Racconti paralleli
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Anteprima del libro
Racconti paralleli - Raffaele Proto
Raffaele Proto
Racconti paralleli
Prefazione del dott. Christian Lunetta
CREDITI FOTOGRAFICI
Copertina: Raffaele Proto, Vestito (part.), 1981, © Giovanni Ricci, Milano. Pag. 102: Luciano Fabro © Archivio Luciano e Carla Fabro. Pag. 103: © Giovanni Ricci, Milano. Pag. 110: © Raffaele Proto. Pag. 114: © Raffaele Proto. Pag. 120: © Laura Vecere, Firenze. Pag 121: Luciano Fabro © Archivio Luciano e Carla Fabro. Pag. 127: © Giovanni Ricci, Milano. Pag. 128: © Giovanni Ricci, Milano. Pag. 131: © Giovanni Ricci, Milano. Pag. 133: © Giovanni Ricci, Milano. Pag. 177: © Giovanni Ricci, Milano.
Youcanprint Self-Publishing
ISBN: 9788891175991
Note dell’autore
Tra pieni e vuoti galvanici, Antonio è sempre stato strutturalmente solo; quindi si può dire che egli sia un autodidatta della vita, un nuotatore solitario.
Dall’età di due anni, dopo la perdita della madre, pur non avvertendone scientemente la drammaticità, inizia, a marce forzate, la sua solitaria.
Comincia con i suoi ricordi infantili, la storia raccontata in questo libro, e poi fino alla giovinezza, dove prova il mal di vivere
, che, nonostante la libertà e l’indipendenza economica conquistata, si trasforma in una sindrome depressiva che lo affliggerà, in forme diverse, per tutta la vita.
Dieci anni di collegio, a stretto contatto con i coetanei non sono stati in grado di colmare e soddisfare alcuno spazio mentale, semmai, al contrario, hanno costituito un ripiego della sua psiche, una sorta di purgatorio, di cattività dell’anima.
Succede poi qualcosa di molto importante quando, già 27enne, dopo vari tentativi, Antonio trova lo sbocco che ha perseguito con ostinazione da sempre. Il corso che gli era stato destinato seguiva sicuramente le orme dell’Arte. Incontra un Maestro e per dieci anni, finalmente, trova riposo nell’anima, avendone ricostruito faticosamente i complessi presupposti.
Ancora il destino però gli riserverà altre dolorose incognite, fino all’apoteosi: si ammala di Sclerosi Laterale Amiotrofica.
La bilancia stessa della dea Nemesi deve essere stata disorientata dai continui sconvolgimenti della vita di
Antonio, che ora si trova in grave imbarazzo e non sa più che pesci pigliare…
Vi è però una qualità naturale in un soggetto come Antonio: se si getta un seme dentro di lui, prima o poi, spunteranno delle piccole foglie, che, protette e concimate, potrebbero dare anche un piccolo fiore. C’è bisogno però di molta pazienza e molte cure, ma questa è un’altra storia…
Per questo libercolo il seme è stato quello che la stessa malattia ha posto dentro il suo autore e forse… ancora non ne siamo certi… è nato un piccolo fiore.
Prefazione
di Christian Lunetta
¹
Esistono diversi modi per descrivere l’esperienza che l’uomo ha con la malattia, cioè quella condizione in cui quello che convenzionalmente viene definito normale subisce una modificazione cosiddetta patologica portando a scoprire quanto il proprio corpo considerato fino al momento prima inattaccabile possa essere fragile e precario. Questo libro ne è un esempio ben scritto e originale in cui il protagonista è rappresentato dal narratore che condivide con il lettore la sua esperienza di vita e quanto la Sclerosi Laterale Amiotrofica non sia un triste intruso ma un coprotagonista perfettamente integrato con quanto descritto. Innanzitutto per definizione la SLA non può essere considerata solo una malattia come tutte le altre e ciò perché essa stessa aggiunge rispetto al concetto naturale di malattia un qualcosa in più. Infatti a differenza di tutte le patologie a prognosi infausta, di cui purtroppo ne esistono numerosi esempi, proprio perché caratterizzata dalla rapida e progressiva degenerazione di quella popolazione di cellule neuronali dedicate al movimento volontario, impone nella persona colpita a comprendere quanto siano fondamentali la capacità di poter fare in autonomia anche i più insignificanti gesti e la capacità di poter gestire il proprio tempo. Giorno per giorno ogni azione dalla più grande e alla più piccola diventano sempre più complesse con necessità di un progressivo aiuto da parte di tutte quelle persone che vivono accanto a chi ne è colpito, e che a loro volta, spesso inconsapevolmente, a poco a poco diventano sempre più fondamentali e indispensabili per lo svolgimento delle cosiddette attività di vita quotidiana. Il suo carattere progressivo, inesorabile e spietato portano ogni giorno la persona affetta ad avere consapevolezza di ogni singolo centimetro del proprio corpo e alla necessità di non sprecare il tempo che si ha a disposizione per poter utilizzare quella parte del corpo capace ancora di rispondere ai propri comandi. Inevitabilmente e inesorabilmente la persona colpita si trova quindi imprigionata all’interno del proprio corpo che fino a un momento prima dell’inizio rappresentava l’elemento attraverso cui esprimere il proprio autonomo arbitrio e un momento dopo si trasforma in un elemento progressivamente limitante e interferente. Ecco perché la SLA può essere considerata una fucina di grandi eroi i quali, più delle persone apparentemente sane
, riescono a strumentizzare
l’interiorità, per citare un passo del libro, e trasformarla in forza per se stessi e per chi gli sta intorno. Antonio, come lui desidera essere chiamato, realizza concretamente questo, conducendo una vita che sin dall’infanzia lo porterà a confrontarsi con la sofferenza, l’umiliazione, la rabbia, la paura, l’entusiasmo delle nuove esperienze, l’affettività, cioè in altre parole ciò che distingue l’uomo da qualunque altro essere vivente su questa terra. Nella sua descrizione, però, la SLA non risulta altro che l’immagine esteriore dell’esito finale di un percorso lungo tutto una vita in cui il corpo sottoposto a numerosi e continui insulti viene condotto. Lo stesso Tiziano Terzani confrontandosi con la sua malattia conclude: Vivo ora, qui, con la sensazione che l’universo è straordinario, che niente, mai ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta
. Anche l’esperienza di Antonio conferma che non ci si ammala di SLA per caso ma che essa rappresenta l’esito finale di una lunga e negativa interazione tra fattori intrinseci, come la predisposizione genetica, e i fattori estrinseci più disparati che innescano un percorso di autodistruzione progressivo e irreversibile.
Come diceva Gabriel García Márquez: La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda. E come la si ricorda, per raccontarla
. Proprio partendo dal racconto della sua vita l’autore tenta di donare al lettore la sua esperienza di vita al fine di poterla interpretare, condividere e in un certo qual modo giustificare. Lungo il percorso di vita di Antonio si intersecano anche gli eventi della storia contemporanea italiana (per esempio la strage di piazza Fontana) e non solo (per esempio l’uccisione di John Fitzgerald Kennedy) e le reazioni che queste hanno avuto su chi come Antonio cercava di rinfrancarsi da un destino pieno di privazioni, umiliazioni, solitudine e sofferenza. L’esperienza di Antonio inoltre ci porta nella storia artistica contemporanea grazie all’incontro con Luciano Fabro e quanto questa esperienza ha contribuito ad arricchire quanto sperimentato e vissuto ed abbia regalato al protagonista stesso quel riposo dell’anima tanto agognato.
Non è infrequente che un persona colpita da una patologia così importante decida di affidare i propri pensieri ad un libro ma rispetto a tutti gli altri esempi questo rappresenta sicuramente uno dei più originali e riusciti.
Buona lettura!
1 Neurologist. Responsible of ALS care and research, Centro Clinico NEMO, Fondazione Serena Onlus, Milano.
RACCONTI PARALLELI
Il Tempo sbiadisce i contorni del passato, lo sforzo di riportarlo alla memoria lo mescola ai sentimenti del presente, creando così una commistione difficilmente controllabile, esso diventa un oggetto in balìa del linguaggio, trasformandosi inevitabilmente in un’altra cosa, diventa racconto, in parte anche fantasioso.
Dio ci ha dato il paesaggio, il resto è coraggio.
LUCIANO FABRO
Pochi anni dopo l’ultima guerra, a pochi chilometri dal mare di Taranto, in Puglia, nel profondo meridione d’Italia, muore giovanissima Caterina, una ragazza con l’aria dolce e un po’ svanita, con i capelli neri ondulati. La sua casa è nella parte vecchia del paese; lascia quattro figli molto piccoli, nati in fila uno dietro l’altro. I suoi figli non seppero quasi niente di lei, a causa di quel naturale imbarazzo che portava i parenti del padre a non riaprire un’antica ferita davanti a loro. Caterina aveva un carattere riservato e non amava farsi vedere col pancione, così raccontava Meluccio, suo fratello più grande, capo dei vigili del paese. Rimane oggi di lei solo una fotografia.
Noi qui racconteremo la storia di uno dei suoi quattro figli: il terzogenito. Antonio ha preso qualcosa della fisionomia di sua madre, per quel che riguarda il resto non ci è dato di sapere. È una persona piena di contraddizioni e di sentimenti contrastanti, a causa di una vita piena di avvenimenti di varia natura.
All’inizio dei capitoli, abbiamo messo alcuni degli Estratti che Melville scelse come incipit per i capitoli del suo Moby Dick. Li abbiamo scelti in base alle loro assonanze con la nostra storia e contiamo sulla loro forza evocativa, come un’eco che dà un prezioso apporto al racconto, spostando l’attenzione quanto basta perché questo perda umore melodrammatico e succhi afflato, ispirazione e il senso dell’eroico che abbiamo ammirato nel capolavoro di Melville.
È bene dire chiaramente che in queste pagine, oltre al gusto del racconto, c’è l’ambizione di un tentativo di dialogo col mondo scientifico, poiché, come vedremo, Antonio è da qualche anno strettamente dipendente da quel mondo e siamo convinti che solo dal dialogo possano nascere novità di pensiero e possibili soluzioni. I primi ricordi di vita, che Antonio si porta dentro da sempre, risalgono all’età di poco più di due anni e hanno la caratteristica dei sogni, sono formati da immagini, come istantanee, dove manca lo scorrere del tempo. Antonio si vede molto piccolo nella stradina di casa mentre, essendosi fatto tutto quanto addosso, sta a gambe larghe e piange. Il pianto di Antonio arriva alle orecchie di sua madre che, uscita di casa, gli sorride rassicurante dalle scale esterne che guardano il vicoletto.
Nella stessa immagine vede anche suo zio che, seduto a un banchetto addossato al muro bianco della casa, è intento al suo lavoro di calzolaio; incolla le suole nuove e irrobustisce le punte e i tacchi con delle piccole lunette di metallo, per allungarne la vita. Ci si poteva ballare il Tiptap… e così si faceva davvero una volta grandicelli. La luce intensa e candida che spadroneggiava nel suo paese come una condizione ineluttabile accompagna tutti i suoi ricordi.
Si rivede ancora, piccolo, un giorno, guardare da lontano degli uomini che camminano nella strada principale senza parlarsi, apparentemente senza scopo. Lui li fissa e non capisce come mai non siano intenti al gioco. Per lui la vita senza il gioco è priva di senso!
Un altro ricordo è quello in cui si trova, insieme a suo padre, in una sala d’ospedale, con diverse file di letti, tutti occupati da donne, e lui, in mezzo, che riceve da tutte un sorriso e una parola dolce. Lo guardano teneramente. Lui, con quelle sue gambotte che riempiono i pantaloncini già troppo stretti, è il figliolo di quella giovane così malata.
Caterina morì poco tempo dopo, Antonio non sa a causa di quale malattia. Ricorda il funerale. Le donne e suo padre piangono, appoggiati alla bara, e sua zia Antonietta, sorella di suo padre, lo tiene per mano e, superstiziosa, gli dice: Non toccarla, può portare male!
. Oltre a questo non ricorda più nulla di sua madre, ma nemmeno di suo padre Vito, che non lasciò alcuna traccia in quegli anni nella memoria di Antonio. Solo diversi anni dopo seppe da lui, in un raro momento di confidenza, che faceva spola col treno commerciando tra il Nord e il Sud: portava olio e vino a Milano e da qui prendeva altre merci per rivenderle in Puglia.
Vito certamente aspirava a fare il commerciante e come tale si affermò brillantemente in seguito quando si stabilì a Milano e riprese moglie.
I suoi quattro figli, rimasti al paese, si ritrovarono affidati alla cura dei nonni paterni.
Nell’elemento libero nuotavano, dibattendosi, a tuffi, in gioco e in guerra, pesci d’ogni colore e d’ogni forma. Esseri, che il linguaggio non può esprimere, che mai nessun marino aveva visto, dall’atroce Leviatan al banco fitto a milioni di creature, e tutti raccolti in branchi immensi, come terre fluttuanti, e istinti oscuri li guidavano, per le plaghe senz’orma e sconfinate, sebbene d’ogni parte li assalissero i nemici voraci: le balene, i pescecani, i mostri, armati tutti di spade, seghe, corna e zanne storte.
MONTGOMERY, Il Mondo prima del diluvio
Nonno Peppino faticava a tenere a bada quei quattro bambini che spesso si cacciavano nei pasticci. Antonio, che aveva poco più di quattro anni, si era alleato con suo fratello Andrea, maggiore solo di uno. Andavano liberi e sciolti, con un gruppetto di amici, a razzolare nel loro piccolo grande mondo fatto di quartieri, di campagne