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Nessuno è escluso: Come pensare dio essere in paradiso stando all'inferno...
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E-book375 pagine5 ore

Nessuno è escluso: Come pensare dio essere in paradiso stando all'inferno...

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Info su questo ebook

La protagonista di questo libro si chiama Roberta Maria, una bambina di quattro anni che convive dalla nascita con una patologia genetica rarissima.
Attraverso il suo messaggio, che il papà e la sua famiglia cercano di raccontare, si palesano nel racconto tanti co-protagonisti, che rappresentano tutte le persone con disabilità ed alcune comparse, che indirizzando le vite dei protagonisti, diventano automaticamente, inconsapevoli registi.
La storia inizia qualche settimana prima della nascita di Roberta e, ripercorrendo i mesi contrassegnati da ricoveri ospedalieri, rapporti con operatori sanitari ed istituzioni, vittorie e sconfitte, si chiude, pur con un futuro tutto da immaginare, con un pensiero di speranza che rasenta l’utopia. La narrazione prevede una prima sezione incentrata sulla parte prettamente sanitaria, una porzione centrale che integra alla prima, elementi che da individuali si prefiggono di trasformarsi in patrimonio comune, ed un segmento finale, che descrive la vita di una famiglia che vive quotidianamente la disabilità, durante il periodo dell’emergenza sanitaria dovuta al pandemia da covid-19.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2021
ISBN9788833433363
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    Anteprima del libro

    Nessuno è escluso - Fortunato Nicoletti

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    Nessuno è Escluso

    Come pensare di essere in paradiso stando all’inferno

    Un libro di Fortunato Nicoletti

    Nessuno è Escluso

    Come pensare di essere in paradiso stando all’inferno

    Un libro di Fortunato Nicoletti

    Prefazione Carlo Verna

    Prima edizione ottobre 2020

    Isbn 978-88-3343-273-1

    LFA Publisher

    Lello Lucignano Editore

    Via A. Diaz, 17 -80023-

    Caivano - Napoli, Italy

    Partita Iva 06298711216

    www.lfaeditorenapoli.it --- info@lfaeditorenapoli.it

    Distribuzione cartacea Libro Co. Italia -Firenze-

    Introduzione

    Questo libro vuole essere uno strumento di condivisione dell’amore verso un figlio, della forza della famiglia, dell’importanza di essere uniti per perseguire un obiettivo, ma soprattutto è una testimonianza dell’esistenza di storie come la nostra. Di storie come questa, purtroppo, ce ne sono migliaia, ma credo che, se condivise, possano diventare infinita ricchezza per tutti. Allo stesso tempo questo lavoro tenta di sviscerare le innumerevoli e spesso insormontabili difficoltà che le persone con disabilità e le rispettive famiglie sono costrette ad affrontare ogni volta che il sole sorge, con l’intento di sottolineare le enormi mancanze sia della politica nazionale e locale, sia purtroppo della società civile. Soprattutto però, raccontare questa storia potrebbe esplicitare e anche dimostrare un concetto che oggi mi pare fondante: la disabilità non può più essere vista solamente come una sorta di malattia cronica e rara che rende diversi e scomodi, ma dovrebbe essere considerata una tra le tante possibili condizioni dell’esistenza umana con la quale fare i conti. Essere disabili non vuol dire né essere speciali, né essere inferiori, ma semplicemente essere diversi, ed è questo il punto: fin dalla notte dei tempi sappiamo che l’unica fonte che genera davvero ricchezza, è proprio quella diversità che al netto delle barriere architettoniche culturali che continuiamo a costruirci, è la più grande e pura risorsa che possediamo.

    Prefazione

    Non è semplice scrivere a beneficio di lettori di un problema grave che riguarda una figlia. È un atto di amore perché contemporaneamente mette al centro delle proprie riflessioni e quindi della propria esistenza quella bambina e dall’altro di fatto sollecita attenzione a difficoltà che sono comuni a tante persone che fanno i conti con ostacoli da superare e che con la condivisione possono sentirsi parte di una comunità. Noi giornalisti lavoriamo maneggiando parole, talvolta maldestramente le usiamo come pietre talaltra ricorriamo a eufemismi che possono apparire insinceri. Credo che però in questo caso definire il disabile, diversamente abile sia un filo utile per collegare la vicenda narrata al titolo: Nessuno è escluso. C’è una vita che promette per tutti, anche per chi deve rimontare svantaggi le cui ragioni capiremo forse solo quando l’esperienza terrena sarà terminata. Perché qualcuno nasce diversamente abile e non abile tout court? Perché è permessa una diseguaglianza fin dalla nascita? Domande dello stesso tipo ce le poniamo di fronte a catastrofi o scomparse premature di persone buone e giuste. La nostra mente non arriva alla risposta appropriata, ma ne può concepire altre potremmo dire diversamente utili. In questo caso a includere in un progetto di crescita e di gioia nonostante tutto. Il punto di partenza è proprio l’atto di amore, la storia che Fortunato Nicoletti racconta ne è lo sviluppo, ma tutti siamo chiamati a scriverne un capitolo nel segno della solidarietà. Una volta un medico che si occupava di missioni in Africa mi raccontò del suo incontro con una persona ben oltre la disabilità o diversa abilità. Aveva mali di tutti i tipi e durante il giorno soffriva notevolmente eppure rimaneva attaccato alla vita e aspettava la notte per sognare.

    La sindrome di Pierre Robin per esempio, ha diverse fasi a partire dalla nascita e sviluppi o freni che variano da soggetto a soggetto. È comunque una di quelle malattie che si definiscono rare. E qui c’è un ulteriore tema che unisce tanti genitori impegnati perché i loro figli non siano mai esclusi, ma perché viceversa possano godere al massimo possibile della vita come gli è stata data e soprattutto è una questione che investe l’area del pubblico. Non solo per il sostegno alle famiglie, indispensabile.

    È qui che lo stato e le istituzioni locali preposte devono concretizzare quell’art.3 della Costituzione, che sancisce l’uguaglianza nel modo in cui è stato correttamente interpretato da Calamandrei. Situazioni uguali vanno disciplinate in maniera uguale, situazioni diverse in maniera diversa. Ed è chiaro che la ricerca privata finalizzata legittimamente agli interessi delle case farmaceutiche abbia poca convenienza ad occuparsi di malattie rare.

    Quindi occorre un robusto intervento compensativo da parte dello Stato. In questi quattro anni d’amore di Fortunato (di Maria sua moglie, dei loro figli e di chi condivide il loro impegno)c’è anche la valenza politica e sociale di un implicito appello. Il sottotitolo potrebbe idealmente essere: Non lasciateci soli!

    Carlo Verna

    - Presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti

    Dedicato a:

    Roberta Maria, la musa ispiratrice di questo lavoro. Te lo avevo promesso ed ora non ti resta che crescere e magari leggere queste pagine insieme al papà.

    Andrea e Francesca, due ragazzi straordinari che un giorno spero possano capire quanto amore nutro per loro.

    Maria, il mio eterno amore, il fulcro sul quale ogni cosa si tiene in equilibrio. Si dice che dietro ogni grande uomo ci sia una grande donna. Io posso solo affermare con certezza che dietro ogni granitica e meravigliosa famiglia c’è una donna come te. Ti adoro.

    Tutte le persone con disabilità, che siano fisiche, mentali, acquisite o genetiche. Non siete speciali ma semplicemente diversi, come lo siamo tutti d’altronde. La speranza è che un numero sempre maggiore di quegli sguardi, spesso di triste e quasi obbligata commiserazione, possano trasformarsi in espressioni di ammirazione e di gratitudine per le miracolose e romanzesche lezioni di vita che sapete dispensare.

    Cominciamo dal principio

    Mancavano circa otto mesi al tuo arrivo, ma nessuno di noi lo sapeva… nessuno lo aveva neanche lontanamente programmato e quando la notizia arrivò ci lasciò letteralmente senza fiato.

    Dopo 12 anni di distanza si ricominciava daccapo, stravolgendo per tutti usi e abitudini oramai consolidate. Ciò che non immaginavamo affatto però era che questa sorpresa non era che l’inizio e che il bello sarebbe arrivato dopo. Con il trascorrere dei mesi, non solo cresceva il pancione della tua mamma ma affioravano anche ansie e paure che all’improvviso si trasformarono per noi in terrore. Durante un classico controllo ecografico di routine, i medici si accorsero che qualcosa non andava e questo diede il via ad una serie di esami più approfonditi e di controlli ravvicinati che sembravano indirizzarci sempre di più lungo una strada diretta verso gli inferi. Poi, all’improvviso come erano sorte, apparentemente senza motivo, le complicanze sparirono senza lasciare tracce.

    Mancava ancora più di un mese alla tua nascita, ma già in quel momento capimmo che non potevi che essere una bambina speciale, unta da chissà cosa o da chissà chi. Le scale che solo poche settimane prima ci avevano portati alle porte dell’inferno, come d’incanto cambiavano forma e dolcemente sembravano condurci ora alle porte del paradiso. Sentivamo che mancava poco per varcare quella soglia e che forse sarebbe accaduto appena avessimo udito il tuo primo vagito, visto il tuo primo sguardo, annusato il tuo odore. Ed eccolo il giorno tanto atteso! Avevamo già vissuto due parti, ma questo era diverso: erano trascorsi tanti anni, la gravidanza era stata travagliata e avevamo una maturità ed una consapevolezza differenti.

    Tutto questo fece sembrare infiniti quei minuti che ci separavano dal tuo arrivo, fino all’istante in cui udimmo quel celestiale suono: il tuo pianto, la tua voce! Ah quanto ne sentivamo la mancanza, quanto avevamo desiderato ascoltare quel suono che in un attimo ora sembrava averci liberato dall’enorme fardello del terrore! Appunto: sembrava… Passò una manciata di secondi prima che un medico ci dicesse: Tutto ok, sta bene!

    Ha solo una piccola fessurina nel palato da valutare. Immediatamente arrivarono i dubbi: Una fessurina nel palato? E cosa sarebbe? È grave?. No, no, ci rispose il dottore, ora la portano in terapia intensiva come da prassi, la valutano e poi vi diranno". Da quel momento, nello stesso istante in cui per te, Roberta Maria, questo il nome che avevamo scelto di darti, si aprivano le porte della TIN, (terapia intensiva neonatale) per noi si spalancavano quelle dell’inferno.

    Avrebbero dovuto essere poche ore ma sarebbero diventate migliaia. Durante il secondo giorno di ricovero, si palesò una prima insufficienza respiratoria accompagnata da desaturazioni (livello basso di ossigenazione del sangue) anche importanti, ma fu il terzo giorno a rivelarsi un incubo, oltretutto con la mamma costretta ad affrontarlo da sola. Io avevo portato Francesca, la nostra secondogenita, alle finali nazionali di ginnastica ritmica a Spoleto.

    Fui combattutissimo nella difficile scelta di andare o meno. In fondo quelle finali Francesca se le era sudate e conquistate a suon di vittorie e a me e a sua madre non sembrò giusto chiederle di rinunciarvi, anche considerando che tutto sommato la situazione in ospedale non era particolarmente grave. Così, nel bel mezzo della gara, mi arrivò una telefonata... io non riuscivo nemmeno a sentire le parole, percepivo solo disperazione. Roberta era andata in arresto respiratorio, era diventata praticamente nera, giaceva sul suo lettino, ed io non c’ero! Sembrava tutto perduto, tutto finito.

    Fu in quel momento che tu, Roberta, mostrasti a tutti per la prima volta la tua vera forza: trascorsero cinque o forse sei interminabili minuti, e poi, per la seconda volta, sei rinata.

    A distanza di tre giorni, riprendesti a respirare con la voglia di vivere che aveva animato il tuo primo respiro e tutto ciò mentre eravamo distanti centinaia di chilometri. Il rimorso mi lacerava, ma avevo almeno la consapevolezza che accanto a te c’era una mamma, una donna straordinaria. Passata la grande paura però continuavi inspiegabilmente a desaturare e a respirare in maniera faticosa. Inoltre, vista la tua conformazione facciale particolare, un mento piccolissimo, il collo corto, e altre sottigliezze che i medici avevano notato e che anche per noi oramai erano chiare, qualcuno paventò la possibilità che avessi la sindrome di Down e per confermare o meno tale ipotesi, sarebbe stato necessario fare degli esami genetici. Dopo un paio di settimane arrivò il responso: nessuna sindrome di Down, Roberta, però avevi quella che viene chiamata Sequenza di Pierre Robin. Non sapevamo cosa cavolo significasse questo, ma il percorso verso l’uscita da quel tunnel buio indicata da una luce fioca, cominciò a diventare lungo, troppo lungo.

    Si brancola nel buio

    Dicevamo quindi della Pierre Robin, se non è una sindrome cosa sarebbe? La genetista ci spiega che è una sequenza di eventi, insomma un avvenimento casuale che si scatena durante la gravidanza nel primo trimestre, questo fa in modo che durante la formazione del feto, la lingua non faccia chiudere il palato cosicché la mandibola non stia nella posizione corretta, ma più arretrata e di conseguenza le coane nasali (cavità nasali posteriori che collegano naso e bocca) non siano perfettamente pervie.

    Tutta una serie di eventi quindi, provocati a cascata, ecco perché sequenza. Il risultato sindromico causa comunque una serie di piccoli problemi, il più visibile dei quali è la palatoschisi (fessura nel palato, in questo caso superiore), operabile, chiudendo la schisi, nei mesi successivi.

    La sequenza è considerata malattia rara, anche se dopo un primo esame genetico, non ci sono problemi sui cromosomi, quindi siamo fiduciosi, il problema è che erano già passate due settimane e le crisi respiratorie di Roberta erano praticamente quotidiane, alcune poco importanti, altre molto serie. Per poterne capire qualcosa pertanto, si cominciò con indagini cliniche più approfondite. La prima fu una risonanza magnetica celebrale, per capire se ci fosse qualche problema a carico del sistema nervoso centrale. L’esame, normalmente di semplice realizzazione, per essere preciso andava fatto in sedazione completa, e ciò su un corpicino di 2500 grammi che continuava ad avere seri problemi respiratori non era proprio una passeggiata e a testimoniarlo fu che una mezza dozzina di medici non la lasciarono mai sola, dalla preparazione, alla realizzazione, che avvenne in una ala dell’ospedale distante, tanto che venne trasportata con l’ambulanza, fino al ritorno verso la TIN.

    Avemmo paura dal primo all’ultimo minuto, ma per fortuna tutto andò come era stato programmato e dopo un paio di giorni arrivò anche il referto: non c’erano anomalie significative. Ciò, se da un lato ci rendeva felici, dall’altro non spiegava i problemi che continuavano a essere praticamente incomprensibili. Di conseguenza cominciarono i pareri contrastanti, per qualcuno il problema era la retrognazia della mandibola, cioè che la mascella inferiore fosse più arretrata di quella superiore, e siccome la lingua è attaccata a essa, lo spazio per il passaggio dell’aria sarebbe minore, interpretazione che pareva essere plausibile. Per altri invece, il problema sarebbero i rigurgiti, ah proposito, Roby non cresceva bene perché la palatoschisi, non gli permetteva di alimentarsi correttamente, in quanto non riusciva né a essere allattata dal seno materno, né a ciucciare correttamente dal biberon, pensate che una poppata non completa durava una ora abbondante, tanto che si decise per un sondino naso-gastrico con il quale si potesse alimentare, ma che allo stesso tempo, andava però, anche a ridurre ulteriormente lo spazio. Ma dicevamo dei rigurgiti, la risalita del latte, spesso ingolfava il poco spazio, l’aria faceva fatica a passare ed ecco che sopravvenivano le crisi respiratorie.

    E anche questa ipotesi non sembrava poi così campata in aria.

    Insomma si brancola praticamente nel buio, la spiegazione sembra molto lontana, ma la nostra angoscia viene mitigata dalla conoscenza di un medico, anzi di una persona di altissimo spessore umano oltre che professionale, un chirurgo maxillofacciale che diventa il primo vero amico di Roberta. Tommaso, nome di fantasia, come lo saranno i nomi di tutti i dottori coinvolti in questa storia, dopo una fibroscopia delle prime vie aeree ed esaminando gli esami precedenti eseguiti, afferma con sicurezza che: è vero che la mandibola è più arretrata del normale posizionamento, ma il problema, secondo lui non era quello, pertanto si doveva indagare ulteriormente. E questo era un caso più unico che raro: i neonatologi, i pediatri e i consulenti vari che spingevano affinché si operasse per riportare la mandibola nella sua posizione anatomica naturale, dall’altro lato il chirurgo, che ha fama notoriamente interventista, che non voleva intervenire, non ritenendolo né necessario, né, soprattutto, risolutivo. Ma il tempo passava e con esso si susseguivano esami clinici, radiografici e consulenze di ogni genere.

    Era passato un mese oramai, ma l’impasse era totale, le desaturazioni aumentavano, ma ciò che ci preoccupava ora erano le apnee, ma anche lo studio delle stesse, la polisonnografia, una specie di elettroencefalogramma effettuato durante la fase di sonno, non aveva dato indicazioni chiare, ma solo altri elementi per far discutere i medici che erano sempre più in disaccordo fra loro.

    Questi furono i giorni nei quali, per la prima volta forse, ci fermammo a pensare e arrivò il momento in cui cominciammo a chiederci perché. Un perché che racchiudeva decine di domande, ma se le stesse erano alquanto complesse, le risposte erano praticamente inesistenti, o quantomeno a noi sconosciute.

    Conoscevamo solo quello che qualche volta magari, potevamo aver sentito dal racconto di un conoscente, oppure da una trasmissione televisiva, da un articolo di giornale.

    Quindi esistevano davvero queste storie, ma più di ogni altra cosa, esisteva davvero un reparto come la terapia intensiva neonatale, che oggi possiamo dire, insieme alla terapia intensiva pediatrica, sono certamente due luoghi paragonabili all’inferno e noi, in uno di questi, ci vivevamo dentro 24 ore su 24 oramai da quasi due mesi.

    Eppure eravamo ancora totalmente inconsapevoli di tutto ciò che ancora ci sarebbe accaduto, si, la nostra vita era già completamente stravolta, la nostra famiglia, un puzzle da ricomporre, un presente e passato prossimo che erano diventato lo stesso tempo, fermo a quel 10 maggio, ed un futuro che nel nostro immaginario era completamente cancellato.

    Ma noi chi siamo?

    Dopo essere partiti a spron battuto, e prima di continuare il racconto, non si può far cenno a chi eravamo prima della nascita di Roberta. Una famiglia normale, termine tra l’altro eccessivamente abusato, una mamma, un papà, e due figli di 12 e 13 anni, due ragazzini che meriteranno un capitolo a parte per la loro straordinaria capacità di affrontare uno tsunami. Il lavoro, la casa, la scuola, gli hobby, i problemi, i conflitti, insomma forse non la famiglia perfetta o ideale, ma nella quale si era riusciti a trovare un equilibrio. Notoriamente però, gli equilibri sono difficilissimi da mantenere, e allo stesso tempo, a volte, semplicissimi da spezzare.

    La nostra stabilità andò in crisi praticamente subito dopo la nascita di Roberta, ma col tempo capirete, così come lo capimmo noi, che pur se ci sembrava di essere precipitati da quel filo, in realtà, a quel filo tanto sottile, che ancora riesce a tenerci tutti uniti, ci eravamo aggrappati con tutte le nostre forze.

    La prima volta in sala operatoria

    Siamo dopo la metà di luglio e mentre continuano le dispute sanitarie, Roberta, durante la notte, erano circa le 4, durante il pasto, ha una delle sue più brutte crisi, quella notte c’ero io con lei, (io e la mamma avevamo stabilito i turni neanche fossimo in fabbrica), al primo rigurgito mi accorgo che qualcosa non va, chiamo le infermiere che a loro volta chiamano immediatamente il medico di guardia, nel frattempo Roby non respira più, il suo cuore rallenta molto rapidamente e non reagisce agli stimoli, passano i secondi, poi i minuti, e la situazione sembra precipitare, avevamo visto già tante crisi, seppur in solo due mesi e mezzo, ma questa era proprio dura, poi chissà, in piena notte e con solo il medico di turno, sembrava ancora più brutta.

    Furono dieci interminabili minuti nei quali mi resi conto anche delle difficoltà dei sanitari, ma pian piano Roberta, ancora una volta, ritornò tra noi. Stavolta però lo spavento e non solo nostro, era stato troppo grande, pertanto la mattina successiva, cioè un paio di ore dopo praticamente, ci viene paventata l’ipotesi di ridurre i rischi legati al momento del pasto, evitando almeno quei pericolosissimi rigurgiti. E come? Facendo un intervento allo stomaco chiamato "fundoplicatio sec Nissen", cioè una ripiegatura del fondo gastrico secondo la tecnica di Nissen (il chirurgo che l’ha inventata) che impedisse il reflusso gastroesofageo, e quindi anche le problematiche a esso legato. Ma insieme a tale intervento, che tutto sommato non sembrava essere brutto, ci venne prospettato anche l’inserimento di una peg, in letteratura medica: gastrostomia endoscopica percutanea cioè un procedimento chirurgico che permette l’inserimento di un sondino che dallo stomaco fuoriesce dall’addome per permettere l’alimentazione artificiale. Se la prima parte della procedura, pur se invasiva, ci aveva convinto per il rapporto costi-benefici, la questione della sonda per la nutrizione era l’ennesima mina che saltava sotto ai nostri piedi. Era anche vero che eravamo ben consci che Roberta cresceva poco e male e che il momento del pasto era oramai considerato un vero e proprio incubo, ma l’idea di alimentarla attraverso delle grosse siringhe e con alimenti totalmente artificiali, ci convinceva pochissimo.

    Dopo ore di confronti con i dottori, venne a parlarci direttamente il primario di chirurgia pediatrica, che ci spiegò con estrema cura dei particolari, non solo tutte le fasi dell’intervento, ma anche le motivazioni per le quali erano giunti a questa decisione, ci disse che la plastica anti reflusso era permanente, mentre invece la peg poteva essere temporanea e considerato che era necessario andare in sala operatoria, valeva certamente la pena fare entrambe le cose.

    Chiedemmo al primario di prenderci qualche ora per pensare per poi comunicargli la decisione, ma eravamo combattutissimi. Pensare ad un esserino così piccolo ed indifeso alle prese con una operazione in anestesia totale così invasiva ci lasciava enormi dubbi, dubbi che si moltiplicarono quando dopo una visita preliminare, ci dissero che potevano esserci problemi ad operare in laparoscopia, una tecnica che permette di intervenire attraverso piccolissimi fori senza praticare grosse incisioni, perché la bimba aveva molta aria nella pancia che additavano al problema della fessura nel palato, e quindi c’era l’alto rischio di iniziare l’intervento con tale tecnica, ma se necessario avrebbero dovuto ricorrere alla chirurgia tradizionale e aprirla! Fermi tutti, qua non si apre proprio nulla, lasciammo l’equipe un attimo e ci appartammo per pensare, ed ecco il colpo di genio della mamma, o almeno questo sembrava per noi: gli comunichiamo che operano in laparoscopia e se ci riescono bene, e se invece incontrano difficoltà, prendono i ferri del mestiere e vanno ad aprire qualcun altro. Mentre parliamo, le facce dei dottori e degli infermieri raccontano semplicemente sorpresa, anche perché sanno perfettamente, conoscendoci oramai, che quella che gli stavamo comunicando, era una decisione irrevocabile e soprattutto non negoziabile. Dopo qualche ora, annunciammo la decisione anche al primario che rimase letteralmente spiazzato dicendoci che non gli era mai capitato prima una cosa del genere, e che c’era il grosso rischio di una inutile e complicata anestesia, con tanto di intubazione endotracheale, comunque necessaria per una bimba così piccola, qualora non si potesse continuare l’intervento con la tecnica laparoscopica. Ma non c’era nulla che poteva farci arretrare avevamo deciso, o così o nulla! Ora sicuramente vi starete chiedendo quale poteva essere il colpo di genio, e vi sembrerà più probabilmente una totale follia, ma provo a spiegarmi. Settanta giorni circa in terapia intensiva, h/24, ci avevano dato una sufficiente conoscenza riguardo alla comunicazione che spesso, o quasi sempre, utilizzava il personale medico nei confronti dei genitori, in poche parole, quella decisione, che in un primo momento finanche a noi stessi, era sembrata completamente schizofrenica, in realtà costringeva il primario, perché sarebbe stato lui stesso a eseguire l’intervento, a fare qualunque cosa pur di portare a termine l’operazione così come l’avrebbe iniziata.

    Certamente nulla poteva darci certezze assolute, ed una percentuale di rischio, così come in tutti gli interventi chirurgici, sarebbe restata, ma era un consapevole azzardo.

    E così arrivo il 22 luglio, Roberta entrò in sala operatoria, e ci rimase per circa tre ore, ma dopo appena un’ora, che per noi era già una settimana, vediamo spuntare una infermiera che ci chiama perché il primario ci vuole parlare. Ecco, non si può operare in laparoscopia pensiamo, e invece lui ci dice che sta andando tutto bene ma che hanno trovato una piccola ernia iatale, pure???, e ha bisogno del consenso per chiuderla. Ovviamente glielo diamo e lui ritorna dentro a finire il lavoro. Finalmente, dopo un altro paio di ore, vediamo la barella con Roberta uscire dalla sala, ci comunicano che è tutto riuscito perfettamente, e noi scoppiammo in un pianto liberatorio, ma fu un solo attimo di felicità, il tempo di guardarla e vederla attaccata alla macchina per respirare, e ripiombammo nell’angoscia. Lo sapevamo, ma l’immaginazione e la realtà sono molto diverse e poi avevamo una strana sensazione, percepivamo che di lì a qualche giorno quello che fino ad ora ci era sembrato l’inferno, probabilmente era solo il purgatorio…

    Uno, due, tre

    Dopo un paio di giorni dall’intervento era prevista l’estubazione di Roberta. Una procedura normale, a maggior ragione in età neonatale, ma una strana angoscia ci attraversava, come se degli oscuri presagi fossero pronti a materializzarsi, erano sensazioni, ma mentre tutti i medici erano fiduciosi, chissà perché, noi lo eravamo molto meno. Ma prima di continuare il racconto è utile, per rendere bene l’idea del contesto che si era venuto a creare, fare un piccolo inciso.

    L’ospedale oramai era diventata la nostra casa, e dopo due mesi e mezzo l’aria era diventata molto pesante, le discussioni con i medici e gli infermieri erano diventate frequenti, Roby per loro era un caso troppo particolare e noi genitori troppo presenti addirittura ingombranti. Chiedevamo il motivo di qualunque cosa le facessero: farmaci, manovre, esami, se fosse il caso di fare una azione anziché un’altra, e poi avevamo imparato a gestire Roberta quasi autonomamente e ciò, in un reparto come quello, rappresentava una anomalia.

    Pertanto, ritornando alla narrazione, era tutto pronto per l’estubazione, ma appena venne sfilato il tubo dalla trachea, Roby non ce la fece a respirare da sola, ci provò, lottò, si dimenò, ma qualcosa evidentemente andò storto, quindi tentativo fallito e il problema era che bisognava immediatamente re intubarla e farlo non in sedazione, con la sua conformazione oro-facciale, non era la più semplice delle manovre. I rianimatori fecero molta fatica ma dopo qualche minuto ce la fecero e Roberta era di nuovo attaccata ad una macchina. Purtroppo i nostri dubbi non erano troppo pessimistici, ci dissero che poteva capitare di fallire al primo tentativo, probabilmente lo fecero per spingerci a essere ottimisti, comunicandoci anche che dopo un paio di giorni si sarebbe ritentata la manovra, con attenzioni e precauzioni maggiori. Anche loro si resero conto che erano stati troppo ottimisti e organizzarono il secondo tentativo con maggiore cura e dovizia di particolari. Si predisposero alcuni ausili utili ad aiutare Roberta subito dopo la estubazione, ma se la prima volta avevamo brutte sensazioni, stavolta era il panico a farla da padrone.

    Ci siamo, è tutto pronto per il secondo tentativo, appena estubata Roberta sembra farcela, per qualche minuto regge anche una discreta saturazione ed una accettabile percentuale di CO2 (anidride carbonica) nel sangue, ma dopo una ventina di minuti, i numeri cominciano mutare negativamente, la saturazione scende, ma soprattutto si alza il livello di CO2 oltre la soglia di guardia, lei lotta sempre, ma dopo circa un’ora, non si può fare altro che intubare nuovamente, intubazione che, stavolta, risulta ancora più difficile e complicata. Nel frattempo noi, anche se da lontano, avevamo capito tutto e finimmo per scappare fuori dal reparto per sfogare tutta la tensione, ma anche tutta la rabbia, che nel frattempo si stava accumulando. Dentro, come la prima volta, c’era anche il nostro amico chirurgo, il dott. Tommaso, che ci raggiunse immediatamente, anche perché nel contempo era diventato anche nostro confidente, e a noi in quel momento non serviva un medico, ma una persona che sapesse intercettare le nostre domande e le nostre inquietudini, attraverso interpretazioni mediche non fini a se stesse, ma accostate ed intrecciate con una umanità straordinaria. Insieme a lui cominciammo a ragionare sulle possibili motivazioni per le quali Roberta non era riuscita, per ben due volte, a respirare autonomamente, d’altronde prima dell’intervento e della intubazione, respirava da sola, aveva avuto spesso crisi e anche una meccanica respiratoria impegnata, ma non aveva mai avuto bisogno di supporti ventilatori, cosa era cambiato ora? Nel mentre dei nostri ragionamenti e col cuore che batteva più velocemente dello battito d’ali di un colibrì, scorgemmo uscire l’infermiera per avvisarci che erano riusciti a re intubare Roby.

    Le elucubrazioni potevano attendere, ci precipitammo immediatamente nel reparto ed era già sedata, ecco un altro problema, le sedazioni da qui in avanti, pur se necessarie, in quanto riducono le possibilità di estubarsi da sola, alla lunga sono problematiche da gestire, sia perché provocano vera e propria dipendenza, sia perché Roberta non aveva mai avuto e mai avrà anche successivamente, un rapporto sereno con le sedazioni, più che altro le stesse gli facevano quasi un baffo, almeno che non si usassero dosi per elefante.

    Ma arrivati a questo punto, vogliamo e dobbiamo capire cosa sta succedendo, perché se la prima volta ci poteva stare, la seconda diventava già un indizio importante, il dilemma era, ma di cosa? Per ora non c’erano risposte esaurienti e neanche qualcosa che si avvicinasse a delle teorie possibili, pertanto, quando ci viene prospettato il terzo tentativo, fummo molto scettici.

    I medici volevano comunque prendersi qualche giorno, anche perché, l’unica cosa certa, era che, qualora fosse stato fatto un ulteriore tentativo, sarebbe stato l’ultimo, a prescindere dal risultato. Se devo essere sincero, in fondo la volevamo anche noi una altra possibilità, perché vederla attaccata ad una macchina, sedata e semincosciente, conoscendo altresì Roby, ci sembrava ancora più crudele di un ennesimo tentativo andato a vuoto.

    Dopo un paio di giorni di riflessioni e considerazioni, decidemmo di provare per l’ennesima volta, ma stavolta pretendevamo che si organizzasse tutto in maniera certosina, compresi alcuni ausili respiratori, che non erano stati reperiti durante i tentativi precedenti, ma più di ogni altra cosa, poniamo una conditio sine qua non: noi non usciremo dalla stanza, resteremo lì accanto a Roberta, la procedura non lo prevedeva e non lo permetteva, ma non sentivamo ragioni. Erano coscienti che non saremmo arretrati di un millimetro, non ci provarono nemmeno a farci cambiare idea e così anche il giorno del terzo tentativo arrivò. Tra medici, infermieri ed operatori sanitari, erano circa una ventina a essere accanto a Roberta, era tutto pronto. Stavolta sembrava davvero farcela, venne aiutata con l’ossigeno, mascherine, caschetti ecc., tanto che tenne buoni i parametri per quasi due ore, poi gli stessi cominciarono a essere accettabili, poi la stanchezza, ahimè, cominciò a prendere il sopravvento e non ci fu nulla da fare, ci opponemmo fino alla fine alla re intubazione, chiedendo ancora un po’ di tempo, poi la ragione ci fece propendere per ascoltare i medici, Roberta oramai era stremata e non avrebbe resistito ancora molto senza essere ventilata meccanicamente. Eravamo letteralmente devastati, e in questa occasione temevamo addirittura che potesse fallire anche l’intubazione, il timore, anzi il terrore, era che Roberta non avesse più voglia di lottare, e che tutto poteva finire da lì a poco, ma mentre i pensieri più tetri oscuravano la mente e contestualmente i cuori, ci informarono che la paura era passata, ora dormiva, sembrava serena, in realtà temevamo che non lo fosse, di certo non lo eravamo noi.

    Ora però era necessario fermarsi tutti, ora bisognava riflettere e lo facemmo ancora una volta insieme al dott. Tommaso. Roberta quando aveva due settimane, aveva effettuato una tac e una risonanza e nessun problema era venuto fuori nella parte respiratoria inferiore (dalla trachea in giù) così come alcun problema era stato segnalato dopo la fibroscopia, delle alte vie aeree. E

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