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Come una funambola
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E-book263 pagine2 ore

Come una funambola

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Info su questo ebook

Il mostro appare quando meno te lo aspetti. Sorprende la vita in un punto preciso e la stravolge, trasformandola in un campo di battaglia. Così è stato per l'autrice di "Come una funambola" quando ha dovuto affrontare il primo corpo a corpo con la bestiaccia che atterrisce: il cancro. Quando accade non c'è tempo da perdere, bisogna reagire e lottare. Lei lo ha fatto affidandosi ad un oncologo speciale, il dottor Zeta, un medico melomane che discute di libri e di filosofia mentre predispone la strategia più efficace per curare la sua giovane paziente. Lo ha fatto rimasticando la sofferenza e la paura, giorno dopo giorno, dalle pagine del suo blog (www.ilmiokarma.wordpress.com), aperto un anno prima che il mostro riapparisse, condividendo con i lettori esami e diagnosi, i resoconti delle visite con il dottor Zeta, le sedute di chemioterapia e le difficoltà di conciliare la vita quotidiana con i campi di battaglia. "Come una funambola" è un libro che non dà lezioni, ma testimonia il percorso di cura e di coscienza di una donna che ha saputo resistere agli assalti del cancro, piegandosi quel poco che serve a potersi rialzare, fra battute di arresto e vittorie importanti. In bilico, ma senza perdere la presa sulla vita.
LinguaItaliano
Data di uscita19 lug 2012
ISBN9788867550586
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    Anteprima del libro

    Come una funambola - Giorgia Biasini

    Giorgia Biasini

    Come una funambola

    Dieci anni in equilibrio sul cancro

    Dedicato a chi funamboleggia e ancora combatte

    A papà, con nostalgia

    A distanza di quasi due anni ho deciso che è tempo di rendere disponibile Come una funambola anche in formato elettronico, tanto per restare al passo con i tempi.

    L’edizione cartacea si ordina su ilmiolibro.it, lafeltrinelli.it e in tutte le librerie Feltrinelli.

    Giorgia Biasini

    Roma, luglio 2012

    Il rapporto tra medico e paziente, soprattutto se la malattia è lunga e importante, evolve e si approfondisce nel tempo, condizionato dagli eventi, come succede in un matrimonio o in una qualunque altra relazione di coppia.

    All’inizio è necessario un certo distacco, per sfrondare la relazione da quegli aspetti emozionali che distolgono da una visione chiara e distinta delle cose, necessaria sia al medico che al paziente. Il primo deve essere concentrato nella valutazione del caso, il secondo deve comprendere che tipo di terapia gli si prospetti e, soprattutto, quale sia la posta in gioco.

    Dopo, quando il rapporto è maturato e si sono superati gli inevitabili conflitti iniziali, si arriva a poter scegliere insieme cosa fare. Il ritmo delle cose si regola secondo un tempo e per necessità condivise.

    Il paziente, al di là dei dettagli tecnici, diventa medico di se stesso e il medico diviene anche lui un poco paziente.

    Raggiungere questo prezioso equilibrio è raro, ma non impossibile.

    E’ allora che si combatte la stessa battaglia e si condivide la stessa trincea.

    Il dottor Zeta

    (Germano Zampa, il mio oncologo)

    Roma, 24 ottobre 2008

    È una giornata grigia di ottobre. Pioviggina, e come sempre l’ombrello tascabile ha una stecca rotta. Non riesco più ad essere puntuale come un tempo, forse perché considero la durata degli spostamenti qualcosa che sottrae minuti preziosi alla vita, e quasi senza accorgermene li annullo.

    Sono già le due, il dottor Zeta mi sta aspettando per una visita lampo e per andare insieme all’ultimo sit-in organizzato per scongiurare la chiusura imminente dell’ospedale che frequento da nove anni.

    Quando varco il portone dell’edificio da via Ripetta cerco di fissare bene le immagini degli striscioni, dei cartelli, dei lenzuoli appesi nel cortile. Nella mia memoria e in quella della fotocamera che ho deciso di portarmi per documentare l’ultimo giorno di vita dell’ospedale romano San Giacomo. C’è aria di smobilitazione, ma curiosando tra i capannelli di medici e infermieri attorno ai banchetti dove si continuano a raccogliere le firme per la petizione contro la chiusura, qualcuno ancora si dice convinto che non può finire così e che la Regione dovrà fare marcia indietro.

    Salgo al secondo piano, e vedere il reparto di oncologia fresco di ristrutturazione, con i divani blu per l’attesa e il bancone della reception, fa aumentare a dismisura la mia rabbia.

    - Ci hanno detto che lunedì dobbiamo stare di là - mi dice la caposala, sconsolata. - Non immaginavo che sarebbe arrivato davvero questo giorno.

    Di là è il presidio ospedaliero in cui sarà trasferito il personale del reparto oncoematologico. Non avranno nemmeno un letto per le degenze, non potranno utilizzare strumentazioni nuove di zecca, la farmacia digitale, e andrà persa la preziosa collaborazione con gli altri reparti, che verranno smembrati qua e là.

    - Nemmeno io, Anna. Non avrei mai immaginato che ci sarebbe stata davvero un’ultima visita.

    - Eh, chissà. Vai, che Zeta ti aspetta. Poi andiamo tutti al sit-in.

    - Sì, certo, speriamo di ottenere un po’ di spazio alla Rai. Allora vado, tanto Zeta mi deve solo prescrivere i prossimi esami.

    Mi affaccio nella stanza socchiusa, dove giacciono accatastati gli scatoloni appena trasferiti dal vecchio reparto.

    - Vieni, vieni, - mi invita il dottor Zeta. Davanti a lui c’è una ragazza che sta prendendo appunti. Me la presenta, è una giornalista che sta seguendo la vicenda della chiusura dell’ospedale. Io vengo presentata come una paziente storica.

    - Stanno facendo qualcosa di peggio che chiudere un ospedale, - sta dicendo Zeta. - È lo smembramento di una comunità. Proprio ora che tutti parlano di umanizzazione della medicina. Qui la pratichiamo davvero: non ci sono liste di attesa per fare la chemio, né palleggiamenti da un medico a un altro come accade nei grandi ospedali, qui si instaura sul serio un rapporto medico-paziente.

    - Lei teme per il proseguimento delle sue cure? - mi chiede la giornalista.

    - Per il momento le mie cure sono finite, devo fare solo i controlli periodici - spiego facendo gli scongiuri. - Però temo per la qualità delle cure degli altri, per le inevitabili difficoltà che sicuramente incontreranno nei prossimi mesi. Io il dottor Zeta lo seguirò ovunque, ma non si può far passare per razionalizzazione dell’organizzazione sanitaria un'operazione che peggiorerà enormemente la qualità dell'assistenza e la vita già difficile di molte persone.

    Lei scrive, io guardo l’orologio. Zeta si accorge che faremo tardi e dobbiamo ancora parlare dei miei esami per il controllo che dovrò fare tra un mese e mezzo.

    - Ci scusi, ma ora devo salutarla. Vede, ho ancora pazienti da visitare…

    - Sì, certo, però se non le dispiace la disturberò ancora. E se ci sono novità mi faccia sapere, per favore.

    - Volentieri, e lei continui a scrivere di noi. Siete in pochi a farlo.

    La giornalista esce e Zeta tira fuori la mia lunga e fitta cartella clinica, nove anni di storia della mia salute.

    - Vuoi portartela via? - mi chiede.

    - Se non ve la perdete preferisco lasciartela, anche per scaramanzia. Magari ci sarà una proroga, e poi chissà, alla fine questi pacchi potrai finalmente svuotarli e riempire gli scaffali di questa bella stanza.

    - Se la proroga significa prolungare l’agonia preferisco andarmene subito. Così è un inferno. Ma parliamo di te, che tutta questa storia non deve farci dimenticare le cose importanti, quelle per cui siamo qui.

    - Già - faccio io, che mi sono buttata a capofitto nella lotta contro la chiusura prima di tutto perché il medico che ho di fronte è l’acuto stratega delle mie battaglie.

    - Allora, quali esami devo fare per il prossimo controllo? I soliti?

    Lui apre la cartella e scorre le righe finali. - Stavolta farai anche una Tac. È passato quasi un anno dall’ultima che hai fatto.

    Io sospiro, quegli appuntamenti con l’esplorazione approfondita del mio corpo sono sempre una fonte incredibile di stress. Ma grazie a quelle scadenze è possibile scoprire se le cose ricominciano a mettersi male e iniziare subito nuovi piani di attacco. La diagnosi precoce, come si dice nelle trasmissioni televisive, è l’arma decisiva per sgominare il cancro.

    - D’accordo, farò la Tac. Comunque sono venuta anche per portarti questo, - gli dico tirando fuori dalla borsa il manoscritto rilegato e poggiandolo sulla scrivania, accanto alla cartella clinica. - Finalmente l’ho finito.

    - Oh, che bello!- esclama cominciando a sfogliarlo, - sono curiosissimo di leggerlo.

    Proprio in quel momento la caposala spalanca la porta, e con lei si affacciano un paio di colleghi del dottor Zeta. - Allora? Non si va?

    - Si va, si va.

    Prima di uscire scatto qualche foto: gli scatoloni, la mia cartella clinica, i quadretti ancora appesi al muro, Zeta che sfoglia il mio libro.

    Dalle finestre del corridoio scatto ancora: le due ambulanze inutilizzate in cortile, gli striscioni, i manifesti, gli articoli di giornale appesi un po’ ovunque.

    Mentre scendiamo le scale e attraversiamo il cortile siamo ammutoliti dal magone che in ciascuno assume forme e ricordi diversi. E nell’istante in cui varco il portone dell’antico ospedale, non posso fare a meno di ripensarmi in questo stesso luogo, quel giorno di nove anni fa, quando ho avuto il primo segnale che stava per infuriare la battaglia e piangevo terrorizzata tra le braccia di mia sorella.

    Nella battaglia

    16 ottobre 1999

    Quest’estate, quando ho visto il viso di Sten rabbuiarsi dopo avermi fatto una carezza sono scappata in bagno a palparmi ‘sto maledetto bozzetto sul seno destro, che mesi fa un ginecologo scriteriato aveva considerato una ghiandola ingrossata per la brusca interruzione dell’allattamento.

    - È cresciuto moltissimo, devi fartelo vedere - ha insistito preoccupato Sten.

    Era vero. Chiusa in bagno continuavo a palparlo, guardandomi allo specchio, mormorando quasi in trance che il cancro può manifestarsi così: era successo a mia madre molti anni prima, ma lo avevano preso in tempo e curato. A quel ginecologo che era arrivato in ritardo quando ho partorito Lula, perché le sue previsioni evidentemente sono sempre sballate, lo avevo detto: ho una familiarità materna, sicuro che non c’è da preoccuparsi? Non c’era da preoccuparsi.

    Così ho saltato il controllo successivo, a ridosso dell’estate, lasciando incautamente che l’alieno, il mostriciattolo, crescesse indisturbato.

    Finalmente ho deciso di affidarmi alla persona più adatta, il ginecologo di famiglia che ha operato mia madre undici anni fa e dove ogni tanto vado anch’io quando perdo la fiducia negli altri medici.

    L’appuntamento è all’ambulatorio di senologia dell’ospedale San Giacomo, dove il dottor Emme svolge la sua attività ospedaliera: cose come far nascere bambini, controllare seni, estirpare fibromi e tumori. È un omone grande, dall’aria bonaria, rassicurante e il più delle volte sorridente.

    Mia sorella Cris assiste alla visita, pronta a fare domande al posto mio e a interpretare le parole del medico che conosce meglio di me.

    Un’occhiata all’aggrottare di sopraciglia del dottore mentre le sue manone si concentrano sul nodulo mi fa capire che quel giorno non sarebbe stato rassicurante.

    - Dobbiamo toglierlo eh? Prima ti devi fare un’ecografia, comunque te lo tolgo.

    Io, da copione, ammutolisco. Mia sorella invece chiede, cercando di estorcere una parola rassicurante che non arriva. Il tono delle risposte è sbrigativo ma risoluto. Frastornata, le poche cose certe che capisco sono tre: devo fare un’ecografia, non è un’innocua cisti, qualunque cosa sia devo essere comunque operata.

    - Non ti preoccupare, - cerca di rincuorarmi Cris appena usciamo dall’ambulatorio, - fa sempre così quando visita in ospedale. A studio non sarebbe stato tanto sbrigativo.

    Io continuo a stare zitta poi, quando siamo già fuori, davanti all’ingresso dell’ospedale in via Canova, ci guardiamo negli occhi e scoppio a piangere tra le sue braccia.

    - Ma no, no, tesoro. Non fare così! - dice stringendomi forte.

    - Ho pa-paura, - balbetto tra i singulti, uguali a quelli che avevo quando ero piccola e che avevano il potere di far cessare o prevenire qualunque rimprovero. Lei continua a tenermi stretta, in silenzio, finché non mi calmo.

    - Era veramente preoccupato, lo hai visto anche tu, - sussurro, asciugandomi le lacrime.

    - Lo so. Era preoccupato. Per questo ti devi fare un’ecografia. Ora chiamiamo subito Esse.

    Esse è il nostro parente radiologo che due anni fa mi ha fatto vedere Lula dentro la pancia e sentire il battito del suo cuore quando era ancora un fagiolo di pochi millimetri.

    Ora deve vedere questa cosa che temo possa scatenarmi ben altre emozioni. Ho un bruttissimo presentimento.

    25 ottobre 1999

    La cosa è un’ombra scura e arrotondata di due centimetri, i cui margini piuttosto regolari farebbero azzardare un certo ottimismo.

    - Dovrebbe essere un fibroadenoma, - mi dice Esse, - cioè un nodulo benigno. Visto che te lo toglierai è inutile fare un ago aspirato per accertarlo.

    Io provo a carpire dichiarazioni certe, parole definitive, aggrappandomi a quella parola che fino a quel giorno mi era del tutto ignota: fibroadenoma. Invece devo accontentarmi di quel dovrebbe essere.

    Benigno o maligno che sia, me ne devo liberare.

    Vado immediatamente a cercare nella biblioteca in cui lavoro un’ enciclopedia medica dove compulsare le voci noduli, fibroadenomi, tumori benigni e maligni. Quello che leggo in parte mi rassicura, come mi rassicurano le persone che scopro essere state già operate per togliere noduli al seno, o che ci convivono serenamente da anni.

    Un pomeriggio una collega mi trascina in bagno e dopo aver chiuso a chiave la porta si tira su la maglia e si slaccia il reggiseno per mostrarmi la sottile, pressoché invisibile cicatrice che le è rimasta dopo l’intervento avuto per togliere un fibroadenoma.

    - Non si vede niente, no? Sai, l’operazione l’ho fatta in anestesia locale…

    Inizia a raccontarmi per filo e per segno i dettagli, concludendo che sicuramente anche il mio nodulo deve essere benigno. 32 anni sono troppo pochi per avere un cancro, ci mancherebbe.

    Con la mia amica Paola ci confrontiamo i rispettivi rigonfiamenti mentre prepariamo la cena, dopo aver proibito a figlie e uomini di entrare in cucina. A lei hanno dato per certo che si tratta di un fibroadenoma, però è cresciuto molto e pensa di tornare da un medico per farselo controllare, magari proprio dal dottor Emme.

    Torno anche dal primo ginecologo, quello che mi aveva detto di non preoccuparmi, giusto perché la visita era già stata prenotata da un pezzo.

    - Fa bene ad operarsi, ma sono certo che tornerà da me per dirmi che si trattava di un semplice fibroadenoma. - Mi dice dopo aver esaminato l’ecografia.

    Continua ad essere ottimista, e allora cerco di esserlo anche io.

    Il dottor Emme invece mantiene l’atteggiamento tipico del chirurgo che finché non taglia e vede trova ozioso fare congetture.

    Gli scenari possibili però me li dipinge chiaramente e quando pronuncia la parola quadrantectomia - che ho imparato undici anni fa, dopo l’intervento di mia madre - mi dico no, no, no, deve essere un fibroadenoma e mando giù saliva amara. La quadrantectomia è la tecnica chirurgica inventata da Umberto Veronesi per operare un carcinoma mammario senza dover asportare tutto il seno con una mastectomia radicale: si toglie solo un quadrante, cioè lo spicchio che contiene il tumore. È stata un’invenzione straordinaria, che ha ridotto notevolmente il trauma da mutilazione, ma l’idea che potrei essere sottoposta a quell’intervento mi sembra troppo crudele.

    Nonostante tutto le settimane precedenti la data fatidica le trascorro distratta dal trasloco imminente e dalla ricerca di un nuovo asilo nido per Lula. Qualche giorno prima di traslocare e di operarmi però m’imbatto in un servizio giornalistico dedicato al cancro al seno.

    Non leggere, non leggere mi dice una vocina.

    Leggi, leggi, ribatte quella che poi ha prevalso.

    Segni, presagi, presentimenti.

    Credo di aver anche pregato, e quando un’atea prega significa che sta messa molto male.

    9-10 novembre 1999

    L’infermiera che mi trasporta in sala operatoria mi consiglia di pensare a qualcosa di piacevole, per avere un buon risveglio dal sonno dell’anestesia.

    - L’umore con cui ti addormenti sarà quello con cui ti risveglierai - mi spiega.

    Io sono alla mia prima esperienza sotto ai ferri e quel suggerimento mi sembra sensato.

    Investita dalle luci sparate della sala operatoria, circondata da camici verdi e volti coperti dalle mascherine, non smetto un attimo di concentrarmi sulle spiagge e sul mare dei tropici. L’anestesista, parlandomi e sparandomi sostanze in corpo, mi accompagna dolcemente nell’incoscienza.

    Buio.

    Al risveglio so già tutto: in quell’impasto di stordimento e sonno provocato dall’anestesia, ho capito che si sono realizzate le peggiori previsioni.

    Sorrido ai miei, che mascherano a fatica il dolore e lo sgomento. Guardo Sten, mia madre, mio padre e mia sorella e dico qualcosa tipo lo so, ma va tutto bene, state tranquilli. O forse non dico

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