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Robot 89
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E-book327 pagine4 ore

Robot 89

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Info su questo ebook

rivista (237 pagine) - Annalee Newitz - Claude Lalumière - Alain Voudì - Andrea Viscusi - Valentino Peyrano - Alex Briatico - Il caso Campbell - Alastair Reynolds - His Dark Materials - Progetto Artemis

Dopo, il mondo non sarà più come prima. Contro le epidemie dovrà esserci una militanza attiva costante; ci saranno, magari, piccoli droni-robot che andranno in giro per le città a chiedere alle persone come stanno e a fare tamponi preventivi. Almeno per un po’, poi forse ci passerà la voglia. Nel racconto premio Sturgeon di Annalee Newitz, Quando Robot e Corvo salvarono East St. Louis, scritto in tempi non sospetti, facciamo la conoscenza con uno di questi difensori della salute pubblica. E se di parla di difensori non potrete dimenticare, dopo aver letto I figli di Hochelaga, il supereroe di Montreal creato da Claude Lalumière, brillante talento del weird. Ma nel mondo reale non ci sono supereroi: se almeno potessimo trasferire la memoria da una persona all’altra come in Il coro delle memorie di Valentino Peyrano forse non incorreremmo negli stessi errori che portano a disastri anche prevedibili, come nel racconto Premio Robot di Alain Voudì Il prezzo del sangue che racconta un’Italia futura devastata dalla guerra civile. Alri disastri sono meno prevedibili, come nel Rifugio di Alex Briatico, che però fa risuonare tante storie ben note a noi che viviamo in un paese di terremoti come l’Italia. Meglio non pensarci: #restiamoacasa e magari ordiniamo una cena, che ci è venuta fame: sarebbe bello se potesse arrivare prima ancora di essere preparata, come in Bootstrap di Andrea Viscusi, no?
Copertina di Jon Foster

Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più rpestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2020
ISBN9788825411904
Robot 89

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    Anteprima del libro

    Robot 89 - Silvio Sosio

    Stop

    EDITORIALE

    Come si divertivano

    Silvio Sosio

    A volte mi capita di vedere un vecchio film con queste scene di folla. Decine di persone nella stessa stanza, centinaia nella stessa piazza. Uomini e donne che si stringono uno addosso all’altra, si abbracciano. Si toccano. Pongono la loro bocca sulla bocca dell’altra.

    Mi si stringe lo stomaco, mi si rizzano i peli sulle braccia. Devo distogliere lo sguardo, non reggo. Una reazione più forte di quella che provo di fronte a scene di violenza piene di sangue, alle quali forse la finzione scenica mi ha assuefatto, come non mi ha assuefatto, invece, all’idea di vedere le persone condividere lo stesso spazio come se niente fosse.

    Lo so, una volta era normale.

    La gente stava insieme, viveva insieme, a contatto. I bambini andavano a scuola in appositi edifici in cui si riunivano anche in venti o trenta, in pochi metri quadri. Si lavorava fisicamente vicini, si faceva la spesa andando di persona in centri commerciali, contemporaneamente a decine o centinaia di altre persone. C’erano incredibili manifestazioni di massa come concerti, conferenze, eventi sportivi, nelle quali si affollavano migliaia di persone. Migliaia, potete immaginarlo? Una attaccata all’altra, come formiche, senza protezioni. Lo so, lo sappiamo tutti, ma è difficile crederlo, immaginarlo. Molte di queste immagini sono state eliminate, tagliate anche dai film stessi, non per una necessità di censura ma perché, semplicemente, troppo fastidiose per lo spettatore. Non riusciamo a concepirle e non riusciamo neanche a visualizzarle nella nostra mente.

    Ormai neppure le generazioni più anziane hanno memoria diretta di quei tempi. Dall’anno della Chiusura, il 2020, è passato oltre un secolo. È un’era della specie umana, un modo di vivere, che ci siamo lasciati alle spalle, finito, scomparso, estinto, rimosso. Nei miei pensieri morbosi cerco di immaginare come possa essere stato per la gente di quell’epoca passare così rapidamente dal loro mondo, così sociale, al nostro. E nel giro di pochi mesi, un anno al massimo. Ma non ci riesco, perché per me è impensabile vivere diversamente da come viviamo oggi, e non riesco, anche sforzandomi, a capire quale possa essere stato il sacrificio, per loro. Lo concepisco solo a livello intellettuale; ma non riesco a sentirlo.

    Mi immagino che possano aver accettato quel drastico cambiamento del modo di vivere convincendosi che fosse temporaneo. Che avrebbe risolto il problema, il contagio del virus di quell’anno. Una misura straordinaria per paio di settimane; poi prorogata a un mese, poi due. Ho letto che a un certo punto in alcune zone ci fu l’illusione che la fine dell’emergenza fosse vicina e le restrizioni furono allentate. Un’illusione, appunto, perché il contagio riprese a correre.

    Il punto di forza dell’Homo sapiens è la sua capacità di adattarsi e, certo, si è adattato. Non è stato facile. L’economia ha stentato parecchio prima di riuscire ad adeguarsi al nuovo modo di funzionare. La miseria ha morso con ferocia la popolazione.

    Quando, alla fine, è stato diffuso il vaccino per quel primo virus ne erano ormai in circolazione altri due, uno dei quali era una mutazione del primo, il secondo del tutto nuovo. Ma mi immagino l’angoscia delle persone nel vedere le loro prospettive di vita svanire nel nulla, nel vedere il loro mondo crollare. Questo riesco a sentirlo, perché anche io ho avuto esperienze simili, purtroppo. E tuttavia immaginare che tutto ciò possa accadere non a una persona ma a una nazione, a un continente, al mondo intero, è qualcosa al di là della mente umana.

    Come si divertivano, dicevo. Credo, almeno. Nei film sembrano farlo, apprezzano lo stare insieme, anzi sembra ne abbiano fisicamente bisogno. Nei film li vedi parlare nella stessa automobile uno accanto all’altro, li vedi mangiare in gruppo attorno a un tavolo, li vedi lottare a mani nude. Li vedi riunirsi volontariamente nella stessa stanza, a lavorare o discutere. Una persona di oggi sarebbe terrorizzata. Se un bambino venisse chiuso in una stanza con altri venti scaverebbe nella porta con le unghie fino a strapparsele per poter fuggire.

    Siamo cambiati, profondamente. Siamo meglio, siamo peggio? Chi lo sa. Di certo stiamo meglio di allora: nel 2020 sulla Terra vivevano sette miliardi di persone, le risorse scarseggiavano, la produzione di cibo metteva in crisi il sistema ecologico, l’inquinamento comprometteva la stabilità del clima. Secondo gli ultimi censimenti siamo meno di un decimo di quanti fossimo allora. Ci sono state fame e guerre, sì, ma soprattutto è crollata ovunque la natalità. Non esiste più il concetto di rapporto sessuale, l’idea stessa di gravidanza è fastidiosa, non sono molte le donne che accettano di aver figli, nonostante gli incentivi statali. Forse la decrescita della popolazione sarà un problema in futuro, ma intanto le risorse sono di nuovo abbondanti, l’inquinamento è sparito, clima ed equilibrio ecologico sono tornati in salute.

    Guardo dalla mia finestra e vedo un mondo bianco, silenzioso, in pace. In lontananza ci sono altri edifici e so che dietro quelle finestre ci sono altre persone, come me. Provo un sentimento per loro, una vicinanza umana, una solidarietà, la consapevolezza che insieme stiamo facendo qualcosa per il bene comune, ma non provo nessun bisogno di avvicinarmi a loro fisicamente. Se comunico, comunico elettronicamente, scrivendo. Qualche volta ricevo una videochiamata, vedo il loro volto e loro il mio, ma è raro e breve, è fastidioso, lo evitiamo quando è possibile. Siamo soli. E amiamo essere soli. Nasciamo soli e moriamo soli, essere soli è il destino degli esseri umani, e questo è il nostro modo di vivere.

    Rapporto del 18 aprile 2125,

    dott. A., paziente C.47.

    Il testo che allego è stato trovato questa mattina nella stanza del paziente C. Il necessario per scrivere gli era stato fornito nei giorni scorsi, incoraggiandolo a mettere su carta le sue impressioni, le sue idee, le sue sensazioni.

    La coerenza, l’intensità emotiva di questo testo purtroppo confermano i nostri timori. La struttura delle fantasie psicotiche nelle quali il paziente è convinto di vivere è solida, priva di dubbi, di fratture in cui inserire una leva. Le ragioni del crollo psicologico sono note, l’isolamento nel quale C è stato costretto per mesi a causa dei problemi del suo sistema immunitario, peraltro poi risolti, è stato gestito dalla sua psiche proiettando il suo problema sul mondo esterno. Il suo isolamento forzato non era più una condizione anomala ma la normalità condivisa col resto del mondo e come tale più sopportabile.

    Va rimarcato che chi lo ha avuto in cura in quel periodo ha approfittato di questa patologia psicologica perché in qualche modo facilitava le cose nella cura e gestione della patologia fisica. La mancanza di un trattamento ha però radicato e reso cronico il problema.

    La strategia terapeutica, consistente nel mettere il paziente a contatto con libri e film che andassero in contrasto con la sua costruzione mentale, non sembra aver dato risultati significativi. Il paziente è convinto che libri e film siano antecedenti a quello che lui chiama l’anno della Chiusura, che collega alla pandemia di Covid-19 che mise in crisi buona parte del pianeta nella prima metà del 2020. La situazione ebbe strascichi di cui l’economia e la stabilità politica mondiale ne risentì, ma la crisi sanitaria fu risolta nel giro di pochi mesi con l’arrivo del vaccino, e anzi fu preziosa per bloccare sul nascere crisi simili nei decenni successivi. L’invenzione dei vaccini attivi, nel 2032, ha messo fine per sempre all’epoca delle epidemie, ma queste nozioni, fornite al paziente in forma di documentari, film, libri, non vengono recepite. Possiamo dire in breve che le uniche informazioni che superano la barriera della sua soglia cosciente sono quelle che confermano la sua fantasia.

    Illustrazione di Matteo Di Gregorio

    NARRATIVA

    Quando Robot e Corvo salvarono East St. Louis

    Annalee Newitz

    Traduzione di Marco Crosa

    Annalee Newitz è nata a Irvine, California, nel 1969, figlia di due insegnanti, e ha un curriculum di tutto rispetto. Ancora prima del Ph.D. in Inglese e Studi Americani a Berkeley, ha iniziato una carriera di editorialista free-lance che l’ha portata a collaborare per diverse testate come Metro Silicon Valley, San Francisco Bay Guardian, Wired, New Scientist e altre, e divenire redattore capo di io9 e Gizmodo e, dal 2015, editor della pagina culturale di Ars Technica.

    Ha fondato con Charlie Jane Anders, altra conoscenza di Robot e sua partner nella vita, la rivista Other; insieme, hanno vinto anche uno Hugo nel 2019 per il miglior podcast amatoriale (www.ouropinionsarecorrect.com).

    La sua tesi di dottorato è stata pubblicata anche in Italia da Isbn Edizioni nel 2008 con il titolo Fingiamo di essere morti. Mostri capitalisti della cultura pop americana e il suo primo romanzo, Autonomous (premio Lambda 2018), è comparso per Fanucci nel 2017, mentre è ancora inedito il secondo, The Future of Another Timeline (2019).

    Il racconto che qui presentiamo ha vinto il 2019 Theodore Sturgeon Memorial Award per il miglior racconto breve. Ulteriori informazioni sul suo blog www.techsploitation.com con un’avvertenza: per evitare di definirsi necessariamente come maschio o femmina, quando Newitz parla di sé in terza persona usa il pronome they. Purtroppo l’italiano non consente di onorare questo suo desiderio. (FL)

    * * *

    Era ora di iniziare il giro settimanale. Robot balzò verticalmente in aria dal suo trespolo in cima al Museo di Storia in Forest Park, i rotori che ronzavano e le braccia ritratte nell’ovale affusolato del telaio. Da lontano sembrava un uovo volante color azzurro chiaro, un po’ ammaccato, con un cappellino a elica appiccicato sopra. Due occhi animati luccicavano sul davanti del liscio carapace, come fanali capaci di trasmettere emozioni. Sul terreno, con le quattro zampe e la testa estroflesse dai portelli nel guscio protettivo, il drone era più simile a un cagnolino stranamente simmetrico o a una tartaruga da cartone animato. Innestata su un attivatore, era mostrata la faccia completa, occhi a fanale situati sopra un corto muso morbido la cui bocca violacea era costruita per sorridere, arricciarsi e per una serie di altre espressioni più sottili.

    La squadra del Centro Controllo Malattie di Atlanta aveva progettato Robot perché fosse adorabile e guadagnasse subito la fiducia del pubblico. Per catturare le epidemie prima che si diffondessero, Robot volava da un edificio all’altro e chiedeva alle persone come si sentivano. Nessuno aveva voglia di chiacchierare con una brutta scatola. Robot si comportava come un allegro, piccolo compagnone che andava a cercare le persone malate. Era così che Bey, l’amministratrice di Robot, gli aveva insegnato a dire: Cerco persone malate. Bey aveva il compito di programmare Robot con le capacità sociali necessarie per evitare di parlare di sorveglianza sanitaria.

    A Robot piaceva partire dal Loop. Magari piaceva non era la parola giusta. Era una pulsione che veniva dal suo sistema di mappatura, che raffigurava l’area metropolitana di St. Louis come una griglia dove le coordinate 0,0 corrispondevano a Center e Washington. L’incrocio si annidava al centro delle vie a forma di U che gli umani del posto chiamavano il Loop. Il Loop era una comunità recintata accanto alla Washington University, piena di case eleganti e vetture a guida autonoma che inviavano instancabili a Robot i loro ping di localizzazione. Pur essendo tarda estate, Robot era in massima allerta per i focolai di malattie infettive. La stagione dell’influenza si allungava ogni anno di più, specialmente nelle distese urbane ad alta densità come St. Louis, dove tantissima gente diffondeva ovunque i suoi minuscoli globuli di virus aerotrasportato.

    Volando basso, Robot seguiva le strade incurvate, sbirciando nelle finestre per verificare quanti umani stavano cenando e se il numero coincideva con le precedenti scansioni. I conigli selvatici correvano nei cortili e le lucciole inviavano segnali alle compagne usando fotoni e feromoni. Robot scelse una soglia a caso, iniziando una visita faccia a faccia con gli umani. In quel quartiere ci erano abituati.

    Un umano aprì la finestrella di servizio. Il soggetto aveva lunghi capelli lisci e la pelle del colore di arachidi pelate.

    – Ciao! Sono il tuo amichevole guerriero anti-influenza di quartiere! Prego tossisci in questa garza e tienila sollevata verso lo scanner, prego! – Robot fluttuò al livello degli occhi, inserì un braccio a pinza nel suo vano di servizio ventrale ed estrasse una garza sterile. Quest’azione gli valse un sorriso. Robot sorrise di rimando, stirando la bocca e gonfiando le guance da cane-tartaruga. Gli umani apprezzavano la comunicazione non verbale, e lui era programmato con un intero repertorio di semplici risposte:

    Se l’umano è arrabbiato, Robot è triste.

    Se l’umano è scortese, Robot mostra disagio.

    Se l’umano è felice, Robot è felice.

    L’umano tossì e Robot eseguì una veloce scansione metagenomica, etichettando il DNA virale e batterico chiave prima di caricare sul cloud i dati sequenziali. Altri bot avrebbero confrontato i risultati con una libreria di malattie infettive conosciute e allertato il CCM in caso di corrispondenze con l’elenco dell’anno.

    Sei giorni dopo, Robot attraversò il fiume Mississippi dirigendosi verso East St. Louis. Qui il calore e la pioggia avevano eroso il manto stradale fino a renderne la superficie piena di buchi e rughe come la pelle umana. La prima volta che Robot aveva svolto nella zona la sorveglianza sanitaria, non c’era nulla che combaciasse con la sua generica programmazione sociale. Edifici etichettati come sfitti erano evidentemente pieni di umani. I registri degli occupanti non corrispondevano ai nomi e alle facce degli occupanti stessi. La gente usava lingue e parole inesistenti nelle banche dati conosciute. Di conseguenza, Robot non poté raccogliere dati sufficienti. Quando aveva chiesto aiuto al CCM segnalando il problema, l’unico amministratore che aveva risposto era stata Bey. Bey comunicò con Robot da Atlanta tramite la rete cellulare, in audio.

    – Non tutti gli umani agiscono o parlano allo stesso modo – aveva detto a Robot. – Ma tu puoi imparare a parlare con chiunque. Raccogli dati. Estrapola dal contesto. Usa questo. – E aveva inviato a Robot un pacchetto di codice per l’acquisizione e traduzione di linguaggi naturali. Molto velocemente, Robot scoprì che gli umani usavano gerghi, dialetti, socioletti e lessici non documentati. Bey gli inviò anche diverse serie di dati estratti da un laboratorio di studi metropolitani, a integrazione dei dati di mappatura di Robot. Risultò che in media non tutti gli umani abitavano nello stesso domicilio per due anni consecutivi; che non in tutte le residenze c’erano conigli e automobili all’esterno. Alcuni umani vivevano in posti che non erano classificati come spazi abitativi. Alcuni umani non usavano identificativi assegnati dal governo. Ma tutti si potevano ammalare.

    Sotto la tangenziale c’era un piccolo quartiere fatto di abitazioni di soffice tessuto. Sulle carte ufficiali non esisteva. Robot lo conosceva grazie agli algoritmi di Bey.

    – Ciao! – disse Robot atterrando sulla verandina di una casa di tessuto blu. Parlava un dialetto diffuso da quelle parti. – Vengo a controllare se siete in salute! Prego, dite ciao!

    Un umano si mosse all’interno, poi abbassò la cerniera della porta.

    – Ciao, Robot. – L’umano aveva occhi castani e una simmetria facciale che combaciava con le precedenti registrazioni. Era lo stesso umano del mese prima.

    – Prego tossisci in questa garza e lascia che la scansioni.

    L’umano sorrise e Robot capì perché. Nel dialetto del posto, la parola tossire indicava qualcosa che gli umani trovavano immensamente divertente. Robot conosceva un termine più formale, ma la conformità era superiore se usava la battuta. E una conformità superiore significava dati migliori.

    – Robot, penso che la mia amica Shareeka sia malata. Ti spiacerebbe visitarla? – L’umano era preoccupato e Robot rispose con un’espressione triste/preoccupata.

    – Dov’è Shareeka?

    – Nel nuovo edificio sulla State, vicino al 14. Ai piani alti che non hanno terminato. Scommetto che puoi volarci dentro.

    – Grazie per il tuo aiuto.

    L’umano accarezzò la testa di Robot. Era la più comune manifestazione di affetto fisico che avesse documentato nei suoi quattro anni e otto mesi nell’area metropolitana di St. Louis.

    Il protocollo richiedeva che Robot dovesse rispondere immediatamente alle segnalazioni di malattia, così volò al nuovo edificio sulla State. Come il quartiere di tessuto, anche quell’edificio non era classificato come area residenziale. Era uno scatolone grigio sulla mappa ufficiale di Robot, ma i sensori visivi mostravano una guglia riflettente di venti piani rivestiti di vetro e acciaio. Altri cinque piani spuntavano in cima come una corona scheletrica, lasciando esposte travi d’acciaio, tubature e cartongesso. Dall’interno venivano i rumori della vita umana: musica, conversazioni in sei lingue diverse, pianto di neonati, cibo che sfrigolava su piastre arroventate. Robot vedeva l’elettricità scendere a cascata nei cavi dai pannelli solari imbullonati all’esterno delle finestre. Gli abitanti sintonizzavano la rete dati con parabole satellitari fatte di lattine e pentole wok. Dalla prospettiva di Robot era esattamente come altri edifici residenziali, a parte qualche differenza cosmetica.

    Illustrazione di Luca Vergerio

    Allungando zampe e piedi, Robot atterrò sul piano aperto più basso, quindi procedette camminando all’interno dell’edificio, chiedendo di Shareeka. Un’umana adolescente aprì una porta verde e disse ciao. L’umana aveva i capelli corti che terminavano con extension rosa e un lettore di testo molto usurato in mano.

    – Ciao! Io sono Robot e vengo ad accertarmi che tu sia in salute. Una brava persona mi ha detto che Shareeka potrebbe essere malata. Posso vedere Shareeka? – Robot usava lo stesso dialetto che aveva parlato nel quartiere tessile, aggiungendo rafforzativi che trasmettevano benevolenza.

    L’umana fece un movimento col collo che significava no.

    – Sono un amico che vuol solo sapere se stai bene. Sono preoccupato per Shareeka. – Robot fece una faccia triste.

    Anche l’umana fece una faccia triste. – Shareeka se n’è andata un paio di giorni fa. Non so dove sia.

    – Come ti senti oggi?

    – Sono un po’ stressata per la scuola – disse l’umana. – Tu come stai?

    Era raro che un umano chiedesse a Robot come si sentiva, e non c’era una risposta standard o una espressione predefinita. Così Robot rispose nel modo più letterale possibile: – Non sono malato perché sono una macchina. Ma sono preoccupato che tu non stia bene. Vuoi tossire in questa garza e lasciarmela scansionare?

    – Sequenzierai subito il DNA? – l’umana era incuriosita.

    – Sì! Ma opererò insieme ad altri bot sulla rete dati per capire se c’è dentro qualcosa di pericoloso.

    – Lo so. Hai un elenco di malattie infettive note e cercherai una corrispondenza. L’abbiamo studiato a lezione di biologia. – L’umana sorrise e Robot restituì il sorriso.

    – Sì! È quello che farò. – Protese la garza.

    L’umana ci tossì sopra e studiò Robot molto attentamente mentre eseguiva la scansione.

    – Come fai ad assicurarti di non scambiare il mio microbioma con quello di un altro? Sterilizzi la tua mano ogni volta?

    – Sì. – Robot caricava i dati e parlava allo stesso tempo. – Come ti chiami?

    – Tutti mi chiamano Jalebi.

    – Porti il nome di un dolcetto di pastella a spirale, fritto e immerso in acqua zuccherata. – Agli umani piaceva quando Robot riconosceva il significato dietro i loro nomi.

    Jalebi annuì. – Quand’ero piccola ne mangiai così tanti da perdere i sensi. Troppo zucchero. Così mio fratello cominciò a chiamarmi Jalebi.

    Robot incontrava delle difficoltà a collegarsi al cloud. – Devo tornare fuori per connettermi alla rete. È stato bello conoscerti, Jalebi.

    – Aspetta… tu come ti chiami?

    – Robot.

    – Quello è il tuo nome? Credevo fosse la tua… razza. – Jalebi usò una parola ambigua che poteva anche significare specie.

    – È il mio nome – confermò Robot.

    Robot sostò nel buio sotto la luna, sopra le luci del quartiere, nel corridoio non finito esposto all’aria, e tentò di collegarsi al cloud. Non ci fu risposta. Allora chiamò Bey. Non ci fu risposta. Inviò un’e-mail di emergenza all’elenco delle squadre di sorveglianza del CCM e ricevette un messaggio di errore. Chiamò e richiamò, ricaricandosi ogni mattina alla luce del sole e spegnendosi a mezzanotte. Dopo sette giorni ricevette un messaggio di testo da un numero privato sconosciuto:

    Ciao, Robot. Sono Bey. Non posso più essere la tua admin. Mi dispiace molto, perché è stato bello conoscerti. Purtroppo hanno tagliato i fondi al CCM. Adesso lavoro ad Amazon Health, ma non ci è permesso di collegarci in rete con i droni pubblici come te. Non credo che qualcuno verrà a disattivarti o recuperarti, perciò immagino che ora tu possa fare quello che vuoi. Se succede qualcosa di davvero brutto, messaggiami qui al mio numero privato. Spero che l’algoritmo di acquisizione dei linguaggi ti sia ancora di aiuto!

    Per la prima volta, Robot fece una faccia triste che nessuno poté vedere. Non era sicuro di cosa significasse davvero brutto, ma i modelli di comunicazione umana suggerivano che Bey si riferisse a un focolaio. Il problema era che Robot non aveva modo di eseguire un tipico giro di sorveglianza senza qualcuno a cui inviare i dati per le

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