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La Soffitta
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E-book360 pagine5 ore

La Soffitta

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Info su questo ebook

Romanzo thriller ambientato negli anni novanta a Trieste, città che già dalla fine della guerra è stata un naturale cross point di traffici illeciti facilitati per la sua posizione al confini con i Paesi dell’Est e per essere un importante porto di mare. E’ la storia di Riccardo, il narratore, che si trova coinvolto in un traffico di droga con delitti e, nello stesso tempo, è anche la cronaca delle indagini svolte dal commissario di polizia Altamura. Due racconti separati che s’intersecano pagina dopo pagina e in cui, proseguendo nella lettura, i tempi che dividono l’inizio della storia dal momento delle indagini si accorciano fino a coincidere.
LinguaItaliano
Data di uscita5 lug 2012
ISBN9788862595841
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    Anteprima del libro

    La Soffitta - Paolo Carbonaio

    Carbonaio

    Personaggi:

    RICCARDO: il narratore

    DOTTOR CESARE ALTAMURA: il commissario

    ILARIA BONAVENTURA: la poliziotta

    RINALDO FLIP E MICHELE: i poliziotti

    DOTTOR LO SALVO: il medico legale

    ZITA E DEMETRIO VALONTANO: una coppia di anziani

    CAPITANO STANISLAO D'ALESSI: il vecchio militare

    EUFRASIA E BERNARDO MAZZA: la madre e il figlio

    TEOBALDA DE SARTI: la cantante d'opera

    OSCAR: il cane

    AUGUSTA DE URTIS: la professoressa di latino

    MATILDE BRASI: una donna indipendente

    FILIPPO: il gatto

    RAGIONIER ALFIO BENFATTO: l'amministratore di stabili

    IRMA COTOGNA: la moglie di Benfatto

    ILARIA COTOGNA: la suocera

    FERNANDA RAPES: la domestica

    MARISA DEROSSO: l'amica dell'amministratore

    EDVIGE MARIS: l'amica di Bernardo

    ROBERT ROBBINS: l'australiano

    LEON: il russo

    AMANDA COLZA: la padrona della Pensione Amanda

    KATJA, MARTA E SONIA: le «collaboratrici» di Amanda

    CASIMIRO: l'amico di Amanda

    1. Venerdì 11 novembre - Il cadavere stupefatto

    La porta si aprì con un rumore di ramo spezzato e ai due pompieri apparve un corridoio appena rischiarato dalle lampade dei poliziotti. Quasi fossero archeologi all'apertura di una tomba etrusca.

    I fasci di luce illuminarono un pavimento di legno opaco e, risalendo su per le pareti avorio sporco, colpirono un lampadario di vetro, desolato e deprimente come un impiccato dimenticato dopo un'esecuzione frettolosa. A destra, si aprivano due porte dai telai pesanti, neri. L'odore di chiuso pizzicava sgradevolmente le narici dei visitatori, incerti se superare la soglia. I pompieri si fecero da parte per lasciare passare i poliziotti, quindi li seguirono. Il silenzio amplificava i loro respiri.

    Il gruppo entrò nella prima stanza. Era un salone con due finestre chiuse e le persiane lasciavano filtrare timide schegge di luce. Il locale era vuoto. Uscirono e raggiunsero la seconda porta entrando in una stanza più piccola, con una sola finestra pure chiusa. La luce delle torce elettriche seguì le pareti spoglie, fermandosi nell'angolo opposto dove giaceva distesa una figura umana. Il corpo era prono, aveva le braccia distese lungo i fianchi, la testa piegata di lato. Mostrava sul volto un'espressione di profondo stupore; gli occhi erano spalancati. Dalla schiena si ergeva, come un obelisco, un manico bianco.

    Uno dei poliziotti si avvicinò al cadavere, l'altro aprì la finestra, aiutato dai pompieri. Quando la luce del giorno inondò la stanza, fu accompagnata dal gelido alito della Bora. Ai primi di novembre, Trieste rabbrividiva per il freddo e le vie erano deserte e spoglie come dei tutoli di pannocchie sgranocchiate.

    «Avrà avuto circa cinquant'anni.» commentò il poliziotto più anziano, illuminando il viso del cadavere. «Guarda che faccia allibita. Sembra che gli abbiano strappato da sotto il naso il biglietto miliardario della lotteria.»

    «Diavolo, è vero!» esclamò sorpreso l'altro, puntando la sua torcia in faccia al collega.

    Il collega gli tappò la torcia con il palmo della mano. «Chiama la centrale e avvertili che abbiamo trovato il corpo di un uomo, pugnalato. Devono venire per i rilievi.» e, rivolto ai due pompieri rimasti silenziosi presso la porta: «Uscite dalla stanza, non voglio lasciare troppe impronte sulla polvere del pavimento.»

    Il pompiere più impressionabile lasciò subito la stanza, raggiungendo nel corridoio l'altro poliziotto intento a parlare nella radio ricetrasmittente, mentre il pompiere rimasto s'inginocchiava per passare le dita della mano sul pavimento vicino ai propri stivali. «Non credo che lasceremo molte impronte, non c'è un solo granello di polvere. Qualcuno lo ha spazzato per bene.» commentò, rialzandosi.

    Il pavimento era perfettamente pulito. Vecchio, consumato e opaco ma pulitissimo. Il poliziotto accanto al cadavere si guardò d'attorno, afferrò il braccio sinistro del morto sollevandolo appena: il lato della manica dell'impermeabile nero antracite che prima poggiava a terra, era grigio di polvere. Sembrava che quella fosse l'unica polvere della stanza. Perplesso, lasciò la manica e senza una parola uscì dalla stanza assieme al pompiere, richiudendosi la porta alle spalle.

    Oltre alle due stanze già ispezionate, l'appartamento aveva una cucina, uno sgabuzzino e un piccolo gabinetto. Tutti gli ambienti erano sporchi e abbandonati da anni. Mezz'ora dopo, l'appartamento era pieno di gente, colleghi e superiori degli agenti, fotografo, esperti d'impronte e medico legale. Furono aperte tutte le finestre. Il silenzio scomparve d'incanto, per il cicaleccio della gente. Tutti commentavano l'espressione stupita del cadavere. Lo stabile si rianimò e i pochi inquilini anziani, dietro le porte socchiuse, osservavano l'andirivieni continuo, ma nessuno fece domande. Attendevano in silenzio.

    Constatata ufficialmente la morte, il medico legale, dottor Lo Salvo, rimase accanto al cadavere con il commissario Altamura che, nell'attesa del suo parere, se ne stava serio e perplesso, le mani nelle tasche del cappotto.

    «È un maschio dell'età apparente di cinquant'anni. Morto da non più di due, forse tre giorni.» dichiarò Lo Salvo. «Si suppone che la morte sia avvenuta per un colpo inferto alla schiena con un grosso pugnale.» Scoccò un'occhiata ironica al poliziotto, aggiungendo: «Con il manico bianco, e questa non è una supposizione.» Si astenne dall'indicare il manico, che spuntava ben evidente dall'impermeabile nero. «La morte deve essere sopraggiunta nell'arco di pochi secondi. Potrò essere più preciso in merito solamente dopo l'autopsia.»

    «Ma l'assenza di sangue, dottore, come la spiega?»

    «Col fatto che la lama del pugnale che ha provocato la ferita di punta, certamente mortale, rimanendo conficcata nel dorso dell'uomo, assieme alla stoffa degli abiti pressata dall'impugnatura, ne ha impedito la fuoriuscita.» precisò il medico. «Vede, il colpo è stato inferto ortogonalmente alla schiena e la lama è penetrata fino all'impugnatura.» Osservò il commissario per vedere se avesse capito. «Insomma, la ferita, probabilmente grazie alla forma sottile che dovrebbe avere la lama, non si è slabbrata e il pugnale rimanendo conficcato nel corpo ha tappato la ferita impedendo al sangue di defluire. Un colpo inferto con forza notevole.»

    «Grazie, dottore, e dell'espressione stravolta?»

    «Stravolta? Io direi esterrefatta, commissario.» ribatté il medico, fingendosi serio.

    «Stupefatta. Sì, allibita, stupefatta.» convenne il poliziotto. «Ma perché?»

    «Forse essere accoltellato non era nei suoi programmi.» fece l'altro, alzando le spalle.

    «Evidente.» ammise Altamura, guardando Lo Salvo con un sorriso. «È una spiegazione scientifica, o ne prendo nota per ricordarla nei momenti di malinconia?»

    «Sarà bene che la annoti, perché non la troverà nella perizia.» concluse Lo Salvo, chinandosi nuovamente sul corpo.

    Il commissario osservò il medico che, non senza difficoltà, estraeva il pugnale dalla schiena dell'uomo e lo infilava in una busta di plastica, quindi attese pazientemente che si togliesse i sottili guanti di gomma e gli strinse la mano. «Dottore, la faccio riaccompagnare e sarà avvertito non appena le porteranno il corpo. La ringrazio.»

    «Di nulla» mormorò il medico. «Ci risentiamo.»

    Il cielo si era annuvolato, coprendo tutto di grigio peltro, mentre il fotografo e i tecnici di laboratorio si davano un gran da fare alla gelida luce di potenti lampade portatili. Il commissario eseguì una veloce ma accurata perquisizione del cadavere, dopo averlo girato sulla schiena. Era sporco di polvere sulla parte anteriore del soprabito. Il volto dell'uomo, a prescindere dall'espressione di statica sorpresa che in quel contesto si stava dimostrando fuori luogo e inadatta alla circostanza, aveva un paio di folti baffi neri e una bocca carnosa. Gli occhi erano nocciola, le guance mal rasate e i capelli corti e scuri. Sotto l'impermeabile nero antracite, un capo da poco prezzo, aveva un maglione blu da marinaio, una camicia azzurra di buona fattura, ma con il colletto liso, pantaloni di velluto blu scuro, calze da ginnastica e scarpe da barca in cuoio con la suola di gomma bianca, molto consumata.

    Le tasche dell'impermeabile e quelle dei pantaloni erano vuote, nessun documento che potesse permettere di identificare l'uomo. C'era solamente un fazzoletto verde con ricamate le lettere «R.R.» in corsivo. Al polso sinistro, sotto il polsino liso della camicia, c'era un orologio di valore, un Rolex Oyster Submariner con cassa e cinturino d'acciaio. Nessun anello. L'unico oggetto particolare che lasciò subito perplessi i presenti, fu una carta da gioco infilata nel taschino della camicia. Un sei di fiori nuovo, con stampata sul retro la pubblicità del Lloyd Triestino di Navigazione.

    Si procedette a un'accurata perquisizione dell'intero appartamento senza trovare nulla, ma si costatò, con meraviglia, che solamente la stanza del cadavere e la parte di corridoio fino all'entrata principale risultavano meticolosamente puliti. Alla fine, la porta fu chiusa con un filo metallico e fu apposto un sigillo.

    Il vecchio stabile, composto di cinque piani, non aveva ascensore. Su ogni pianerottolo si aprivano due porte a doppio battente e risultavano occupati solamente quattro appartamenti in tutto: due al primo piano, uno al secondo e uno al quarto. L'appartamento del delitto era situato al quinto e ultimo piano, subito sotto le soffitte. Lo stabile aveva bisogno di una seria manutenzione e di una vigorosa pulizia e l'atmosfera avrebbe rattristato l'animo anche al più grande ottimista.

    Il commissario, uomo dal carattere ordinato, decise di iniziare a interrogare gli inquilini dal primo appartamento e scese le scale, seguito da una collega. Giunti al primo piano, si fermarono di fronte alla porta contraddistinta dalla lettera «A»: sulla targhetta c'era scritto «D. Valontano». La porta era socchiusa e fu prontamente aperta da una signora anziana, piccola e magra come un grissino. Vestiva di nero a pallini bianchi. Sulle spalle, un ampio scialle rosa. Una retina sulla testa grigia e ai piedi delle babbucce di pelo finto.

    «Accomodatevi.» li invitò, spostandosi da parte per farli entrare. «Sono Zita Valontano.» Aveva una vocina esile e tenendo lo sguardo rivolto a terra li pilotò a passettini in una sala da pranzo dall'arredamento vecchio e modesto, anni quaranta. La stanza era occupata dal marito Demetrio. Il padrone di casa, un uomo di un'ottantina d'anni a voler essere ottimisti, era alto, magro e con la schiena curva per l'età; il cranio completamente calvo, gli occhi chiarissimi, lo sguardo perso. Aveva un apparecchio acustico all'orecchio sinistro. L'anziano indossava un'ampia vestaglia pesante, marrone, che lasciava intravedere di sotto i pantaloni di un pigiama di flanella e, ai piedi, delle pantofole di feltro. Si sosteneva a un bastone con il manico giallo ricurvo.

    Si ripeterono le presentazioni, grazie all'aiuto della signora Zita, ma al commissario sembrò che l'uomo non avesse compreso nulla, nonostante la moglie avesse intenzionalmente parlato con un tono di voce molto alto. La donna aiutò il marito ad accomodarsi al tavolo, presso il quale si sedette al suo fianco tenendo la mano dell'uomo nella sua. I poliziotti si sedettero di fronte e Ilaria estrasse dalla tasca un blocco per appunti e una penna che appoggiò sul tavolo.

    Dopo qualche secondo di silenzioso imbarazzo, il commissario iniziò a interrogare la signora.

    «Signori Valontano, vivete qui da molto?»

    «Da quando ci siamo sposati, cinquantasette anni fa. Io avevo appena diciotto anni.» rispose la moglie, mentre il marito annuiva continuamente con il capo, l'espressione indifferente.

    «Vi risulta che qualcuno occupasse l'appartamento «L» al quinto piano?»

    La donna, prima di rispondere, si girò verso il suo compagno, attendendo che l'uomo rispondesse direttamente, ma era un gesto dettato da anni d'abitudine: il marito continuò ad annuire meccanicamente senza badarle. La sua era una presenza virtuale.

    «Sono più di vent'anni che è vuoto.» precisò la donnina. «Prima che morisse la povera signorina Hauppfenner.» poi, indicando con gli occhi tristi il marito, come scusandosi, aggiunse: «Dovete avere pazienza, ma è completamente sordo e poi... l'età e i dispiaceri l'hanno cambiato. Non è qui con la testa.»

    Il dottor Altamura le sorrise, dedicandole uno sguardo di commiserazione. «Non si preoccupi, togliamo subito il disturbo, solo un paio di domande ancora.» la rassicurò. «Cosa mi diceva della signorina Hauppfenner?»

    «Sì, la padrona dello stabile. È morta quattro anni fa.»

    «Negli ultimi giorni, ha notato estranei sulle scale, in particolare un uomo alto, nero di capelli e con i baffi? Indossava un impermeabile scuro.»

    «No, nessuno. Solamente gli altri inquilini.»

    «Nemmeno dei rumori? Due o tre giorni fa, un grido, un urlo, provenire dal quinto piano?»

    «No.» e aggiunse, come a voler confermare la dichiarazione: «Lo giuro, commissario. Lo giuro.»

    «E suo marito? Forse lui ha notato o sentito qualcosa. Pensa che possa ricordarselo?»

    «No. Siamo quasi sempre assieme. Rimane da solo il mattino, il tempo che esco per fare la spesa.» si girò, guardandolo amorevolmente. «Lui rimane seduto sul divano davanti alla televisione, con una coperta sulle ginocchia e il volume alto. Senza di me, non sarebbe nemmeno capace di alzarsi per andare al gabinetto.» Indicò l'apparecchio acustico del compagno.

    «Forse qualche vicino le ha raccontato di aver notato qualcuno?» insisté il poliziotto.

    «Figuriamoci, siamo quattro gatti e c'incontriamo raramente e poi, se qualcuno avesse notato qualcosa di strano, l'avrebbe raccontato. Abbiamo paura dei ladri, in casa siamo rimasti pochi.»

    «Grazie. Siete stati molto gentili. Se dovesse ricordare qualche particolare strano, le lascio il mio nome e il telefono.» Il commissario le consegnò un biglietto da visita e si alzò in piedi, seguito dalla collega.

    La poliziotta rimise in tasca i suoi appunti. Aveva annotato solamente i nomi dei due coniugi e nient'altro, a parte poche laconiche parole racchiuse tra parentesi: (Qui si è perso tempo!).

    La signora Valontano li accompagnò alla porta. «Provate a domandare al capitano D'Alessi, qui di fianco. Ha più anni di mio marito, ma è ancora in gamba. Lui dorme poco e se ha notato qualcosa lo ricorderà certamente.» Richiuse la porta facendo scorrere il catenaccio.

    Sulla porta dell'appartamento «B» c'era una targhetta nera, con scritto in lettere dorate «Cap. Stanislao D'Alessi». Suonarono e la porta si aprì immediatamente e un uomo alto e magro li accolse. Era molto anziano, ma a differenza del vicino si manteneva ritto in piedi, impettito e ancora prestante, con i capelli bianchi tagliati a spazzola, un volto serio e i folti baffi ben curati, bianchi come i capelli. Indossava una giacca da camera verde militare; sotto, aveva una camicia bianca con una cravatta grigia a righine rosse, pantaloni grigi e scarpe nere con i lacci, perfettamente lucidate. Non diede il tempo al commissario di aprire bocca e si presentò subito, porgendo la mano tesa. «D'Alessi, capitano Stanislao D'Alessi. In congedo naturalmente.» dichiarò con voce profonda e sicura.

    Il commissario prese la mano che l'uomo gli porgeva, ricevendone una stretta vigorosa; gli sembrò anche di sentire il secco rumore di due tacchi che sbattevano tra loro. «Commissario Cesare Altamura e questa è l'agente Bonaventura. Possiamo entrare?»

    «Certamente.» concesse l'uomo e, sempre rigidamente impettito, li fece entrare.

    Entrarono in una piccola anticamera poco illuminata. Sulle pareti, erano appese delle lance africane, scudi di pelle colorati e contornati da festoni di paglia secca. Da lì entrarono in un piccolo salotto arredato con un sofà, due poltrone e una libreria piena di volumi. Sulle mensole e sulle pareti libere, c'erano fotografie con ritratti numerosi personaggi in divisa coloniale; ufficiali bianchi con il casco e indigeni con il fez in testa. Sotto un quadro raffigurante una carica di cavalleria, stava appesa una sciabola nel suo fodero; l'elsa e il paramano erano lucidati a specchio. In un angolo, un impianto stereo con due grandi altoparlanti e su di un tavolino, una pila di dischi. Il commissario notò che il primo disco era una raccolta di marce militari.

    «Capitano, vedo che lei ha fatto la guerra d'Africa.» disse, fermandosi ad ammirare le fotografie.

    «Sì, sono stato in Abissinia, nel trentasei. Ho avuto l'onore di partecipare alla nascita dell'Impero dell'Africa Orientale Italiana. A quei tempi, anche il nostro Paese aveva le sue colonie.» e aggiunse in tono risentito: «Come gli Inglesi.»

    I due poliziotti si accomodarono sul sofà mentre il loro ospite rimase in piedi, in mezzo alla stanza.

    «Saranno stati per lei tempi gloriosi, capitano.» continuò a informarsi il dottor Altamura. «Avrà molti ricordi.»

    «Tempi passati e defunti e i ricordi sono le uniche cose che mi rimangono.» D'Alessi rimase in piedi, le mani unite dietro la schiena, la faccia seria e gli occhi fissi sulla sciabola. Sembrava pensare con orgoglio al tempo in cui la portava.

    «Desideriamo farle alcune domande in merito a...»

    L'anziano militare lo interruppe, alzando la mano. «Signor commissario, le posso assicurare che l'appartamento dell'ultimo piano è disabitato da anni e che ultimamente non ho visto nessun estraneo aggirarsi nella casa, salvo alcuni operai tre giorni fa e più precisamente martedì otto, alle sei del mattino. Ne sono assolutamente certo.» Parlò di getto, come se si trovasse di fronte ad un superiore per fare rapporto.

    Altamura, sorpreso, trattenne a stento un sorriso. «Vedo che ha già pronte le risposte alle mie domande. La ringrazio capitano, ma come fa a esserne così certo?»

    «Alla mia età si dorme poco e poi sono un buon osservatore. Conseguenza della noia e del tanto tempo libero che mi rimane.»

    «Capisco. Mi parli degli operai.»

    «Erano due, vestiti con giacconi scuri, guanti e berretti di lana. Stavano fermi sul marciapiede, di fronte al portone. Discutevano tra loro e più volte hanno indicato verso l'alto. Ho pensato subito che si riferissero al tetto e al cornicione. È tutto in completo abbandono, nessuno si occupa della manutenzione da quando è morta la proprietaria dello stabile, almeno tre anni fa.»

    «Qualcuno ha parlato con questi operai?»

    «Non credo. Poi sono entrati, avevano le chiavi, e sono saliti direttamente. Le chiavi le avranno ottenute dall'amministratore, il ragionier Benfatto. Non li ho più visti uscire e per la verità sono rimasto alla finestra per altre tre ore, ascoltando musica alla radio. La musica è la mia gran passione.»

    «Quindi, non avendoli visti uscire nelle tre ore successive, lei pensa che siano rimasti in casa tutto questo tempo. Avrebbero potuto lasciare la casa passando da un'altra parte senza che lei li potesse vedere?»

    «Non ci sono altre possibilità, solamente dal portone. In ogni caso, sono uscito alle nove del mattino. Ho l'abitudine di camminare, anche se fa freddo.» e aggiunse: «Per un militare come me, il freddo e il caldo sono sensazioni che si tengono sotto controllo con la forza della volontà.»

    «Quindi sono saliti da soli e ci sono rimasti per almeno tre ore. Evidentemente hanno eseguito subito la riparazione per la quale erano venuti. Ne parlerò con l'amministratore. Può ripetermi il nome?»

    «È il ragionier Alfio Benfatto, ma dubito che quella gente abbia lavorato. Non avevano nulla con loro, né una borsa per gli attrezzi, né un blocco di carta o un metro per prendere delle misure.»

    «Lei è un buon osservatore, ma avrebbero potuto avere carta, penna e metro in tasca, non le pare?»

    «Forse, ma nessuno di loro mi sembrava un capo mastro oppure un geometra e, a pensarci bene, sembravano marinai, non operai.»

    «Interessante, ma forse sono saliti nel sotto tetto, nelle soffitte e lì avevano già l'occorrente, lasciato da una visita precedente.» incalzò il commissario.

    «Impossibile, avrebbero dovuto avere la chiave. La botola all'ultimo piano è chiusa con un vecchio lucchetto e la chiave la tengo io in custodia da anni.»

    «Un'ultima domanda, capitano. Circa tre giorni fa ha sentito qualche rumore forte, un urlo per esempio?»

    «Nessun urlo e tanto meno nessun colpo d'arma da fuoco commissario, di revolver o di moschetto, almeno fino alle nove. Gli unici rumori erano quelli del televisore dei signori Valontano. Lo tengono così forte che di sera devo mettere le cuffie per ascoltare il giradischi.»

    «Perché mi parla di colpi d'arma da fuoco, capitano?»

    «Perbacco. Ho sentito che qualcuno è stato assassinato. Ecco perché!»

    «Ma è stato pugnalato.»

    «Ah! Un delitto all'arma bianca. Non lo avevo capito, commissario.»

    «Grazie. È stato molto preciso, ma ora dovrei parlare con gli altri inquilini.»

    «Dovere, signor commissario.»

    Il capitano D'Alessi si alzò per accompagnarli alla porta e volle a tutti i costi fare il baciamano alla collega di Altamura.

    «Signorina, è stato un vero piacere conoscerla. Non avrei mai immaginato che un giorno avrei baciato la mano a una bella e giovane donna che porta la pistola. I miei ossequi.»

    Ilaria diventò rossa come un semaforo.

    «Grazie... lei è un vero gentiluomo.» rispose imbarazzata, poi fu letteralmente spinta fuori dal commissario.

    Quando la porta si richiuse alle loro spalle, la ragazza si voltò a guardare il battente chiuso con un'espressione compiaciuta. «Nessuno mi aveva fatto il baciamano. Si nota subito un vero ufficiale.»

    Prendendola per la manica del giaccone, Altamura la tirò verso le scale; desiderava finire al più presto gli interrogatori degli inquilini.

    «Vieni Bonaventura e non ti montare la testa che, probabilmente, ti stava prendendo in giro.» le sorrise ironico. «Potrebbe essere tuo nonno.»

    Salendo le scale, il commissario si fermò a metà della rampa, prese dalla tasca un foglietto sgualcito infilato in una busta di plastica e si mise a leggerlo, per l'ennesima volta. C'era scritto:

    Messaggio per la polizia

    Sono al quinto piano di Via Gatteri 45 (int. L) venite a prendere il mio cadavere.

    Cordiali saluti, vostro R.R.

    p.s. buona fortuna per le indagini

    Il biglietto, un normale foglio di carta tagliato a metà, era scritto a mano in stampatello e con una penna biro nera. La scrittura era decisa e ben marcata, sul retro del foglio si notavano le parole in rilievo.

    Al secondo piano, nell'unico appartamento occupato, abitava la signora Eufrasia Mazza, anch'essa anziana. Piccola e grassottella, sembrava la cuoca di un'osteria di campagna. Venne ad aprire indossando una vestaglia azzurra e con i capelli grigi coperti da un fazzolettone a fiori. Sulle pareti del corridoio erano appese numerose immagini sacre. Nella sala da pranzo dove furono fatti accomodare, oltre al tavolo con le sedie, c'era un'ampia credenza con sopra un altare composto di numerose statuette di santi, lumini accesi e l'immagine del Papa in una cornice di plastica dorata. Alle pareti, altre immagini sacre.

    La signora Eufrasia non sapeva nulla; in piedi e con le mani giunte in atteggiamento di preghiera, sembrava una martire cristiana nell'attesa del supplizio.

    «No, signore, non ho visto nessun estraneo per le scale» dichiarò, facendosi ripetutamente il segno della croce. «E poi, davanti alla mia porta non passa mai nessuno, a parte la signorina De Sarti del quarto piano e lei esce pochissimo, solamente per fare la spesa, oppure quando va a Udine a trovare la sorella. La signorina vive da sola con un cagnolino.»

    «Ma tre giorni fa, martedì, sono venuti degli operai. Non ricorda nulla?»

    «Non lo sapevo. Strano, li avrei sentiti, sono sempre in casa.» e precisò, come a volersi scusare: «Saranno passati dopo pranzo, quando vado a riposare per un paio d'ore.»

    «E rumori forti, oppure un urlo?» incalzò il poliziotto.

    «Nessun rumore, lo giuro, a parte l'abbaiare del cane di sopra.» pigolò la signora Eufrasia.

    «Lei abita da sola, signora?»

    «No... c'è anche mio figlio Nardo, ma adesso è assente.» Sembrava titubante.

    «Suo figlio si chiama Nardo?» le domandò, perplesso, Altamura.

    «No. Io lo chiamo Nardo, ma si chiama Bernardo.»

    «E da quanto tempo è via?»

    «Da alcuni giorni... mi sembra. Forse da una settimana... due.»

    «Che lavoro fa suo figlio, signora Mazza?»

    «Il facchino.»

    «Dove?»

    «Non so. In una ditta di traslochi.»

    «Conosce il nome della ditta?»

    «No... mi dispiace. Ricordo solamente che ha un collega che si chiama Riccardo. Una brava persona, il signor Riccardo, molto educata e gentile.»

    «Si ricorda almeno dove sia andato suo figlio?»

    «Sarà in vacanza da qualche parte, forse con un'amichetta.» mormorò la donna facendo spallucce e scuotendo la testa.

    Il poliziotto le fece promettere che li avrebbe avvertiti del ritorno del figlio e, seguito dalla collega, lasciò l'appartamento per l'ultima visita al piano di sopra.

    Sul suo notes, Ilaria aveva scritto, accanto al nome Eufrasia Mazza: (Vedi Valontano - altro tempo perso). Accanto a quello del capitano D'Alessi: (operai - baciamano, un vero cavaliere). I suoi appunti non si potevano certamente considerare materiale rilevante e indispensabile per l'indagine, ma aveva poca importanza, tanto il commissario non li avrebbe mai letti.

    Il nome sulla targhetta ovale d'ottone lucido portava inciso «Teobalda De Sarti - Artista». La porta dell'appartamento era difesa da quattro serrature e il suono del campanello riproduceva quello delle campane di Notre Dame di Parigi. Appena il commissario lo pigiò, dall'interno esplose un furioso abbaiare.

    «Oscar, ti prego, fai il bravo. Smettila, tesoruccio mio.> diceva una voce femminile. «Basta abbaiare, che poi ti viene la tosse.» e aggiunse: «Se stai buono, ti do un biscottino.» E così via, ma sembrava che fosse del tutto inutile, l'abbaiare del cane assomigliava a una tosse stizzosa. Quando la porta iniziò ad aprirsi, l'abbaiare cessò improvvisamente. La donna che venne ad aprire era di una testa più alta del commissario. Aveva i capelli tinti di azzurrino come la fatina di un cartone animato, un faccione tondo e pesantemente truccato; il corpo massiccio, per non dire troppo grasso, un seno prosperoso e il tutto avvolto in una vaporosa vestaglia cinese rossa e nera, con draghi e fiori.

    «Desidera?» domandò la donna, tenendo la porta socchiusa, bloccata da una robusta catena.

    «Sono il commissario Altamura. Lei è la signorina De Sarti?»

    «Sono io. Teobalda De Sarti.» confermò la donna, con una voce calda dalla dizione perfetta.

    Sorpreso, il commissario si dimenticò di presentare la sua collega. Era rimasto affascinato dalla donna, che aveva di sicuro superato la sessantina. Sia dalla voce sia dall'atteggiamento, immaginò che ai suoi tempi doveva essere stata una cantante d'opera e una donna molto bella. «Signorina, la prego di voler rispondere ad alcune domande. Mi permette di entrare?» le domandò ossequioso.

    «Prima mi mostri un documento!» gli ordinò la De Sarti, osservandolo sospettosa. «Con tutta la gente che circola oggi in casa, lei potrebbe essere un malintenzionato.»

    Era una richiesta sconcertante, poiché a fianco dell'uomo c'era un'agente in divisa della polizia. La signorina osservò con attenzione il documento e, dopo aver nuovamente squadrato i due, sganciò la catena spalancando la porta. L'appartamento si trovava sotto a quello del cadavere e la sua disposizione era eguale. Sontuosamente arredato, con spessi tappeti e pareti rivestite. C'erano numerose fotografie d'artisti in costume di scena, racchiuse in elaborate cornici di metallo dorato e argentato, manifesti teatrali e un'infinità di bambole, ognuna vestita con costumi d'epoca. Presumibilmente, gli stessi personaggi interpretati dalla cantante.

    L'artista li fece accomodare in salotto dove, su di un divano di legno dorato e foderato di raso, sedeva eretto un cagnolino. Era un volpino dal pelo bianco e lungo e accolse i visitatori con un altro estenuante concerto d'abbaiamenti e colpi di tosse secca. Un vero tormento.

    «Bravo Oscar e, adesso che hai salutato, scendi dal divano e mettiti lì, buono e tranquillo.» gli ordinò la padrona con un tono mielato e accarezzandolo delicatamente

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