - una luce di sentimenti d’amore divino che possono toccare il lettore nel profondo dell’anima. Comunque voi vediate il Ramayana sono certo che lo troverete divertente e illuminante. Io l’ho letto almeno una dozzina di volte e ancora provo grande piacere nel rileggerlo. Spero che questo libro vi possa dare la stessa gioia.

    Krishna Dharma Das

    Settembre 1999.

    Prologo

    Ravana apparve come una cometa fiammeggiante, mentre scorrazzava per il cielo sul suo carro celestiale. Il suo corpo scuro emanava un’aura brillante. I suoi occhi incandescenti mandavano lampi mentre scrutava le montagne che sorvolava. Le sue venti braccia possenti che uscivano dal suo torace sembravano serpenti dai cinque cappucci. Si muoveva velocemente sulla catena dell’Himalaya seduto su un trono di gemme, guidando il suo carro dorato con la sola forza del pensiero.

    Il demone era a caccia di conquiste. Migliaia di Rakshasa volavano intorno a lui, brandendo spade, lance rostrate, mazze chiodate e spranghe di ferro, tutte lorde di sangue. Alcuni Rakshasa avevano la testa di tigre, altri d’asino, altri di feroci demoni. Altri apparivano nelle loro forme naturali: grandi corpi nerastri, facce spaventose con lunghe orecchie a punta e file di lunghi canini affilati, le rosse chiome svolazzanti. Indossavano corazze di ferro incrostate di pietre preziose, e portavano scintillanti orecchini d’oro e altri ornamenti splendenti. Apparivano intorno a Ravana come nubi nere cariche di lampi che oscurano il sole.

    Ravana desiderava vincere in battaglia perfino i Deva. Era già stato nei pianeti superiori e aveva sconfitto schiere di Gandharva e di Yaksha, potenti guerrieri celesti, per il suo piano di conquista del potere supremo nell’universo. Ora stava ritornando vittorioso dalla sua battaglia contro suo fratello Kuvera, il tesoriere dei Deva. Ravana lo aveva costretto a ritirarsi e a cedergli il suo meraviglioso veicolo, noto in tutti i mondi come Pushpaka.

    Ravana, il senza paura e signore di tutti i demoni, osservava dal Pushpaka le foreste sottostanti. Erano immagini idilliache: fra gli alberi c’erano radure verdeggianti coperte di fiori e cespugli, con cascate d’acqua cristallina che bagnavano rocce colorate, e sugli altopiani risplendevano laghi pieni di fiori di loto e cigni, mentre le orde di Rakshasa li sorvolavano.

    Di tanto in tanto i demoni videro gruppi di Rishi, asceti bramini che abitavano quelle alte montagne praticando varie forme d’ascesi nell’adorazione dei Deva. Videro colonne di fumo che s’innalzavano tra gli alberi generate dai fuochi sacrificali accesi dai saggi. I Rakshasa, usando le loro magie, gettarono sangue, feci e urina sui fuochi per insozzare e corrompere i sacrifici, e poi scagliarono macigni e carboni ardenti che stritolarono e bruciarono i saggi seduti in meditazione. Infine i demoni scesero urlando e ruggendo, e squartarono i corpi dei Rishi, ne bevvero il sangue e ne divorarono le carni.

    Ravana ammirò il Pushpaka che si muoveva secondo il suo volere. Suo fratello Kuvera certamente soffriva molto per la perdita di quello splendido veicolo.

    Sembrava più una città dei Deva galleggiante nell’aria che non un veicolo normale. Lungo i suoi lati colonne d’agata, onice, diaspro e cristallo sostenevano palazzi d’oro intarsiati di corallo i cui piani spaziosi erano fatti interamente di pietre preziose e poggiavano su statue di tigri e leoni. Laghetti ricchi di bianchi fiori di loto, con statue di elefanti d’avorio e di Deva d’argento erano circondati da boschi di alberi artificiali, splendenti di foglie e frutti d’oro. E tutto il carro era decorato di festoni di perle e ghirlande di fiori celestiali, incrostato d’innumerevoli gemme, e ornato con sculture in oro di lupi, squali e orsi feroci. Volando nel cielo emetteva suoni celestiali e il profumo dei fiori di parijata, che solo i Deva conoscono. Mentre Ravana osservava lo splendido paesaggio pigramente seduto, notò una donna seduta in meditazione. Era molto insolito, perché le donne si vedevano assai raramente in quelle montagne. Qualche volta i Rishi avevano con loro le mogli, ma questa donna sembrava completamente sola. Ravana rallentò il suo carro, scendendo di quota per osservare meglio. Forse vi erano degli asceti nei dintorni e i suoi Rakshasa avrebbero potuto divertirsi un po’. E se la donna era così bella com’era sembrato a prima vista, avrebbe potuto divertirsi anche lui.

    Ordinò ai Rakshasa di fermarsi nel cielo, e scese dal suo mezzo. Vide la giovane asceta seduta in un prato soffice circondato da fiori selvatici. La donna splendeva di una luce dorata, le sue forme squisite e il seno abbondante erano coperti da una pelle di cervo nero. Ravana poteva vedere le cosce tornite attraverso la stoffa sottile che copriva le gambe incrociate. Aveva capelli ricci lunghi fino alla vita, che incorniciavano un viso dalla pelle chiara, e le rosse labbra si muovevano appena mentre intonava la sacra sillaba Om . Le braccia lisce e dorate erano nude, i palmi giunti, le ciglia lunghe e curve coprivano gli occhi semichiusi.

    La mente di Ravana era sopraffatta dalla lussuria. Chi era questa giovane signora, e cosa faceva in un posto così isolato? Aveva un protettore? Poco importava, lo avrebbe potuto sistemare. La foresta non era il posto giusto per questa fanciulla che avrebbe invece potuto essere un’ottima aggiunta alle sue altre mogli.

    Usando i propri poteri mistici Ravana prese forma umana, e si avvicinò alla ragazza. Parlò ad alta voce disturbando la sua meditazione. O bella fanciulla, chi sei? Perché fai pratiche ascetiche in questa regione solitaria? A chi appartieni? Chi è il tuo fortunato marito?.

    Il demone non sapeva resistere al fascino delle donne, e mentre guardava le attraenti forme della fanciulla si sentiva posseduto da un crescente desiderio. Rise ed attese la risposta.

    La fanciulla aprì gli occhi neri e guardò Ravana. Considerandolo come un ospite nel suo luogo d’eremitaggio, gli parlò rispettosamente, e gli disse di chiamarsi Devadati, la figlia di un famoso saggio figlio di Brihaspati, precettore degli dei. Con lo sguardo timidamente abbassato disse: Sono nata come un’incarnazione dei santi Veda. Si sono rivolti a mio padre molti Deva ed esseri celesti che mi volevano in sposa. Tuttavia nessuno tranne Vishnu, Signore di tutti i mondi, può divenire il mio sposo. Così io sono seduta qui, assorbita nel pensiero del mio signore, aspettando i suoi favori..

    Devadati aveva meditato per migliaia di anni. Il suo corpo, come quello dei Deva, non invecchiava e non aveva bisogno di sostentamento. E poteva capire con la sua visione interiore chi era Ravana e quali fossero le sue intenzioni. Con tono gentile disse che solo Vishnu poteva essere suo marito, e che questi, Signore inconcepibile, onnipotente e onniveggente, era la sua unica scelta. Non poteva appartenere ad altri, e Ravana doveva continuare per la sua strada. Ravana rise ancora, non si sarebbe lasciato sfuggire questo gioiello di donna. Sentendo il nome di Vishnu, suo nemico giurato, divenne solo più determinato. La voce del demone suonò come un tuono: Il tuo impegno di pratiche ascetiche va bene solo per le vecchie, o signora dalle amabili forme. Perché sprecare la tua gioventù fuggente in questo modo?Io sono Ravana, signore dei Rakshasa, la potente razza dei demoni. Divieni mia moglie e vieni a vivere nella mia capitale, Lanka, la città d’oro che ho strappato con la forza ai Deva. E chi è poi questo Vishnu?

    Ravana sparlava di Vishnu, pur sapendo che era il Signore dei Deva. Nulla importava al demone arrogante delle autorità universali. Brahma, il creatore dell’universo, lo aveva benedetto con dei doni per i quali in sostanza non poteva venire ucciso da alcuna creatura, Deva o demonio che fosse, e inoltre poteva assumere la forma che desiderava. Il fatto che Devadati avesse menzionato Vishnu non lo turbava per nulla. Rimase in piedi di fronte alla fanciulla con gli occhi pieni di desiderio. Sentendo Ravana irridere Vishnu, Devadati s’infuriò e lo rimproverò. Gli disse di lasciarla in pace per il suo stesso bene, altrimenti avrebbe incitato la furia potente della suprema divinità. Ravana sorrise: questa donna dallo spirito forte sarebbe stata per lui un’ottima moglie. Si avvicinò e la afferrò per i lunghi ricci. Subito Devadati recitò un potente Mantra sanscrito, che frenò temporaneamente l’attacco del demone e alzando una mano si recise i capelli grazie ai suoi poteri mistici. Il Rakshasa, sorpreso, arretrò mentre lei furibonda disse: "O essere malvagio, lascerò immediatamente questo corpo contaminato dal tuo tocco!

    Poiché mi hai insultato rinascerò per il solo scopo di distruggerti. Comparendo dalla terra, diventerò la figlia di un uomo pio. Tu e la tua razza sarete distrutti come effetto di questa rinascita.".

    Devadati chiuse gli occhi e meditò su Vishnu, vedendolo dentro il proprio cuore, e invocò il fuoco dentro di sé. Immediatamente il suo corpo fu consumato dalle fiamme, e dopo pochi attimi Ravana si trovò a guardare le sue ceneri. Deluso, e perplesso per le sue parole, risalì sul carro e continuò per la sua strada.

    Il demone con i suoi Rakshasa trascorse del tempo nelle montagne dell’Himalaya seminando terrore e sterminio fra gli asceti. Si avvicinarono alle regioni dell’estremo nord, dove si trova il monte Kailash, la dimora di Shiva. Quando il Pushpaka cominciò ad attraversare quel monte, di colpo si arrestò. Sorpreso, Ravana scese al suolo attorniato dai ministri che lo accompagnavano sul carro. Osservando il brillante paesaggio della montagna vide uno strano essere con la testa di scimmia.

    Era una creatura spaventosa, con una carnagione scura e giallastra e un corpo deforme, di bassa statura, tozzo, muscoloso e completamente rasato, con in mano una picca fosforescente, e guardava Ravana. Il demone gli urlò; Chi sei tu e dove ci troviamo? Perché sono stato fermato?

    Sono Nandi, il servo di Shiva replicò lo strano essere. Sei arrivato alla dimora di Shiva, vietata a tutte le creature. Non potrai passare questa montagna. Quindi vai indietro e tornatene là da dove sei venuto..

    Ravana, guardando lo strano corpo di Nandi rise forte e parlò con voce canzonatoria: Perché dovrei ascoltarti, essere dal volto di scimmia? E comunque chi sarebbe questo Shiva?

    Sentendo insultare il suo signore, Nandi s’infuriò e alzando la picca che ora emetteva lingue di fuoco, esclamò: O Rakshasa, dovrei ucciderti adesso, ma non lo farò poiché ti sei già ucciso con i tuoi peccati. E ti dico che, poiché mi disprezzi nella mia forma scimmiesca, in terra nasceranno numerose scimmie forti e terribili che stermineranno la tua razza.

    Mentre Nandi parlava risuonarono in cielo i tamburi celesti, e piovvero fiori. Gli occhi di Ravana fiammeggiarono d’ira, e ignorando la maledizione ruggì: Toglierò questa collina dalla mia strada! Che me ne importa di te e del tuo padrone?.

    Subito il Rakshasa affondò le sue venti braccia nel fianco del monte, e lo strappò da terra con violenti strattoni sollevandolo lentamente.

    Il monte tremava e Parvati, la moglie di Shiva si aggrappò al marito. Shiva la rassicurò: Non aver paura, questa è l’opera di Ravana, quel demone vanitoso. Me ne occupo subito, non ti può fare del male.

    Gli occhi di Parvati si arrossarono per la rabbia, e disse al possente marito: Poiché questo disgraziato ha spaventato una donna con la sua violenza, una donna sarà la causa della sua morte..

    Shiva si alzò e con l’alluce schiacciò il monte e subito Ravana sentì una pressione insopportabile. Le sue braccia, che sembravano delle gigantesche colonne che sostenevano la montagna, furono schiacciate, ed egli mandò un urlo tremendo che terrorizzò tutti gli esseri dei tre mondi, cielo, terra e inferi. Intrappolato dal peso della montagna non poteva più muoversi.

    Allora i suoi ministri gli si avvicinarono e gli consigliarono di placare Shiva. Abbiamo saputo che è facile compiacere questo onnipotente. Offrigli preghiere e chiedigli pietà. Sicuramente ti si mostrerà indulgente..

    Ravana, che aveva studiato tutte le scritture, si mise a recitare degli inni dal Samaveda, in gloria di Shiva. Tuttavia dopo cent’anni era ancora intrappolato, e pur soffrendo dolori remendi, continuava a pregare e lodare Shiva, che finalmente s’intenerì e tolse la pressione. Shiva apparve davanti al demone e gli parlò dolcemente. O essere dalle dieci teste, ho gradito le tue preghiere. Non essere più così sconsiderato. Vai ora, ovunque tu desideri..

    Ravana s’inchinò al dio che gli era di fronte. Col suo famoso tridente, la falce di luna sulla testa, e un gran serpente attorno al collo blu, lo guardava con i suoi tre occhi. Ravana gli si rivolse a mani giunte: Mio signore, se ti ho veramente soddisfatto, per favore concedimi la tua arma..

    Shiva sorrise. La passione per la battaglia di Ravana lo avrebbe presto distrutto. Disse: Così sia!, alzò la mano per benedirlo e svanì. Ravana sentì entrare nella sua mente i Mantra per evocare il Pashupata, la potente arma di Shiva e sorrise. Chi avrebbe mai resistito a un tale potere? Egli stesso non aveva potuto sopraffare Shiva. Gli era sicuramente valsa la pena di adorare questo gran dio.

    Ravana salì sul Pushpaka che lo aveva aspettato sospeso nel cielo per tutto il tempo della sua prigionia. Non potendo andare a nord si diresse a sud col suo numeroso esercito di Rakshasa. Attraversò la terra cercando altre battaglie, e giunse ad Ayodhya, capitale del mondo degli umani. Vi abitava l’imperatore della terra, e Ravana pensò che sopraffacendolo avrebbe soggiogato tutta la terra.

    Ravana non era molto interessato agli affari degli uomini (i Rakshasa appartenevano a una razza superiore, a un livello simile ai Deva) ma desiderava dominare tutti gli esseri viventi. L’esercito dei Rakshasa circondò la città, sfidando l’imperatore.

    Si scatenò una furiosa battaglia fra l’esercito di Ravana e quello del re di Ayodhya, Anaranya. Entrarono in campo decine di migliaia di carri ed elefanti, e centinaia di migliaia di fanti, e sui demoni piovvero piogge di frecce, come sciami d’api nere. L’esercito di Anaranya scagliò lance, dardi, proiettili d’acciaio e mazze di ferro a milioni, e si slanciò coraggiosamente contro il nemico ad armi levate.

    Le forze di Ravana usarono la stregoneria per sparire e apparire a volontà, volando in cielo e gettando pietre e armi affilate. L’esercito del re rispose con rapidi lanci di frecce mortali, usando le catapulte per lanciare enormi dardi d’acciaio che sibilarono nell’aria. Ma i guerrieri di Anaranya non riuscirono a impegnare facilmente quei demoni sfuggenti, quando si fecero sotto roteando le loro spade tagliarono solo l’aria mentre i Rakshasa si alzarono in cielo, e da lì piombarono dietro di loro e li falciarono con le loro scimitarre affilate come rasoi.

    Inesorabilmente i demoni sopraffecero l’esercito del re. Il campo di battaglia si coprì dei corpi maciullati dei soldati di Anaranya, il sangue scorse a fiumi, le teste rotolarono con gli orecchini d’oro rilucenti e i denti serrati in ghigni furiosi, braccia muscolose con lance e spade ancora impugnate caddero tra le budella dei soldati squartati mentre i demoni urlanti distruggevano l’armata del re.

    Anaranya dimostrò un gran valore. Conosceva i segreti delle armi celesti, e invocando quegli strumenti divini uccise innumerevoli Rakshasa. Quando i demoni si nascondevano con la stregoneria, usò la Shabda, l’arma del suono che li trovava ovunque fossero, e quando questi lo attaccarono in massa rilasciò l’arma del vento che li sollevava e scaraventava lontano. Era difficile guardarlo mentre in piedi sul suo carro scagliava le sue armi, che colpivano i Rakshasa come meteore fiammeggianti. I demoni però erano molto più numerosi degli umani, e benché fossero duramente impegnati dal re risposero con più magie, sparendo nel cielo e nascondendosi dentro la terra. Infine le schiere di Ravana distrussero completamente i loro nemici, e Anaranya rimase solo di fronte ai demoni.

    L’imperatore, viste le sue forze distrutte come falene in un fuoco, s’infuriò e affrontò Ravana che era rimasto sul suo carro mentre i suoi Rakshasa combattevano con i soldati. Dal suo rande arco gli scagliò contro ottocento frecce che volarono come lingue di fuoco. Queste frecce, per gli incantesimi di Anaranya, erano cariche della potenza dei fulmini, e furono lanciate così rapidamente che volarono in una linea quasi continua dalla prima all’ultima, e colpirono Ravana alle teste e al torace con scoppi di tuono.

    Ma il demone non vacillò, e infuriato dall’attacco improvviso impugnò una mazza terrificante, la roteò sopra la testa con tale forza da renderla arroventata e fiammeggiante, e la lanciò come una tempesta verso l’imperatore assestandogli un colpo tremendo alla fronte. Il re cadde dal carro sanguinando, e il Rakshasa sghignazzando lo irrise. A che scopo combattere con Ravana? Nessuno mi può affrontare in battaglia e rimanere vivo. È chiaro che tu sei uno sciocco, troppo dedito al vino e alle donne, altrimenti avresti saputo della mia potenza indistruttibile..

    E Ravana continuò a insultare il re morente, schernendo il suo casato plurimillenario d’imperatori della terra. Anaranya guardò il demone con occhi rossi di rabbia, e rantolando mentre la sua vita scivolava via, a stento disse: Non tu mi hai ucciso, o vile Rakshasa. La morte è certa e colpisce tutti gli esseri secondo il loro destino. Nessuno può essere ucciso prima che lo decida il destino, e nessuno può essere salvato quando giunge la sua ora. Così io sono ucciso dal mio destino. Non gloriarti inutilmente, o Ravana, perché la tua morte arriverà presto..

    L’imperatore possedeva dei poteri mistici che aveva acquisito con le sue lunghe pratiche ascetiche, ed era riluttante a sprecarli su Ravana, ma voleva fare almeno qualcosa prima della sua dipartita. Fissandolo con lo sguardo velato, e concentrando la sua mente gli scagliò una maledizione. Da quel casato che tu oggi schernisci, o Ravana, nascerà presto un re che ucciderà te e tutta la tua razza!.

    Mentre Anaranya parlava si udì risuonare nel cielo il suono dei tamburi, una pioggia di fiori celesti cadde su di lui e si udirono voci paradisiache proclamare. Così sarà!. E con questa maledizione l’imperatore si accasciò, la sua vita finita, e davanti agli occhi del demone lasciò il suo corpo. La sua forma eterea si alzò verso il cielo splendendo come il fuoco.

    Ravana sbuffò con scherno, che gli importava della maledizione di un essere insignificante? Quale essere umano avrebbe mai potuto ucciderlo? Combatteva con loro solo per divertimento. La maledizione di Anaranya era solo la folle parola di un uomo morente, non si sarebbe mai avverata, e se un re avesse osato sfidarlo avrebbe fatto la stessa fine. E per quanto riguardava le voci celesti, presto si sarebbe occupato di quei Deva arroganti.

    Il demone risalì sul Pushpaka sospeso in cielo e disinteressato al misero bottino della città degli uomini, partì rombando verso il cielo. Forse avrebbe potuto trovare dei Deva con cui ingaggiare una battaglia più avvincente. Salì verso i pianeti celesti abitati dai Deva principali, ma questi fuggirono rapidamente non volendo incontrarlo in battaglia. Essi sapevano dei poteri dati al demone da Brahma, e non aveva senso incontrarlo in battaglia, e pregando Vishnu, si nascosero spaventati.

    Ravana decise di riposare in cielo per un po’. Andò ad Amaravati, la città di Indra, re dei Deva. Nei Nandana, i giardini celesti, vide un’Apsara, una ninfa di nome Rambha, dal viso luminoso e di gran bellezza, adorna di ghirlande e gioielli splendenti, gli occhi incantevoli e i fianchi pieni e ondeggianti. Ravana occhieggiò i seni grandi e rotondi e le cosce tornite. Vedendosi osservata dal demone, con le mani delicate come petali di rosa, si strinse il vestito azzurro attorno al corpo.

    Ravana assunse una splendida forma divina, nascondendo il suo terribile aspetto a dieci teste, balzò in piedi e le si avvicinò. La prese per mano, e pieno di desiderio le sorrise: Chi sei e dove vai, mia bella signora? le chiese, chi godrà oggi del nettare delle tue soffici labbra rosse? Chi sarà benedetto dal tocco del tuo seno? Quale uomo fortunato giacerà stretto a te, la sua mente estasiata dai piaceri della carne?

    A Ravana non importava che lei fosse sposata o ragazza, aveva già rapito ovunque mogli di Deva, Gandharva e demoni per portarle a Lanka nel suo palazzo. Il Rakshasa era abituato a far quello che gli pareva, e parlava a Rambha solo nel tentativo di conquistarla, lodando la sua divina bellezza e vantando il suo potere e la sua gloria. Quale donna avrebbe rifiutato l’opportunità di divenire la consorte del potente Ravana?

    La bella ragazza non accettò le sue proposte e si ritrasse, i suoi braccialetti caddero a terra mentre si divincolava dalla sua presa. Giungendo le mani e con lo sguardo abbassato sgridò il demone. Per favore non parlare in questo modo, o Ravana, sono come tua figlia e quindi devo avere la tua protezione. E sono la moglie di un altro..

    Rambha gli disse che era sposata con un Deva, Nalakuvara, figlio di Kuvera, fratello di Ravana, ed essendo quindi parente di Ravana non poteva essere oggetto delle sue profferte amorose.

    Ravana rise fragorosamente, non aveva alcun rispetto per tutti i codici morali. Si tolse la tunica di seta rossa, mostrando il corpo immenso e luminoso e rincorse Rambha che fuggì per nascondersi dietro ad un cespuglio dorato. La fanciulla tentò di sfuggirgli correndo qua e là, con le collane e le ghirlande che ballonzolavano, ma fu inutile. Rambha gridò chiedendo aiuto, ma vedendo il feroce Rakshasa nessuno osò intervenire. Ravana afferrò Rambha, la stese su una roccia e le strappò i vestiti. Con le sue mani potenti il demone bloccò le bianche braccia della fanciulla, le fece cadere i capelli strappandole fiori ed ornamenti, e con gli occhi dilatati dal piacere la violentò selvaggiamente di fronte ai suoi demoni, malgrado le sue proteste e le sue preghiere, contro la sua volontà.

    Saziati i suoi lascivi appetiti, Ravana si alzò e si rivestì, e Rambha piangendo, con le vesti strappate e le ghirlande schiacciate, si rialzò e fuggì dal marito. Vedendola in quelle condizioni Nalakuvara s’infuriò, ma quando seppe che il violentatore era Ravana si sentì impotente. Il demone aveva già sconfitto il suo potente padre, pur spalleggiato da innumerevoli guerrieri Yaksha, e non era possibile affrontarlo in battaglia. Nalakuvara esaminò attentamente la situazione. Non poteva affrontare Ravana in battaglia, ma almeno lo avrebbe maledetto per la sua azione malvagia. Vishnu, con i suoi poteri infallibili, accoglieva le giuste maledizioni dei Deva, e Nalakuvara, ritenendo questo l’unico modo per punirlo, toccò dell’acqua consacrata e pronunciò la sua imprecazione.

    Il maligno Rakshasa ha violato una signora celestiale. Se mai violenterà un’altra donna, cadrà morto all’istante..

    Ravana venne presto a sapere della maledizione, ne aveva sentite molte, pronunciate da Deva e da Rishi, e una volta pronunciate non potevano essere tolte. Benché non gli piacesse ammetterlo, sapeva che forze potenti mantenevano l’ordine e le leggi universali, e ritenendo possibile che le parole di Nalakuvara fossero efficaci, decise di non forzare mai più una donna. Meglio non rischiare, dopotutto vi erano abbastanza donne desiderose di accettarlo. Deluso per non aver trovato Deva da combattere, Ravana lasciò i pianeti celesti e si diresse verso il quarto meridionale dell’universo dove abitavano i Danava e i Daitya, i più potenti demoni celesti. Sicuramente questi avrebbero accettato la lotta. Chi altro restava da sconfiggere?

    Dal Pushpaka in volo avvistò Narada, il profeta cosmico, luminoso e scintillante, che pizzicava dolcemente le corde della tambura, il suo strumento musicale, cantando le lodi di Vishnu. Ravana lo aveva già incontrato molte volte, ed era contento di rincontrarlo, anche se di solito aveva poco tempo per i saggi, particolarmente quelli devoti a Vishnu. Preferiva ucciderli e mangiarseli piuttosto che parlare con loro. I Rishi e i profeti in genere erano favorevoli ai

    Deva, ma Narada era diverso, e aveva spesso dato a Ravana dei buoni consigli, sembrava un suo sostenitore. Il demone alzò una mano per salutarlo.

    Il profeta si avvicinò a Ravana e rispose al saluto. Narada poteva viaggiare liberamente in tutto l’universo, e si diceva che potesse perfino lasciare il mondo materiale per andare a Vaikuntha, la dimora spirituale del Signore, libera dal decadimento e priva di sofferenza. Narada sorrise a Ravana. Aveva occhi come grandi zaffiri e capelli d’oro avvolti sulla testa e fermati con una spilla d’argento, ed era vestito con la soffice pelle di un cervo nero (renku). Ravana lo invitò sul carro e Narada sedutosi a gambe incrociate su di un sedile d’oro, si rivolse al demone con toni affabili e gentili.

    O valoroso, perché perseguiti il mondo degli uomini che già è nelle grinfie della morte? Quella gente non si merita di essere attaccata da te, che non puoi essere sconfitto nemmeno da tutti gli esseri celesti uniti insieme. Perché tormentare gente perseguitata dall’ansia, colpita da calamità senza fine, preda della vecchiaia e delle malattie?.

    Narada disse a Ravana che gli abitanti del mondo materiale dovevano andare a loro tempo nella dimora di Yamaraja, il grande signore della morte, che tutti conquista. Persino i Deva alla fine gli soccombono. Se Ravana avesse sconfitto Yamaraja avrebbe conquistato l’universo. Il saggio sapeva che Ravana non poteva vincere Yamaraja, ma voleva distrarre il demone dal suo malefico progetto di uccidere altra gente e rovesciare i Deva, e indurlo a commettere altre azioni peccaminose attaccando il dio della morte. Così Ravana si sarebbe creato un destino karmico che presto lo avrebbe portato alla sua fine.

    Il demone considerò l’interessante proposta di Narada, lo attraeva l’idea di combattere il potentissimo Yamaraja. Forse questa era una battaglia degna di lui, e se avesse trucidato la morte, l’universo intero sarebbe precipitato nel caos! Ravana, che voleva imporsi su tutti i poteri dell’universo, ne era affascinato. Annuì lentamente a Narada che gli sorrideva, e gli disse che sarebbe partito subito per la dimora della morte. E mentre il profeta si alzava nel cielo suonando il tambura partì verso il dominio di Yamaraja, il signore della giustizia.

    Avvicinandosi alla regione eterea di Yamaloka, vide gli esseri viventi che raccoglievano i frutti delle loro azioni, e milioni di servi e soldati di Yamaraja, noti come Yamaduta dall’aspetto feroce e inavvicinabile dai corpi forti ma deformi, repellenti e irsuti. Impugnavano cappi e altre armi terribili, le facce contorte in espressioni spaventose, gridavano con voci stridenti, e muovendosi veloci, colpivano e torturavano la gente che turbinava attorno.

    Spaventose grida echeggiavano in quelle lande scure e desolate. Centinaia, migliaia di persone erano divorate da cani feroci, bruciate dalle fiamme o scaraventate in vasche di olio bollente, altri uomini e donne correvano sulle sabbie roventi inseguiti dai tridenti e dalle lance degli Yamaduta, e altri erano trascinati attraverso cespugli dalle foglie affilate come rasoi che gli laceravano il corpo. Cadevano a terra gridando di dolore, ma i loro corpi tornavano integri, si rialzavano e fuggivano, ma gli Yamaduta li riacchiappavano e li sottoponevano nuovamente alle torture.

    Continuando nella sua ricerca di Yamaraja, Ravana giunse in altre regioni e vide gente che godeva di piaceri celestiali come premio delle loro buone azioni. Sembrava che costoro abitassero in una dimensione dello spazio e del tempo del tutto separata, con meravigliosi paesaggi paradisiaci a perdita d’occhio, grandi palazzi scintillanti vicino a laghi azzurri. Giovani uomini e donne di grande bellezza vestiti di stoffe d’oro e ingioiellati si abbracciavano ridendo. Tutto intorno vi erano tavoli d’oro e d’argento pieni di cibi e bevande sontuose, con musici e ragazze danzanti.

    Ravana passò oltre penetrando nel regno di Yamaloka, attraversò il Vaitarani, fiume di sangue ed escrementi, dove altri Yamaduta perseguitavano urlando gente malvagia, accompagnati dai latrati di lupi e sciacalli. Qui la gente appariva pallida ed emaciata, afflitta da sete tremenda. Ravana scese dal carro e cominciò ad attaccare gli Yamaduta, liberando i dannati, non per compassione ma per provocare la reazione di Yamaraja.

    A quel punto una folta schiera di Yamaduta lo attaccò con lance, mazze ferrate, giavellotti e picche, demolendo seggi, baldacchini, colonne e palazzi sul Pushpaka, ma questo si rigenerò subito per il potere di Brahma da cui era stato creato.

    I Rakshasa di Ravana contrattaccarono le armate dei Yamaduta che avanzavano in ondate di milioni scagliando infinite frecce e altri terribili proiettili su Ravana e i sui seguaci. I Rakshasa ingaggiarono battaglia con gli Yamaduta lanciando feroci grida di battaglia, e il clamore delle armi e le grida dei guerrieri creavano un frastuono simile ad un mare in tempesta.

    Gli Yamaduta evitarono i Rakshasa e si concentrarono su Ravana, che, coperto di frecce, sanguinava profusamente, sembrando una grande montagna con fiumi di lava. Con le sue conoscenze delle armi mistiche, il demone rispose con lanci di frecce, mazze, rocce, ed enormi alberi. Gli Yamaduta si difesero respingendo questi proiettili roteando le mazze e le lance, e lo circondarono a migliaia, come formiche carnivore attorno ad un grosso scarabeo. Ravana era coperto di frecce e lance in tutto il corpo, ruggì per il dolore e la rabbia, si sollevò in volo e ridiscese piazzando una freccia fiammeggiante nel suo arco, e invocando il potere di Shiva caricò la freccia della forza divina di quel dio immortale. E quest’arma creò una cortina di fuoco, con grandi fiamme roventi e incenerì gli assalitori. Anche la terra si sciolse, e gli Yamaduta superstiti si ritirarono in una massa confusa.

    Con le fiamme arrivarono infiniti spettrali seguaci di Shiva che riempirono la terra e il cielo con le loro forme terrificanti, riempiendo di terrore il cuore degli Yamaduta, e ondate di belve carnivore ululanti sorsero dalla terra azzannandoli e sbranandoli.

    Il grido di vittoria di Ravana raggiunse Yamaraja sul suo trono, lasciandogli capire che le sue forze venivano sopraffatte dal demone.

    Il grande dio si adirò e mandò a prendere il suo splendido cocchio e vi salì impugnando mazza e lancia. Ad un fianco vi era Kaladananda, l’infallibile falce della morte fatta a persona, dal corpo nero brillante e dagli occhi rossi di fuoco e all’altro fianco lo spirito del tempo, il distruttore dei mondi, dall’aspetto terribile. Queste tre divinità unite erano inattaccabili, e dai quattro lati del loro carro, che sembrava una montagna scura, pendevano i terribili cappi della morte.

    Il veicolo superiore era trainato da migliaia di luminosi destrieri rossi e neri, avanzava con un fragore tremendo, e alla vista di questo dio infuriato gli abitanti dei cieli tremarono.

    In un attimo il carro di Yamaraja raggiunse Ravana, e alla sua vista i demoni fuggirono terrorizzati in tutte le direzioni, e alcuni di loro svennero. Ravana non ebbe paura, anzi, vedendo questo terribile avversario si sentì colmo di gioia in vista della battaglia. Rimase a pié fermo mentre Yamaraja gli scagliava contro giavellotti fiammeggianti e mazze di ferro che lo colpirono con terribile forza ferendolo e facendolo sanguinare copiosamente.

    Ravana sollevò l’arco per contrastare l’attacco di Yamaraja, e con la stregoneria lanciò migliaia di dardi con la forza del fulmine che colpirono Yamaraja in tutto il corpo, ma il dio rimase immobile, imperturbato. E nonostante il demone continuasse a lanciare i suoi dardi carichi di energia cosmica, i tre Deva rimasero fermi. Yamaraja rispose col lancio di migliaia di lance rostrate che colpirono Ravana violentemente al petto e questi, stordito dai colpi cadde svenuto. Yamaraja, seguendo le regole del combattimento leale cessò il suo attacco. Dopo un po’ di tempo Ravana rinvenne e pensò alla prossima mossa. Questo era davvero un nemico formidabile, gli era capitato raramente di doversi impegnare così. Si riprese e piegò l’arco al massimo scagliando frecce che riempirono il cielo e colpirono Yamaraja come feroci

    serpenti. Yamaraja, sanguinante e furioso aprì la bocca, e ne uscirono fiamme e fumo che illuminarono quella regione buia come se fosse sorto il sole.

    I Deva si affollarono a guardare quella terribile lotta, temendo la fine del mondo. La rabbia di Yamaraja avrebbe certamente potuto distruggere tutto l’universo.

    Mentre Ravana continuava a lanciare le sue armi, la morte personificata disse a Yamaraja: Mio signore, non ti sprecare inutilmente. Lasciami solo con questo Rakshasa e lo distruggerò rapidamente. Nessuno finora, per quanto potente, ha mai potuto avere ragione di me. Deva, Rishi e demoni hanno sempre ceduto al mio potere, così come ogni creatura vivente. Su questo non c’è dubbio, e quindi non ti devi preoccupare più di questo disgraziato, lascialo a me..

    Yamaraja si era infuriato per l’insolenza di Ravana, si sentiva insultato e disse alla morte di stare indietro, si sarebbe occupato lui di distruggere il demone. Alzò la mazza che emise un alone di fiamme ruggenti come il sole e guardò Ravana, pronto a colpirlo A quel punto apparve Brahma, visibile solo a Yamaraja e gli parlò così: O potente Deva, non ucciderai ora questo Rakshasa. Io gli ho conferito il dono per cui non può venire ucciso da altri che gli umani, e questo non si può cambiare a meno di mandare nel caos l’ordine dell’universo. Quindi abbassa la tua mazza, il destino di Ravana non è di morire ora. Se tu lo uccidessi morirebbero tutte le creature dell’universo..

    Sentendo l’ordine di Brahma, capo dei Deva, Yamaraja svanì dalla vista di Ravana, che vedendolo scomparire pensò di avere vinto e lanciò un ruggito di gioia. Adesso era certamente l’essere più potente dell’universo, che restava da provare? Aveva messo in fuga anche il grande signore della morte.

    Si guardò intorno e vide che gli Yamaduta che aveva ucciso erano stati resuscitati da Yamaraja e avevano ricominciato il loro triste compito di somministrare le punizioni ai dannati. Ravana sentiva di non aver più nulla da fare a Yamaloka, avendo stabilito la sua supremazia. Era tempo di tornare a Lanka, la sua città d’oro. Salì sul Pushpaka e lasciò la regione seguito dai suoi, e volò verso nord verso il pianeta Terra, dove si trovava Lanka.

    Capitolo Primo

    Il desiderio di re Dasarath

    Re Dasarath camminava su e giù sul balcone del suo palazzo. Era pensieroso, con la fronte aggrottata, e si guardava intorno. Il cortile interno era affollato di principi e re feudali con le loro corti, venuti a pagare tributo. Dalla terrazza del settimo piano si poteva vedere gran parte della città che si estendeva verso l’orizzonte in tutte le direzioni. Le strade erano ben disegnate, fra giardini e boschetti di manghi, e la via principale, lastricata in pietra rossa, piena di fiori e profumi, percorreva tutte le cento miglia della città fra grandi palazzi su cui sventolavano stendardi colorati. Sopra la città il re poteva vedere gli aerei dorati delle Apsara, le consorti dei Deva.

    Dasarath, profondamente angosciato, diede un ultimo sguardo alla capitale, Ayodhya, e rientrò. Mentre scendeva lentamente per la scalinata di marmo sentì i suoi sacerdoti cantare i sacri testi sanscriti, accompagnati armoniosamente dai musicisti reali con liuti e tamburi, ma quello che di solito gli dava tanta gioia non lo calmò.

    Entrò nelle sue stanze private lasciando le guardie personali alla porta, rifiutò il cibo e le bevande offerte dalla servitù, andò alla finestra, aprì le tende di seta e di nuovo guardò la città. Ayodhya era stata costruita da Manu, figlio di Surya, l’onnipotente Deva del sole. Manu era stato il primo della dinastia degli imperatori dell’universo. Al pensiero della sua lunga lista di antenati il re sentì ancora più dolore, e sospirando lasciò la finestra.

    Le tre regine, vedendolo così angosciato provarono a consolarlo, mettendolo a sedere su di un divano d’oro e gemme, coperto di cuscini di seta. La sua prima moglie, Kaushalya, gli massaggiò gentilmente i piedi mentre Sumitra e Kaikeyi gli facevano aria con bianchi ventagli di chamara.

    Il re osservò le squisite statue dei Deva che ricoprivano le pareti. Tutta la vita aveva fatto moltissimo per compiacerli, andando perfino a combattere i demoni celesti per conto loro. Era certo che lo avrebbero aiutato, e li pregò in silenzio.

    In quel mentre un messaggero gli annunciò che il sommo sacerdote, Vasishtha, lo aspettava nella sala delle assemblee. Il re, che aspettava questa notizia, si alzò, e a gran passi si diresse alla sala. Gli si unirono i ministri, tutti eroi di guerra, saggi e colti veterani di battaglie, che amministravano un regno tranquillo, dove tutti avevano un lavoro e la criminalità era limitata e controllata. I ministri, fedeli a Dasarath, conoscevano il problema che affliggeva il re.

    Entrarono nella grande sala che rivaleggiava con quella di Indra, re dei Deva. Enormi colonne di marmo reggevano il soffitto che pareva alto fino al cielo, e attorno vi erano file di palchi di alabastro e corallo lavorati con filigrana d’oro con sedili anch’essi d’oro con cuscini di seta bianchi. Grandi arazzi di seta incrostati di lapislazzuli e altre gemme, descrivevano i giochi dei Deva. L’aria era profumata d’incenso, e al centro della sala i sacerdoti cantavano le preghiere delle sacre scritture antiche, invocando la presenza dei Deva. Il rullio profondo di un enorme tamburo risuonò e accompagnò il re al suo trono, mentre tutti in piedi gridarono: Sia gloria all’imperatore Dasarath! E il re, che sembrava un dio, si sedette sul grande trono d’oro fino, coperto di brillanti gemme celesti.

    Un silenzio d’attesa cadde nella sala mentre Dasarath si preparava a parlare. I cittadini conoscevano il cruccio del re, lo amavano come un padre e ne condividevano l’ansia. Nella sala erano raggruppati per classe, i bramini davanti, con semplici vesti, al loro fianco i guerrieri vestiti di seta e ornamenti d’oro, e lunghe spade alla cintura, vicino a loro i mercanti con i

    loro indumenti colorati, e dietro i servitori e i lavoratori, essi pure splendidamente vestiti. Tutte le classi sociali erano rappresentate.

    Dasarath guardò tutti affettuosamente sorridendo, preoccupato ma attento. Pose le mani sullo scettro d’oro e si rivolse a Vasishtha, che gli era seduto vicino. Disse con voce tonante: Ho convocato quest’assemblea per affrontare una mia grande preoccupazione. Come sapete questa terra immensa è stata governata per lunghissimo tempo dai famosi re della mia stirpe. O gran saggio, questa storia gloriosa dovrà finire? Cosa posso fare per continuare questa dinastia?.

    Per migliaia di anni era stato l’imperatore indiscusso della terra. Il suo tempo stava terminando, e non aveva un figlio come erede e successore. Nessuna delle sue mogli aveva messo al mondo un maschio, e il re aveva convocato l’assemblea per proporre un’idea che andava considerando. Voleva l’approvazione dei bramini e il consenso del popolo. Guardò con ansia Vasishtha, che era anche suo precettore e continuò: O sapiente, tu conosci i pericoli di un regno senza monarca. Come posso ritirarmi nella foresta lasciando questo mondo senza un protettore?

    Vasishtha, circondato da saggi bramini, ascoltò Dasarath con la mano sulla staffa, guardando l’imperatore illuminato dalla luce dorata del sole che filtrava dalle vetrate, e, luminoso lui pure per il suo potere mistico, rispose: O imperatore, non dubito che presto avrai la benedizione di un figlio forte che ti potrà succedere. Recentemente Sanat Kumar, il saggio immortale errante, mi ha detto che i Deva stanno preparando uno schema divino di cui tu beneficerai.

    Vasishtha viveva in un eremo fuori della città, ed era spesso visitato da saggi e mistici erranti, e qualche giorno prima aveva parlato con Sanat Kumar, il famoso veggente dall’apparenza di ragazzo, che gli aveva detto che di lì a poco l’imperatore avrebbe avuto quattro figli robusti, incarnazioni divine che avrebbero compiuto i voleri dei Deva. E Vasishtha continuò. I bramini hanno pregato il Signore per tuo conto, o monarca, e abbiamo visto nel cielo segni di buon auspicio. Appare chiaro che il Supremo realizzerà attraverso di te un suo grande piano..

    Il re provò una gran gioia a queste parole. Religioso come tutti i suoi antenati, mai aveva mancato ai suoi doveri, e il mondo aveva avuto pace e prosperità. Egli curava non solo il benessere materiale del suo popolo, ma anche quello spirituale, guidando tutti sulla strada della verità e della compassione, verso la liberazione dal ciclo della nascita e della morte.

    Gli abitanti della terra erano per lui come figli e voleva che il loro benessere continuasse anche dopo il suo ritiro. Disse: Ho pensato al sacrificio di un cavallo per compiacere Vishnu e i Deva. O nobili saggi, potrà avere successo? Posso così soddisfare il Signore e ottenere ciò che desidero?

    Dasarath sapeva che non si può ottenere nulla senza il beneplacito di Vishnu, il Signore Supremo. I Deva, malgrado governassero l’universo, erano solo suoi agenti. Molte volte nel passato gli antenati di Dasarath avevano compiuto grandi sacrifici per il Signore ottenendo ciò che avevano chiesto, e ora il re pensava che fosse la sua ultima risorsa. Guardò speranzoso Vasishtha che si era consultato con gli altri saggi. Questi gli si rivolse: Siamo d’accordo, o tigre d’uomo, si faccia il sacrificio! Prepareremo il terreno sulle rive del fiume Sarayu, e così tu avrai un figlio..

    L’assemblea scoppiò in grida di gioia: Così sia, che il sacrificio abbia inizio!.

    Il re felice nell’anticipazione dell’adempiersi del suo desiderio disse a Vasishtha: I preparativi abbiano inizio oggi. Il cavallo sacrificale, protetto da quattrocento dei miei migliori guerrieri farà il giro del mondo..

    Dasarath diede le necessarie istruzioni e si ritirò con le mogli a pregare Vishnu e i Deva per la riuscita del sacrificio.

    Tutta la città era in fermento per la notizia. Nelle piazze i menestrelli cantavano le imprese degli eroi degli antenati di Dasarath che le danzatrici rappresentavano coi gesti precisi delle loro danze. I templi erano pieni di gente in preghiera, e dai balconi delle case i ricchi lanciavano ai bramini gioielli che scintillavano sulle strade lastricate, e la musica di liuti, trombe e tamburi accompagnava i canti dei sacerdoti. Colle bandiere e gli stendardi al vento, i festoni fra le case, i fiori, sembrava ci fosse un festival dei Deva nei cieli.

    I sacerdoti prepararono il sacrificio, scegliendo un cavallo di razza purissima e privo di difetti. Lo lasciarono andare libero, protetto da quattrocento forti guerrieri dell’esercito del re. Secondo il rituale, ovunque il cavallo si recasse, il governatore locale era invitato al sacrificio e a rendere omaggio a Dasarath. Chiunque si fosse rifiutato sarebbe stato immediatamente sfidato a combattere, e il sacrificio avrebbe potuto continuare solo colla sua sottomissione. In ogni modo nessuno era contro Dasarath, e il cavallo tornò senza incidenti dopo un anno.

    Dasarath allora convocò Vasishtha, gli toccò i piedi e gli chiese in tutta umiltà: O santo, se ritieni che sia il momento adatto ti prego di dare inizio al sacrificio. Tu sei il mio più caro amico oltre che il mio maestro, sei un’anima eccelsa, e affidandomi a te sono sicuro del successo..

    Dopo aver rassicurato il re, Vasishtha istruì i sacerdoti per la preparazione dell’arena sacrificale. Fra questi spiccava Rishwashringa, potente

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