Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

CONTIGUA
CONTIGUA
CONTIGUA
E-book194 pagine2 ore

CONTIGUA

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un’isola navigante nel mare di Sicilia, occasionale ormeggio di anime e porto di relitti. Un posto di clandestinità surreale e di decantazione, il luogo migliore dove perdersi, confondersi e fallire. Storie di maschi e di femmine nomadi nel labirinto collettivo raccolte da Omissis, cronista girovagante e giornalista a partita Iva.
LinguaItaliano
Data di uscita9 lug 2019
ISBN9788831629553
CONTIGUA

Correlato a CONTIGUA

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su CONTIGUA

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    CONTIGUA - Francesco Urso

    Lucilla

    (scenario)

    CONTIGUA

    è un'isola navigante, nomade, camaleontica. Brezze e correnti ne dirigono la deriva verso l'arcipelago siciliano. Nell'alba ancora scura o nella notte ancora limpida gli abitanti di Filicudi, Stromboli, Marettimo, Pantelleria vedono nell'orizzonte frontale, d'improvviso, la sua sagoma azzurrata transitare lenta e silenziosa, come una baleniera in disarmo. Gli isolani di Contigua, a loro volta, osservano gli osservatori con la svogliata indifferenza dei cetacei. Con movimento leggero e sguardo sottile tornano ai cazzi loro. Senza sputare. L'isola conta una popolazione umana di circa 400 capi, con prevalenza di femmine. Quando Omissis (maschio, palermitano meticcio, alto, ex bruno e giovane da parecchi decenni) intercettò con il piccolo gozzo a vela un approdo graffiato sulla pomice e sbarcò in solitudine sull'isola, annusò da subito l'odore di un vento diverso. Era come un fiato vegetale e marino che appesantiva i passi; camminando sentì le gambe falciare il cielo basso, quello posato sulla terra. Poi si fermò e pisciò ad occhi chiusi. In cima all'unica collina si mise davanti al tramonto proprio quando il sole frantuma gli specchi sul mare e via via l'indaco risale dall'acqua. In basso il paese sembrò animato a basso volume, Omissis scelse una pietra piatta dove mangiare, pisciò ad occhi aperti, scelse una terra piatta dove dormire.

    Da cronista a partita Iva, Omissis frequentò per diversi anni gli abitanti dell'isola, pregiudizialmente animato a fuoco dalle appassionanti letture adolescenziali di Freud e Lévi Strauss in tema di totemismo, tabù, struttura del mito (approccio erroneamente antropologico) per poi, mano a mano, mandare tutto a fare in culo e dedicarsi ad una analisi semplicemente etologica della vita, abitudini, riti di queste anime fronte mare, incuranti dei processi storici/sociologici ricorrenti e dediti alla vita semplice, circoscritta alla ricettività di occhi, bocca, naso, pelle e una dose di cuore. Come prima verità accertò che questi individui se ne fottevano di tutto quel prossimo che non fosse umanità sofferente. Così cambiò tonalità e visione prospettica: si era predisposto concettualmente al dipinto Die Toteninsel (l'isola dei morti) di Bocklin, silenzio e distacco e si ritrovò nelle tinte di Gauguin, luce e carne. Omissis pertanto raccolse appuntò e trascrisse semplici storie di cani, vitigni, pesci azzurri, salse, musiche, sole, stelle, reti, vele, terre, fuochi a mare, morti, coralli, giardini, gelsomini, maschi, femmine.

    Condivise con gli isolani la serenità, l'allegria, la gioia monotona e l'assolata pace da dopo pranzo o dopo una femmina a letto. Camminò le strade strette del quartiere marinaro, l'ampio corso del centro storico con bassi edifici arabo-normanni e piazza Risacca dove, nelle domeniche luminose, si consano tavoli e divani e si mangia si parla si canta avvinazzati. Non vide chiese minareti o sinagoghe. La religione se incarcerata nelle dottrine, avvilisce la condivisione del vivere. Gli scalini dell'antico anfiteatro, a quasi 500 metri dal porto vecchio, accolgono all'imbrunire maschi e femmine inginocchiati a mani giunte o genuflessi verso la Mecca o salmodianti a ritmo shokelin o recitanti un mantra. Prima per i fatti loro poi incamminandosi accanto (la spiritualità è la fede comune). Nella piana sopra l'anfiteatro, a mezza collina, l'imponente ex carcere ocra saraceno ospita le scuole, gli uffici amministrativi, la sala concerti e conferenze, la biblioteca popolare. Leggenda vuole che una notte dei primi di Gennaio 1927 Contigua affiancò Ustica e accolse clandestinamente Antonio Gramsci, lì confinato, per un affollatissimo seminario letterario.

    La struttura e l'organizzazione del silenzio, la modulazione delle sonorità e dei timbri impressionarono particolarmente Omissis. Scoprì la mitezza di isolani dal parlare sintetico e mormorato, predisposti più all'ascolto che al comizio, in un contesto urbano di rumori socchiusi e di armonie timbriche. Era un silenzio post caos, come scivolato in magma dalla sciara di fuoco. Omissis ricordò la sensazione raccontatagli da una ragazza dell'ex Jugoslavia: uscita dal rifugio un'ora dopo l'ultimo bombardamento, le si parò davanti una luna immensa, e seppe che l'ottava meraviglia del mondo era il silenzio dopo la guerra. L'intensità e la qualità di questo silenzio rendono percettibili i sussurri primordiali delle cose e degli esseri (come quando è nel buio più profondo della notte che milioni di stelle entrano dai balconi). Ed è così che commuove l'impercettibile rumore dell'acqua, sia mare sulle chiglie o sorgente alta o fontana in piazza o sorso nel bicchiere o rubinetto in cucina. E si può anche sentire di sfondo lontano un neonato che non dorme, qualcuno che sospira o ride piano, femmine e maschi che si cercano per tramare contro la morte, e i risuoni e canti dell'accoppiamento.

    Morire a Contigua non è un silenzio che smette di vivere. Non esiste un cimitero. Il corteo accompagna le ceneri sino alla Grande Vigna: Zonzo, vecchio cane di mànnara, inizia a scavare poi, versate le ceneri confuse con la zolla, si mette a dimora una barbatella di zibibbo. Si fa un vino magnifico.

    DETTO SARDUNI

    inciuria di Gaetanino Feo, ottantunenne, ricurvo ed essiccato, si vergognò non poco a raccontare ad Omissis (per la prima volta e solo a lui) la vicenda che marchiò la sua esistenza da quando ritornò a Contigua da Santona, nel nord della Spagna, dopo 53 anni di fatica nella salagione delle acciughe del Cantabrico.

    Davanti alla frittura di calamari e cappuccetti, assittati nella veranda della trattoria di Zisa, occhi bassi, iniziò u cuntu e ci partì dall'infanzia. Serena e spensierata, di corse sudate e leggerezza monotona, matri e patri a sfiancarsi la schiena sulla terra di vigne, ma serate di baci forti e carezze sulla nuca. Mattine a scuola e picciotto di pisciaro per quei due piccioli in tasca per libri e vocabolario.

    Poi l'adolescenza con i chiaroscuri ed i colpi allo stomaco: d'improvviso il cazzo, sempre in tiro, diventò un compagno inaspettato e anarchico, sempre per i fatti suoi, faceva e sfaceva giorno e notte. Più volte la settimana, all'alba, sul Motom tre marce rosso vampa che rumorava di motozappa e catarro di varca da pesca, risaliva la litoranea ed acchianava alla rupe di Capovaccaio e sul limite dello sbalanco, nella prima brezza fiatata e luccicata, tirava fuori la giovane minchia timida e se la minava ad occhi chiusi. Non pensava a vastasate, ma a tutto quel creato di bagliori dal cielo, di suoni dal mare, di acqua e sale sputati sulla pelle: questo lo eccitava, la luce e il respiro di sentirsi vivo, vivo! E alla fine spruzzava di sotto, sulle alghe morte.

    Una volta immaginò una femmina trainata sull'onda da una testuggine, il culo bianco e lucido di schiuma a pelo d'acqua e sopra una libellula verdeoro vibrò e cercò un nido per le uova. Poi fantasticò pescatrici di perle raccogliere nelle ceste centinaia di minne alla deriva. Ed anche un vento di miele caldo su di una femmina dischiusa e ancora dopo ancora fianchi levigati da gusci di ostriche, pesci volanti planare sull'inguine, schiene nude coricate su schiene di delfini, squame coralline su labbra a conchiglia. Sarduni picciotto spruzzava e spruzzava, svuotava l'anima dai coglioni.

    Diciannovenne, pupille tristi, l'angoscia allacciata alla gola, lasciò genitori compagni amiche il pisciaro e tutto quel seme sparso, pianse sulla nave verso il nord della Spagna sull'atlantico, con il cuore nero di lividi. A Santona azzannò coi denti il lavoro, afferrando la fatica come una fune sul burrone, per non sfiancarsi di nostalgia e rimpianto. Fu bravo e veloce a decapitare eviscerare deliscare allinguare sfilettare le acciughe.

    Picciriddo dal pisciaro già ripuliva pesci azzurri di paranza, mupe, cefali, vope, caponi, mangiaracina, tonnetti e li pesava nudi. Conobbe Haizea, giovane femmina basca alta, scura di bronzo, sagoma di marmo greco e gesti di medusa (lei sistemava le acciughe nelle burnìe). La prima volta ficcarono dietro i fusti di olio, tra il fetore di resche e sangue marcio. L'afrore miscelato del loro sudore e dei liquidi corporei sembrò profumo di zagara. Quando si sposarono, tutti gli operai dell'azienda riempirono il municipio di un leggero tanfo ittico. Iniziò così la loro vita insieme, tre stanze cucina bagno terrazzino sul porto dove presero a scavare le trincee ed a costruire le fortificazioni che un'esistenza operaia impone. Fecero due maschi. Andavano insieme alle fiere, i bambini davanti, la colonia nei capelli e loro due tre metri dietro, sempre col sentore di pesce addosso. Fra le lenzuola generosi ed egoisti, nel meccanismo dell'amante e nell'ingranaggio dell'animale. Lui amava svegliarsi i giorni di festa e guardarla tampasiare per casa (Sarduni prova tenerezza per le giovani spose che la domenica mattina si alzano prima e cantano affacciate alla finestra).

    Non aveva ancora compiuto 30 anni quando iniziarono i problemi all'udito. Prima un costante, lieve eco di respiro esterno, poi via via scrosci d'acqua cadenzati, a volte come un tuono prolungato dal vento. La notte era un dormiveglia di ondate sugli scogli. Consultò specialisti, si sottopose a visite accurate, lastre e risonanze: nulla. Haizea preoccupata, lo sguardo perso nel dubbio, lo vedeva scuotere la testa, coprirsi le orecchie con la mano destra-sinistra, esplorarsi con le dita. Il fastidio non diminuiva, ma come la natura materna forgia strumenti di resistenza e adattamento ai suoi figli di linfa e di sangue, Sarduni iniziò poco a poco a convivere con la nebbia dei suoni, si rassegnò a proseguire in una varca fantasma, come in un perenne navigare parallelo. Fece anche una discreta carriera, caporeparto (lei trasferita all'ufficio spedizioni per motivi di conflitto di interessi).

    Ogni tanto lo si vedeva barcollare, si teneva al primo appiglio sedia, pilastro, tavolo come a un timone o una cima. Trascorsi due anni il malanno ebbe un'improvvisa evoluzione: ai suoni si aggiunsero voci. Sussurri, colloqui come attutiti da muri tramestio di femmine e nutrichi, risate, lamenti e cantilene. E fra quelle voci indistinte nuove assonanze e risonanze di sonorità domestiche sullo sfondo, rumori di piatti e posate, sciacquoni, bolliture fritture arrostiture, radiosveglie, telefoni e citofoni, bicchieri rotti, ammaccature di alluminio, porte aperte e porte chiuse. A vederlo camminare o fermo sugli scalini sembrava un pazzo: piccoli salti di spavento, gridava COME ? Se non seguiva i discorsi, NON HO CAPITO ! Se una parola si ammucciava dietro uno stridio metallico. A volte ammiccava passi di bossa nova o agitava i capelli sui Led Zeppelin. Col tempo si abituò anche alle voci fantasma, sembrava di colpo riflessivo, si fermava di botto, poi proseguiva concentrato e a passo lento, la notte Haizea lo sentiva sorridere o smaniare nel sonno.

    Per 42 anni, a vivere in questa sua intima orchestrazione dodecafonica. I figli già grandi maritati e sistemati, uno ingegnere alle attività portuali, l'altro professore di fisica alla Universidad Autonoma de Barcelona, cinque nipoti (3 maschi 2 femmine) nessuno a puzzare di acciughe. Haizea morta da sette anni d'aneurisma. Da sette anni lui sbiadito, il suo mondo sfocato. Riunì figli nuore nipoti, le ceneri di Haizea in una burnìa di cristallo nel trolley vado con mamma a spiaggiarmi a Contigua. E lì lo ripresero in festa, i vecchi davanti alle famiglie e lui a scrostare le rughe dai volti più antichi per riconoscere la pelle degli amici di un tempo. Avevano lavorato giorno e notte per rispristinare e ripulire la masseria dei genitori, così da mineralizzare il suo tempo e restituirgli quello che un altro mare gli aveva tolto. La mattina presto, il sole ancora curcato sul frumento, lo seguirono a passi zitti sino alla grande Vigna, Zonzo a coda ferma e zampe lente rimosse le zolle, Sarduni sbacantò dalla burnìa le ceneri di Haizea e sopra interrò un ceppo di zibibbo.

    Sempre lo circondò l'affetto dei paesani e mai avvertì la vertigine della solitudine anche perché quelle voci fantasma continuavano a rimbombargli dentro. Più forti anzi, amplificate dal silenzio buono che era sottofondo a quei luoghi. Nel primo respiro, susuto dal letto, la porta aperta sul primo sole riflesso dal vigneto, l'affanno giovane gonfiava i polmoni e ansimava negli occhi un'aria nuova. Il Motom sul cavalletto era diventata una scultura dell'era industriale venata di ruggine dal sale e dalla muffa della terra lucida e umida.

    Un giorno salì alla rupe di Capovaccaio, aveva preso, all'usato, un lapino che rumorava di varca da pesca e catarro di motozappa. Pieno di mare, le mani in tasca sulla punta della rupe, lo sbalanco in basso era sparito, riempito da una incredibile vegetazione. Una selva di pianta grassa mai vista, le foglie spesse a forma di piccoli padiglioni auricolari verdemuschio che si agitavano in sincronia; ad ogni onda che arrivava sulle pietre, verso il grido del gabbiano o il tuffo del delfino le foglie si giravano sul suono, lo ascoltavano. E nella sua testa quei suoni esplodevano, insieme all'angoscia di immaginare che quella selva era sua figlia, generata da tutto quello sperma spruzzato da picciotto, seme di sangue come seme di linfa, la leggenda ancestrale sul rito d'accoppiamento e riproduzione delle spugne.

    In paese gli cuntarono di questa pianta sconosciuta e bellissima germogliata e cresciuta in un dirupo sul mare che tutti iniziarono a spiantare e raccogliere nei vasi di casa, nelle stanze, nelle terrazze, rampicata sui perticati, a contorno delle aiuole sui marciapiedi, a capofitto dalle balconate. Tutti si gustavano la meraviglia di queste foglioline carnose che si giravano insieme verso la musica in salotto, il rumore delle pignate in cucina (la loro voce le stimolava come fossero pappagallini), sussultavano verso la campana della scuola, l'abbaio di Zonzo e accompagnavano dimenandosi i tacchi delle femmine sul corso. Sarduni oramai sentiva e conosceva ogni cosa, perché erano la moltiplicazione delle orecchie sue quelle insinuate nell'universo mondo degli altri. Questo piangendo ammucciuni rivelò a Omissis, che lo taliò rincoglionito. Si sentiva un pezzo di merda che si faceva tutti i cazzi degli altri, una spia infame e subdola. La circostanza che in sé, potenzialmente, lo rendeva padrone ne faceva lo schiavo più umiliato e indegno.

    Non aveva più il coraggio di alzare il suo su altri sguardi, di uscire in strada a tradire gli abbracci degli amici e i sorrisi dei conoscenti. Si rende conto Omissis? So chi le mogli cazziano perché gli puzzano i piedi, conosco guai finanziari, sento chiudere la porta dal marito ed aprire la porta dall'amante, sento i piriti notturni e un pisciare continuo e tutto con nomi, cognomi e indirizzi ; Sarduni fece una lunga pausa, pari a due bicchieri colmi di zibibbo. E poi sento i balli delle picciridde che sognano, i colpi dei baci alle vecchie mamme, il fruscio delle carezze ai nipoti, i sospiri di maschi e femmine che si toccano, insieme o da soli, e poi tutto quel venire di orgasmi e scivolio di lingue e leccate sulla pelle. Omissis, giuri, quando morirò racconterà a tutti questa mia vergogna. Chiedo perdono a tutti e queste maledette piante voglio brucino con me. Confidò ad Omissis di aver cominciato a credere in Dio solo per essere punito all'inferno.

    Si alzò barcollando e si avviò in un silenzio scuro, con tutto quel casino in testa e quel tormento dolce e disperato che così incredibilmente lo avvinghia all'isola. Zisa iniziò a sparecchiare, inclinata sulle grandi cosce, e seguendo quei suoi movimenti ritmici e osceni fra le minne, Omissis notò nella ringhiera della veranda un filare di foglie orecchiute attente allo scruscio di piatti ed allo scoppiettio

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1