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Il pianto del monachello
Il pianto del monachello
Il pianto del monachello
E-book267 pagine3 ore

Il pianto del monachello

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Info su questo ebook

Nel romanzo si intrecciano diverse vicende, ma al centro troviamo l’amicizia tra Marcello, un bambino di sette anni, e don Cola, l’ufficiale dello Stato Civile di Portomagno, considerato pazzo da tutto il paese per via dei modi bizzarri e degli sproloqui che è abituato a manifestare senza motivo.
In realtà, dietro l’apparente pazzia, si cela un segreto: don Cola è solito aggiungere sui registri anagrafici un secondo nome ai nuovi nati. Così facendo, crede di poter bilanciare le mancanze della stirpe di ognuno e di combattere la staticità della terra in cui vive (siamo in Calabria, alla vigilia del secondo conflitto) per spingerla a un’emancipazione che sembra, in realtà, remota.
Una sera, durante un incontro al braciere, don Cola, sentendo un pianto lontano, racconta a un gruppetto di bambini la leggenda del monachello: lo spiritello è disposto a ricoprire d’oro chiunque riuscirà a prendergli il cappuccio. Da quel momento, Marcello farà di tutto per raggiungere quella fortuna sfuggente e cambiare un destino che sembra già scritto dalla miseria in cui il paese è calato. Le difficoltà, però, non mancheranno e lo porteranno a intrecciare il suo sogno con le vicissitudini e i destini degli altri personaggi.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mag 2017
ISBN9788868225711
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    Il pianto del monachello - Alessandro Stella

    ALESSANDRO STELLA

    IL PIANTO

    DEL MONACHELLO

    In copertina: Largo Vaccari (Tropea) per gentile concessione di Enzo Bova.

    Proprietà letteraria riservata

    by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2017

    ISBN:978-88-6822-571-1

    Via Camposano, 41 (ex Via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A Tropea

    L’amore è come la fortuna:

    non gli piace che gli si corra dietro.

    Théophile Gautier

    Prima parte

    Paccìa solenne

    Aprile 1940

    La piazza del rione Borgo era il polmone del paese: inspirava e assorbiva nei propri gangli polverosi le jastìme, gli amori e i destini di tutti gli abitanti del piccolo centro marinaro. Ogni atto palese o sottaciuto era filtrato da quel lembo di terra battuta messo a guardia di una cittadina che subiva l’incedere fiacco della storia, senza reclamarne un posto d’eccezione, come invece era stato nel passato più remoto. Le altre piazze erano tutte racchiuse tra costruzioni nobiliari vecchie di secoli e vite sotterranee dei catoj che negavano vie di mezzo: o gnuri o morti di fame, senza il minimo aroma di una piccola e pudica borghesia collocata naturalmente proprio nello slargo posto a metà strada tra la periferia agricola, il centro aristocratico e la marina pescosa.

    La sorvegliavano, quella piazza brulicante, le palazzine mute e sbilenche delimitanti i margini squadrati: sul lato sinistro insisteva una fila di costruzioni strette e alte, che sembravano appoggiate l’una sull’altra a chirichicò come un muro a secco, tenute insieme da un edificio ritto a quattro piani e dall’imponente palazzo Torralta, posti alle due estremità come tiranti antisismici; di fronte, una tangibile sensazione di precaria solidità permetteva alle costruzioni di affacciarsi a strapiombo su una rupe alta decine di metri, da cui un tempo, prima che il mare si ritirasse, gli abitanti gettavano le reti per raccoglierle copiose di sostentamento; a tramontana si apriva nella piazza della Porta Ponente per ricordare quanto piccolo fosse quel paisazzo di fronte alla vastità del Tirreno, solcato da roboanti navi da guerra volte a difendere le conquiste d’Africa; al confine meridionale, invece, a protezione spirituale della città, si ergeva la chiesa del Santissimo Rosario, di fronte alla quale un edificio basso, che pareva intimorito dagli altri giganti, ospitava l’episcopio.

    Sui volti freddi e impassibili delle palazzine si stagliavano riflessi e ombre di corone infilate di agli platinati e peperoncini purpurei, piccoli gioielli ruggenti, forti del fallace potere di insaporire ogni pietanza, anche la più sciapa e striminzita.

    Ovunque si mischiavano profumi e olezzi, ogni angolo godeva della propria indipendenza olfattiva: in alto, verso la calata dei forgiàri, nei pressi della putìcha di mastro Lello, era un ribollire di ferro incandescente e pelli conciate che ammorbavano anche le narici più occluse; nella piazza, invece, si concentrava una miscela pungente di fave e cavolfiore, bocconcini evanescenti, antipasti nasali privi di nutrimento ma carichi di gusto e inganni dei sensi.

    Molti burghitàni, in particolare i più piccoli, trascorrevano intere giornate a cibarsi di profumi e nient’altro, inseguendo in ogni uscio l’evasiva commestibilità di un’esistenza grama e ignota.

    In quel mezzo tomolo di terra si raccoglieva il maggior numero degli abitanti di Portomagno, ammonticchiati e mesti come i giovanotti costretti a partire per l’imminente guerra dalla stazione del paese.

    Un crocevia di esistenze dove ogni sposalizio era salutato nelle palazzine dalla preventiva costruzione di un nuovo piano sopra quelli già esistenti, come se i burghitàni, nonostante gli sconfinati territori a pochi metri dalla piazza, non volessero abbandonare il bene prezioso della comunità, ma aspirassero a crescere ed elevarsi, tutti insieme, nel corpo e nello spirito, rintanati in scarne stanzette concedenti la benevola illusione di vicinanza al divino e all’etereo, smentiti però dal risucchio famelico dell’inesorabile realtà.

    Quella sera, in un angolo periferico dello slargo polveroso, proprio ai piedi della scalinata in pietra del vescovo Ruffolo, il pianto lontano era arrivato nitido alle orecchie dei bambini, condotto dalle leggere folate di maestrale: un sospiro lieve e freddo che aveva avuto il potere di ammutolirli e sospenderne ogni schiamazzo.

    «Queti! Ascoltate!» aveva bisbigliato don Cola, avvolto da un’aura oscura come il vagito libratosi nel vento, gli occhi caldi e frenetici, lucidi di leggenda e solennità.

    «Lo sentite?» aveva continuato flebile «È lui, il monacèo. Piange, piange a dirotto, perché qualcheduno è riuscito a pigghiàrgli il cappuccio. Domani qualche magnèse o sarà ricco o sarà paccio: il monacèo lo coprirà d’oro per riavere il suo berretto, o lo riempirà di pàccari e dispetti per portarlo alla paccìa e vendicare il torto subìto».

    Parlava come un vecchio sacerdote ellenico, l’indice ritto puntato al cielo come un obelisco, la mano a coprire la barba d’argento arrossata dall’incandescenza del braciere, posto ai suoi piedi come eterna fiamma d’Olimpia. Davanti a sé, boccucce spalancate e teste puzzolenti di insetticida, rapite dal racconto e dall’enfasi del vecchio paccio dall’aspetto di lupo, solitario e schivo come il suo animo inquieto.

    Per l’ennesima volta in pochi giorni, aveva cercato di allontanare i mocciosi dalla realtà in cui erano immersi e condurli in luoghi remoti che potessero mitigare le asprezze del destino, ma anche quella sera si era ritrovato di fronte alla pragmatica diffidenza del capobranco:

    «Don Cola, chi dicìti? Questa è ‘na gatta in calore!» aveva esclamato Ciccu Piscistoccu, provocando una risata fragorosa del gruppo, seguita da urla liberatorie che avevano il solo scopo di esorcizzare il momento e allontanare l’ansia crescente.

    Quell’inattesa ribellione all’autorità inviolabile della leggenda aveva stuzzicato l’uomo, incuriosito dal confronto con un moccioso sfidante secoli di tacite rassegnazioni. Ma, essendo la platea costituita da marmocchi che di scetticismo non ne avevano neppure un vinacciolo, soggiogati dalle più strampalate superstizioni, l’anziano dovette piegarsi e dare seguito alla faràgula tramandata da generazioni e sempre accettata senza remore.

    Accarezzò ancora la barba da canide montano, incrociando lo sguardo penetrante con gli occhi da roditore di Ciccu, fino a che sbottò come una caffettiera impazzita:

    «Scostumato e maleducato! Sei sempre la solita testa calda! Ti auguro di imbatterti nel monacèo, un giorno: ti farà cacare nelle mutante che non hai!»

    Ferito nell’orgoglio di reuccio, Ciccu abbandonò il campo di battaglia inseguito dai riò di scherno della comitiva, mentre in cima alla scalinata, distaccato di un palmo dal resto del gruppo, Marcello osservava il tutto con aria assente, ancora impegnato a ricercare nell’aria fresca il pianto rarefatto.

    Aveva un viso minuto e tondeggiante su cui vispi occhi celesti e bocca a cuore si armonizzavano in un’affabilità docile e sincera, esaltata dalle piccole orecchie a sventola che gli spuntavano come manici di brocca smaltata.

    «Queti!» esclamò rivolto agli amici, ancora impegnati a deridere Ciccu.

    Si voltarono all’unisono verso l’espressione assente e l’indice alto nell’aria, tali e quali all’anziano.

    «Ohu, mi stai pigghiandu p’u culu pure tu?» lo aggredì l’uomo, pronto a reagire più energico che con Ciccu.

    «No, lo sentii, lo sentii davvero! Sentite, sentite, state queti, potete sentirlo pure voi!» entusiasta e convinto.

    Nonostante l’assenza di Piscistoccu, il gruppo ne seguì i precetti impliciti rovesciando su Marcello lo scetticismo trasmesso dall’impertinenza del capo: ruotavano le braccia come polpi sgraziati per sommergerlo di pàccari violenti e improperi, subiti in silenzio fino all’intervento provvidenziale dell’anziano, che lo allontanò dalla banda eccitata:

    «Senti qua, muccùso» lo ammonì «se tu ti credi che mi pigghi p’u culu come ‘ste bestie, ti sbagli di grosso, catinazzo! Ti puzza ancora la bocca di latte e credi di farla a chi ha i capelli bianchi? Da quei quattro animali posso pure accettarlo, ma da te, no! Tu sei un figghiòlo sberto, intelligente, e ti prendi queste confidenze con me, che potrei essere nànnita? E tutti gli insegnamenti che ti sto dando? E il nostro segreto? Accussì mi ringrazi?»

    «Ma io…» cercò una giustificazione tra i sorrisi sdentati degli amici lontani.

    «Ma tu, niente. Statti quetu, sto parlando io. Lo so che sentisti davvero il pianto, pure io lo sentii. È la prima volta?»

    «Eh!» confermò rincuorato.

    Il lupo feroce si ammansì, mutando i latrati in carezze paterne e confidenziali che divennero moniti solenni:

    «Arricòrdati sempre: il monacèo in cerca del suo cappuccio è triste e sconsolato, ma è pure arraggiàto. Statti attento quando senti questo pianto: non provare mai a individuarne la provenienza, o s’arràggia di più e si vendica col primo che gli capita».

    «E come si vendica?» s’impaurì.

    «Te lo dissi: ti tormenta, ti porta alla paccìa, ti costringe a lasciare la casa per trovare pace. E non è detto che non ti segua. Conoscevo un uomo di Monteleone che fu costretto ad abbandonare il pagghiàro in cui viveva per i dispetti del monacèo. Tornava distrutto di fatìga dai campi, ma lo spirdo non lo faceva riposare mai, finché non si decise a cangiàre casa. Ma anche nella nuova lo seguì. Dopo una simàna che si era trasferito, lo trovarono impiccato alle travi del soffitto, la casa tutta all’aria e i pochi dinàri che possedeva lasciati sul tavolo: non era rapina, era paccìa!» spalancando gli occhi eccitati.

    Marcello ammutolì, mentre le ciocche disordinate dell’uomo si allontanavano per lasciare all’insolenza della combriccola il controllo della piazza, attraversata da versi sfottenti di gatta in calore.

    Saturo delle beffe, Cola tornò a essere fiera selvaggia e si fermò ringhiante per pronunciare con tono pomposo da tragedia euripidea uno degli sproloqui che gli avevano consegnato lo scettro di paccio del paese:

    «Tu, Leonida, figlio del leone, che mostrasti tanto e tale coraggio al passo delle Porte Calde, dov’è ora codesta audacia? Tremi di fronte al vagito di un bambino in fasce. E tu, Archiloco, che scagliavi giambi infuocati contro i tuoi detrattori, guerriero di lingua, prima che di spada, è questo il rispetto che hai per un anziano? Folli! Null’altro che folli!» e si allontanò, zoppo e inquieto, grattandosi la barba saggia.

    Nonostante il chiasso provocato dagli amici, scatenati di fronte alle incomprensibili parole dell’uomo, Marcello non si era mosso, era rimasto marmoreo come un kuros greco per non smarrire nella testa farraginosa i nomi di cui avrebbe chiesto spiegazioni il giorno seguente. Di colpo, però, perso nelle proprie ansie e fantasie, si era ritrovato da solo: il gruppo si era dileguato in pochi secondi, come topi in fuga di fronte a un branco di gatti affamati. Il sospetto si tramutò in certezza quando avvertì il rumore stridulo di un’imposta, cui seguirono parole che non avrebbe mai voluto ascoltare:

    «Ma possibile che sei sempre tu? Domani, sopra il sangue di San Gennaro, avviso a tuo padre, così ti fa ‘na bella ripassata su quella faccia da schiaffi! Ogni sera ‘na casamicciola qua fuori! E che è? Domani uno paga per tutti!» minacciò Mimma, la perpetua del vescovo Ruffolo, il viso gonfio e paonazzo che sembrava avesse inghiottito mento e naso per la rabbia. Da buona napoletana, il sangue del patrono era sempre al centro dei suoi giuramenti, tutte le volte in cui perdeva il controllo e assumeva l’aspetto di marmitta bollente.

    Il bambino fuggì rapido fino alla soglia della palazzina a due piani, nella quale entrò, anch’egli come topo in fuga, interponendo tra sé e Mimma il pesante portone: una piccola illusione di protezione, troppo piccola perché le lacrime non raggiungessero gli occhi e uscissero mute sul viso contratto. Qualche goccia bagnò le scarpe, subito asciugate e lucidate col panno nascosto in un foro del muro: guai se si fosse presentato in casa con le calzature sporche o scalfite, era l’unico bambino del Borgo a potersele permettere.

    A capo basso e sommesso, con il cuore in gola e le parole della donna ripetute in testa, salì in cucina, dove le paure svanirono come vapore di fronte alla veste scura della madre, impegnata a macinare cicoria secca:

    «Mammà, in questa casa c’è il monacèo?» la interrogò smanioso.

    Clotilde sorrise, pur mantenendo un vuoto umido negli occhi, profondi e neri come i capelli raccolti:

    «Don Cola è affissàto con ‘sto monacèo. Lo insegue da una vita, convinto che gli risolve tutti i problemi. È arrivato a sessant’anni e ancora sogna. È tutto paccio. Comunque in casa nostra non c’è. Da nanna Minica invece sì: fa i servìzza, pulìzza, e ogni tanto dassa pure qualche moneta».

    «Da nanna? Davèru dici? Ci vado mò!»

    «Dove vai? Fermati!» lo smontò subito «ché a momenti torna pàita e se ti pizzica ti piglia a botte di cinta che ti fa nuovo nuovo! Ci vai domani».

    La saggia profezia materna si concretizzò subito: Gaetano rientrò alticcio e borbottante dalla mescita, come ogni sera, sfogando verbalmente sulla moglie frustrazioni infime e irrisolte. La scena si ripeteva sempre, senza mai sconfinare da un copione scritto a quattro mani da miseria e debolezza celata dell’uomo.

    Marcello schizzò al piano di sopra come una cavalletta e si accucciò trafelato nel letto, aggrappandosi allo scaldapiedi d’ottone, unico calore di una serata gelida e misteriosa.

    Dal fondo della rupe, la risacca lo cullò lieve, nonostante l’agitazione per il pensiero dello spiritello, a cui si aggiungevano le minacce di Mimma e i borbottii liquorosi di Gaetano per il maledetto lavoro e i dinàri mai bastevoli.

    Sotto le tre coperte, pesanti come il fragore del mare grosso e impetuoso, il piccolo si incamminò lento verso un sonno profondo, adagiato nella sua mente fiduciosa di acciuffare presto il magnanimo cappuccio marrone.

    Mani ‘i chialòna

    Il gajùzzo di nanna Minica, lasciato a razzolare davanti alla palazzina a due piani in compagnia di decine di galline spennate, era l’essere più inviso a Marcello. Non erano tanto le ore di sonno perdute a non essere tollerate, quanto la libertà concessa a quel pennuto di decidere della vita altrui. Chi era per poter imporre ai cristiani la sveglia? Per spingerli a lasciare le coperte calde e affrontare il freddo e le fatiche di un’intera giornata? Un volatile tanto minchione da non saper neppure volare non aveva alcun potere di disporre delle esistenze dei burghitàni e, prima o poi, avrebbe pagato cara quella confidenza gratuita.

    Quella mattina il rumore del mare grosso aveva mitigato lo strazio della sveglia, acuito, però, dal consueto odore di cicoria tostata che gli aveva schiaffeggiato le narici.

    Indossò in tutta fretta il grembiulino, richiamato dal pensiero martellante del monachello. Nel pomeriggio sarebbe andato da nanna, le avrebbe rivolto le domande del caso e avrebbe aspettato anche fino a sera pur di cogliere in flagrante lo spiritello. Se fosse riuscito ad afferrare il cappuccio, sarebbero finiti i problemi per la sua famiglia, Gaetano avrebbe potuto fatigàre di meno e avrebbe trascorso più tempo con lui, magari a giocare a carambola alla mescita di Totò. Restava da affrontare una lunga mattinata sui banchi di scuola e il terrore della perpetua, unico ostacolo tra lui e il cappuccio sfuggente.

    Tre alla volta affrontò le scale ripide, con passi ampi e svelti che lo portarono nella cucina in pochi secondi, baldanzoso e impaziente. Clotilde lo attendeva con il gotto di alluminio in mano, permettendo al rituale di ripetersi silenzioso anche quella mattina.

    In strada intravide le capre guidate dai fischi acuti di massàru Peppi e del figlio Gerardo, scomparso anch’egli la sera precedente nel buio di Piazza 28 ottobre. Precedeva il gregge un possente zìmbaru dalle corna fiere e dominanti, il terrore dell’intero quartiere quando solcava con le sue corse travolgenti la calata dei forgiàri.

    In attesa sull’uscio del portone, Marcello passò in rassegna tutte le abitazioni affacciate sulla piazza polverosa. Il Borgo ospitava un migliaio di cristiani su un totale di cinquemila. Le case ammassate seguivano tutte lo stesso schema costruttivo: in basso i catoj, i seminterrati, piccole stanze fitùse e puzzolenti, nate come magazzeni e depositi di animali, e trasformati in abitazioni per le classi meno agiate; i piani superiori, invece, erano occupati dalla piccola borghesia, composta in prevalenza da mastri, artigiani e qualche raro impiegato. Le porte delle abitazioni si aprivano seguendo un canovaccio ben conosciuto da Marcello: i primi a schiudersi erano proprio i catoj, dai cui usci tarlati venivano fuori, rapidissimi, gli occupanti, come se fossero stati scaraventati in strada da una molla. Per gli inquilini dei piani superiori, invece, era ammessa una manciata di sonno in più. La magnanimità di quella concessione era dovuta alla fame: gli abitanti dei bassi venivano fuori dalle gole putride rigurgitati dalla notte di veglia per i morsi di fame e pulci. I capifamiglia erano spesso gli ultimi a vedere la luce, rintronati dai bagordi della sera precedente e incuranti della famiglia da sfamare, problema secondario di fronte alla vastità dei fiumi di vino acetoso e torbido che allietavano le sciatte esistenze nelle cantine.

    Sulla sinistra di quel caotico agglomerato, uno stradone saliva verso la Porta Nova, scrutato da altre palazzine nei cui bassi sorgevano le putìche dei fabbri: era quella la calata dei forgiàri, dove gli artigiani ferravano molti ciucci e qualche cavallo, alquanto raro, costoso ed elitario.

    Dal catojo più dismesso sgusciò Ciccu, richiamato anch’egli dai fischi di massàru Peppi. Era abbigliato come la sera precedente, come quella prima e quella prima ancora. Già da un paio d’anni vestiva in quel modo, estate e inverno, caldo e freddo, pioggia e siccità: calzoni corti, quel che restava di una magliettina di cafioc stretta e pulciosa, e per scarpe calli e geloni impolverati. Camminava lesto e famelico, le gambe tese e rapide come zampette, agitate per raggiungere in fretta Marcello sul gradino del portone. A eccezione di un pigro eh con funzioni di saluto, non si rivolsero parola, restarono quieti, in attesa delle capre, accompagnati dai gorgoglii sempre più insistenti dello stomaco di Ciccu, il quale, dopo qualche minuto, ruppe il silenzio:

    «Non ti fare pigghiàre p’u culu da don Cola. È paccio, lo sanno tutti».

    La condanna dell’amico non gli andò giù:

    «Io lo sentii» tagliò deciso ogni replica.

    «Allora sei paccio pure tu!» puntandogli il dito in faccia.

    Marcello abbozzò, si strinse nelle spalle, si distrasse guardando l’ennesimo magnèse sputato da un catojo: non gli interessavano le infide dicerie del paese, per lui ciò che contava era quel pianto inconfondibile, ascoltato di sfuggita la sera prima. Gli parve di sentirlo ancora, ma il passaggio di una grande carrozza nobiliare allontanò il sospetto, cancellato dal fischio stridente del crapàro.

    Gerardo, ginocchio valgo e culo basso, trascinava un paio di zoccoli di legno consumati nella parte interna dalla pinguedine del bambino stesso. Al contrario di molti burghitàni, i massàri e i crapàri godevano del privilegio di combattere la fame grazie alle bestie pasciute e al raccolto che avrebbero dovuto cedere in buona parte agli gnuri, ma da cui riuscivano sempre a racimolare qualcosa, di furbizia o dirittìzza.

    Tra le mani tozze di massàru Peppi, il gotto fu riempito dalle minne turgide della capra e allungato furtivamente con acqua. Lesto come una faina, Ciccu lo strappò al crapàro e vi affondò il viso per succhiarne il contenuto, dimezzatosi in pochi secondi.

    «Basta! Basta!» si oppose il piccolo, tirando a sé il recipiente con un sussulto di paura e orgoglio che lo fece ruzzolare per terra, fra polvere e cacatine di capra. Poi fuggì, accompagnato dal sorriso di Ciccu segnato dal latte, soddisfatto per aver messo a segno un punto importante nella quotidiana

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