Delitto al simposio
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Demo di Alopece, in una imprecisata alba di Giugno Socrate esce da casa e fa un'amara scoperta.
Alla base dell'erma scorge il cadavere di Aulone di Melite, discepolo di fresca data.
Inizia una investigazione pericolosa nel torbido e spietato regime dei Trenta Tiranni, da due mesi al potere, sostenuto da Sparta vincitrice della Guerra del Peloponneso.
Gli oppositori rimasti rischiano la confisca dei beni e la stessa vita.
Nel delitto, Socrate ravvisa indizi che lo condurranno verso i padroni di Atene.
Gli ci vuole poco per capire che Aulone è stato ucciso a un simposio e trasportato nella dimora del maestro.
I simposiasti verranno interrogati dal filosofo di Alopece, coadiuvato dal valente discepolo Platone.
Il percorso investigativo è cosparso da agguati e aperte minacce in un'Atene gremita dal prepotere di pitocchi, sicofanti e schiavi nei ruderi di un dimenticato splendore.
I due eminenti filosofi-detective troveranno il tempo tra i pericoli di una conversazione filosofica, che rispecchia il loro più autentico pensiero.
L'epilogo si concluderà con i colpevoli costretti a confessare il delitto, e già presaghi della loro fine imminente.
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Anteprima del libro
Delitto al simposio - Gilberto Delpin
Gilberto Delpin
Delitto al simposio
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Indice dei contenuti
PERSONAGGI PRINCIPALI
GLOSSARIO
Parte 1
Parte 2
Parte 3
Parte 4
POST SCRIPTUM
Una vita senza ricerche non è degna di essere vissuta.
Platone
Apologia di Socrate
GILBERTO DELPIN
DELITTO AL SIMPOSIO
Giallo storico ambientato ad Atene, nel mese di Sciroforione, durante l'arcontato di Pitodoro.
(404 – 403 A.C.)
PERSONAGGI PRINCIPALI
SOCRATE | SANTIPPE
filosofo | moglie di Socrate
PLATONE | ZOPIRO
discepolo di Socrate | pitocco
CRIZIA | CRITONE
tiranno di Atene e zio di Platone | amico di Socrate
TERAMENE | ARISOFANE
tiranno di Atene | poeta comico
CARICLE | TORICONE
tiranno di Atene | demarco di Alopece
TERAMENE | CARICLE
tiranno di Atene | tiranno di Atene
CINESIA | ESCHILIDE
ditirambografo | sicofante
BATRACO | CIRENE
sicofante | etere
IPPOCLE
sicofante
GLOSSARIO
AGORA' - PIAZZA DEL MERCATO
AGORASTA - VIVANDIERE
CHITONE - TUNICA
COTTABO - GIOCO DI DESTREZZA: SI LANCIAVA IL VINO DALLA TAZZA, TENTANDO DI CENTRARE UN RECIPIENTE
COPROLOGO - SPAZZINO
DITIRAMBO - CANTO IN ONORE DI DIONISO
DEMO - RIONE
DEMARCO - CAPO DEL DEMO, SINDACO
ERMA - COLONNETTA SQUADRATA, RAFFIGURANTE IN CIMA, ERMES.
LUNGHE MURA - PODEROSA CINTA MURARIA DELL' ATENE CLASSICA
MASTIGOFORO - INCARICATO DELL' ORDINE PUBBLICO, ARMATO DI FRUSTA.
MISTOFORIA - RETRIBUZIONE DELLE CARICHE PUBBLICHE
SICOFANTE - DELATORE, ACCUSATORE, SPIONE
METECO - STRANIERO DOMICILIATO IN CITTA' PRIVO DEI DIRITTI
POLITICI.
SOFISTA - INSEGNANTE PRIVATO, ITINERANTE
SIMPOSIO - BANCHETTO GIOCOSO
SCIROFORIONE - INDICAVA AD ATENE IL MESE DI GIUGNO
SILLIBO - ETICHETTA INDICANTE IL TITOLO DI UNO SCRITTO
LACEDEMONE - SPARTANO
Parte 1
Con il primo chiarore dell'alba, i galli di Alòpece cantarono a squarciagola, sovrastando il ritmato chiurlare delle nottole che si andava affiocchendo.
La brezza mattutina diffondeva il sentore del fieno mischiato alla fragranza delle rose.
La terra assetata assorbiva rapidamente le pozzanghere lasciate dall'acquazzone notturno, entro cui vi si riflettevano alcuni pallidi astri.
Il lucore opalescente dell'aurora spruzzò una pioggia di argentei riflessi sugli sparuti oliveti che chiazzavano lo scabro paesaggio attico.
A uscire di casa, fra i primi alopeci, fu l'anziano Socrate, così com'era pure fra gli ultimi a rientrarvi, furfanti esclusi.
La modesta dimora del filosofo sembrava sul punto di crollare, tanto appariva decrepita, con le innumerevoli fenditure che ne percorrevano i muri, scrostati e rabberciati qua e là, da un'antica patina di malta. Il proprietario della bicocca era un ometto ventruto, dalla corporatura tarchiata, con un faccione somigliante a Sileno: fronte stempiata e rugosa, capelli arruffati e grigiastri, occhi tondi e sporgenti, naso rincagnato, labbroni sensuali, barba canuta e incolta, carnagione color mattone.
Se non fosse stato per lo sguardo penetrante e il sorriso carico d'ironia e di serenità, quel vecchio non sarebbe risultato nient'altro che una caricatura teatrale, di quelle che il poeta comico Aristofane presentava sul proscenio, per infarcire le sue pepate commedie, con lo scopo di scatenare nel pubblico uragani d'inestinguibili risate.
Quel mattino, il buon Socrate, ben piantato sulle gambe corte e tozze, dai piedi talmente callosi da posarsi indenni sopra sassi e rovi, respirò a pieni polmoni l'aria tiepida di Sciroforione.
In lontananza scorse alcuni contadini che iniziavano piamente la giornata, inviando un bacio al sole.
L'aria tersa consentì al filosofo di scorgere ai lati del Licabetto, i sobborghi di Atene, non più protetti dalle ciclopiche Lunghe Mura, da qualche mese ridotte a enormi tumuli di grigio pietrame.
Socrate abbassò lo sguardo e vide una sagoma distesa accanto all'erma, che lo stesso filosofo aveva scolpito e collocato a pochi passi dall'ingresso della sua abitazione.
L'incerto chiarore dell'alba, lo costrinse a chinarsi e, il subitaneo riconoscimento fu seguito da stupore e raccapriccio.
Possente Zeus, ma costui è Aulone di Melite!
.
La tenue luce dell'aurora rivelò il cadavere di un giovane disteso sul ventre, nel suolo fangoso, la cui sontuosità ed eleganza dell'abbigliamento pur sporco e infradiciato, unitamente alla fluente capigliatura incrostata di terriccio, ne evidenziava l'apparenza al ceto più elevato.
O Aulone, sfortunato amico
, mormorò Socrate, "da poco avevi superato l'efebia.
E anche se ti dimostrasti incontinente, protervo e ambizioso, stavi apprendendo a conoscere te stesso e la tua anima. Ti è toccata la sorte di raggiungere anzitempo la palude Stigia.
Che Minosse e gli altri buoni giudici, ti inviino all'Isola dei Beati. Quanto a me, pregherò la Divinità ad aiutarmi a scoprire chi ti spense, nel fiore della gioventù".
Dopo qualche istante di raccoglimento, il filosofo esaminò accuratamente il cadavere del discepolo.
Il volto di Aulone, esprimeva un'impietrita espressione di angoscia: la bocca spalancata nel rantolo estremo, gli occhi bene aperti, mostravano il terrore di chi, nell'istante supremo avesse veduto qualche mostruosa visione come Echidna, Empusa, Lamia o chissà quale altro incubo.
Il filosofo chiuse gli occhi e la bocca al defunto discepolo, che non perse con ciò l'espressione d'una prolungata sofferenza. I lineamenti di Aulone apparivano tumefatti, come se il giovane, poco prima di morire, fosse stato sottoposto a un prolungato pestaggio.
Ma il colpo mortale era causato, senza ombra di dubbio, da un pugnale corinzio conficcato fino al manico, poco sotto la scapola sinistra che, attorno allo squarcio, arrossava il chitone di bisso color malva.
Poggiando un ginocchio a terra, Socrate proseguì a esaminare la vittima, a cui scostò delicatamente il volto.
Come avvertiti da un demone pettegolo, sopraggiunsero gli Alopeci, dapprima a uno a uno, poi a gruppetti e, infine, a branchi. Ben presto Socrate fu attorniato, ancora chinato sulla salma, da una folla di curiosi.
Mercanti, artigiani, contadini, servi, donne ragazze e schiavi, si accalcarono vociferando, quanto più distavano dal luogo del misfatto.
Una grandine di domande e di lamenti, piovve sul filosofo.
Socrate, per tutti gli dei, chi è questo giovane pugnalato?
.
Chi ha commesso un simile crimine?
.
Per le dee, il demo è contaminato
.
Miasma, miasma!
.
Chiamate i purificatori!
.
Alcune donne ulularono come prefiche, quindi il clamore divenne assordante. La folla si torse come una serpe.
Pari a un fulmineo incendio, l'isteria si propagò indomabile fra gli Alopeci. Poi qualcuno riconobbe il morto.
Ma è Aulone di mèlite! Proprio lui, il figlio di Licisco! Qua i purificatori, presto, portate l'acqua lustrale e i brucia profumi!
.
Socrate, terminato l'esame si rialzò. Gli si avvicinò l'amico e coetaneo Critone, alquanto sbigottito, nel contemplare l'opera di Thanatos, il dio dai veli scuri.
Una voce stentorea zittì la folla.
"Per Eracle, date spazio alla legge e all'ordine! Via, via, sgombrate gente, che ve la risolvo io questa brutta storia.
State calmi, per le Eumenidi! Oggi stesso, o demoti, informerò gli Undici dell'accaduto.
E non temete contaminazione, che provvederò subito a purificare il demo. Per Ares ed Enialo, aria, aria! Su su sgombrate. Non rimanete lì a starnazzare come polli prossimi allo spiedo!".
Dalla calca sbucò un omaccione che fendeva la ressa, con braccia più possenti e villose d'un orso tessalo, di cui si servì senza riguardi, per remare fino a Socrate.
Due nerboruti mastigofori spalleggiavano l'energumeno, ringhiando come mastini laconi.
L'omone, che altri non era se non il demarco di Alòpece, Toricione, si piantò a gambe divaricate sopra il cadavere, si ficcò i pugni sui fianchi, si gonfiò il petto e, infine, roteando uno sguardo truce, latrò:
Ora chiudete quelle boccacce e ascoltatemi. Badate, per Ares, che se qualcuno si azzarderà a interrompermi o a spernacchiare, incaricherò il boia degli Undici, di allungare quegli eventuali idioti, sul cavalletto, di almeno tre palmi!
.
Come infradiciata da una secchiata d'acqua gelida, la folla tacque. Il timore, o meglio, il terrore che suscitava il regime dei Trenta Tiranni, rappresentato dal loro truce demarco, raggelava anche le teste più calde.
Ottenuto il silenzio, Toricione, grugnì soddisfatto, poi tuonò: "La famiglia del giovane ucciso, verrà subito avvertita. Ma ora, se qualcuno può darmi delle informazioni utili e ricostruire l'accaduto, ebbene, le sputi subito senza indugi, se non vuole farsi tingere la schiena di porpora.
E chi invece, non ha nulla da testimoniare, sparisca all'istante.
Il monito sortì l'effetto di aprire un ampio spazio attorno alla vittima: nessuno si presentò per testimoniare alcunché: immischiarsi in un delitto, significava sottoporsi a pericolosi interrogatori da parte dei famigliari del defunto, col rischio di attirarsene le ire, nel caso le rivelazioni risultassero attendibili, o magari di venire pure sospettati di complicità con l'assassino.
Sopraggiunsero alcuni schiavi pubblici, che deposero il cadavere su una barella, coperta da un drappo, andandosene subito con l'ordine di consegnarlo alla famiglia dell'estinto.
Dov'era disteso il corpo della vittima, rimase la sagoma, bene impressa nel suolo fangoso in rapido essiccamento.
Il demarco stava per andarsene, quando la voce di Socrate lo richiamò.
Per Zeus, o zelante Toricione, prima che te ne vada, dovresti ascoltarmi, poichè avrei qualcosa da riferirti su questo delitto, e cioè alcuni indizi, che potrebbero venire utilizzati per un'eventuale indagine
.
Toricione sospirò, palesemente seccato da quell'inopinato intervento; non gli rimase che inghiottire un'imprecazione e accentuare la posa da duro ch'egli sfoggiava in alcune situazioni, per intimidire interlocutori testardi. Poi grugnì.
A quanto pare, o sofistone, non perdi mai l'opportunità di cianciare eh? Per le zeppe di Dorò, ma chi ti credi di essere? Lo sanno tutti che sei uno straccione, buono solo a trasformare i giovani per bene, in insolenti perdigiorno. E bada, Socrate, che non mi spiacerebbe neanche un poco saperti colpevole di avere eliminato quel giovane, tanto imbecille da farsi ammazzare sotto la tua erma, anche se, ammetto che questa ipotesi è così balzana, da far sghignazzare perfino Geta, lo scemo di Alopece
.
E invece buon Toricione
, replicò con calma il filosofo all'iroso demarco, "si dà proprio il triste caso che sia stato io, a scoprire il corpo di Aulone, pugnalato davanti alla mia dimora.
E se ciò potrebbe rendermi sospetto, a maggior ragione ti chiedo di ascoltarmi".
Toricione fece buon viso a cattivo gioco: c'era troppa gente che lo guardava: non poteva sottrarsi a un colloquio con quel vecchio impiccione. Inoltre, per un fatto delittuoso, un minimo interessamento egli doveva pur mostrarlo, anche per evitare il biasimo degli Alopeci, capacissimi di denunciarlo ai Trenta, accusandolo di fiacchezza o menefreghismo, nell'esercizio delle sue funzioni.
Così il demarco, per il timore di perdere il suo lucroso incarico, si rassegnò a espletare quella noiosa formalità, proponendosi, nel contempo, di non indagare troppo a fondo su quell'omicidio che, magari, recava l'avallo di qualche potente, a cui egli non intendeva neppure per sbaglio, pestare i calli.
Così, sia pure a denti stretti, Toricione sorrise a Socrate: ne scaturì un ghigno da spietato mastigoforo.
Quel Socrate del malanno, non gli andava proprio giù per il gozzo. Ogni qualvolta se lo trovava fra i piedi, chissà perché egli veniva sopraffatto da un'inspiegabile ansia: sapeva che quel vecchio caprone di Socrate, non era affatto quell'innocuo rompi-coglioni, che affettava di sembrare.
Per molti suoi amici di bagordi, quel sofista straccione, aveva la lingua più velenosa d'uno scorpione. E costoro lo avevano avvisato: quel Sileno era un vero e proprio moscone, il quale ogni qualvolta si appiccicava a qualcuno, non smetteva di interrogarlo e rivoltarlo, fino a che il malcapitato, non ammetteva, nolente o volente, di essere null'altro che un idiota.
E glielo avevano riferito gli amici, con quanta ironia quel sofista pancione, conducesse i suoi serrati interrogatori, ridicolizzando l'interlocutore.
Per quanto ottuso fosse, Toricione presentì con animalesco istinto, ch'era venuto il proprio turno di essere cucinato da Socrate. No, per Dioniso, a lui non doveva capitare di passare per uno zimbello. A quell'umiliante prospettiva, digrignò i denti fino a farli scricchiare.
L'omaccione deciso a scongiurare quella paventata eventualità, assunse l'arcigna espressione di istruttore dei peripoli. Gonfiò il petto, fingendo una sicumera ch'era ben lontano dal provare.
Infine ruggì come un leone braccato, stanato e costretto a combattere.
"Per Ares, sputa pure il rospo, Socrate, ma sii spiccio, per Eracle, che qua non siamo mica al ginnasio a dilungarci con cianfruscole