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Patria di Carta. Storia di un quotidiano coloniale e del giornalismo in Argentina
Patria di Carta. Storia di un quotidiano coloniale e del giornalismo in Argentina
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E-book520 pagine4 ore

Patria di Carta. Storia di un quotidiano coloniale e del giornalismo in Argentina

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Il volume descrive il periodo di massimo splendore della stampa italiana in Argentina, corrispondente agli anni di maggiore affluenza immigratoria. Lasciando l’Italia, gli immigrati hanno trovato nella Repubblica platense la loro “seconda patria”. Una “terza patria” è stata rappresentata dalla stampa di comunità. In questo ambito, ha svolto un ruolo chiave La Patria degli Italiani, quotidiano fondato da Basilio Cittadini, che per oltre mezzo secolo (1877-1931) segnò la storia del giornalismo etnico diventando all’interno della comunità di immigrati un punto di riferimento importante, una “Patria di carta”. Dopo ricerche in biblioteche, emeroteche, archivi pubblici e privati in Argentina e Italia, attraverso la storia della Patria degli Italiani l’autore ricostruisce in filigrana una sorta di epopea del giornalismo dell’immigrazione in Argentina tra i secoli XIX e XX. È una storia che nasce a metà dell’Ottocento e arriva fino all’avvento e al consolidamento del fascismo in Italia che scompaginò la situazione delle “colonie di immigrazione” e soffocò, perché non volle sottomettersi al regime, quello che è stato il più grande giornale in lingua italiana mai pubblicato all’estero.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2012
ISBN9788881019205
Patria di Carta. Storia di un quotidiano coloniale e del giornalismo in Argentina

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    Anteprima del libro

    Patria di Carta. Storia di un quotidiano coloniale e del giornalismo in Argentina - Pantaleone Sergi

    Paesi.

    Prologo

    1. Foto di gruppo con rotativa

    La foto che ritrae un gruppo di giornalisti italiani attorno a un grande tavolo rettangolare quasi addossato a una rotativa, con la parete sullo sfondo tappezzata di manifesti e ritratti di personaggi illustri della madrepatria, Dante Alighieri in testa, può essere considerata una testimonianza, tra le più antiche, del solido legame tra emigrazione e stampa di collettività, tra storia dei giornali d’emigrazione e storia sociale dell’emigrazione stessa. È una di quelle immagini che, da sole, rappresentano un’epoca. La redazione è tutta lì. Quei giornalisti impettiti, abiti e baffi di moda nell’Ottocento, seduti o in piedi, alcuni sfogliando un giornale con finta disinvoltura, attendono in posa la stampa di un quotidiano italiano a Buenos Aires, «La Patria degli Italiani», il più importante dei quotidiani italiani mai pubblicato all’estero che era stato fondato nel 1876 con il nome «La Patria» da Basilio Cittadini[1]. Hanno tutti un cognome familiare. Si chiamano Guglielmini, Vangioni, Cappello, Marino, Paroletti, Gismondi, Benedetti, Massone e Ottolini e vanno ricordati per essere tra i protagonisti del giornalismo italiano nell’Argentina dell’Ottocento. Giornalismo che, nella sua parabola iniziata in epoca risorgimentale, anni in cui molti intellettuali dovevano riparare all’estero, e spentasi praticamente agli inizi degli Anni sessanta del Novecento quando ormai si può considerare concluso il processo di fusione della componente etnica italiana nella società argentina con la piena integrazione degli emigrati[2], ha visto molti italiani, per motivi diversi stabilitisi in quel grande Paese, impegnati in difesa della sempre più numerosa comunità. Politici, sindacali, culturali o di informazione che fossero, per più di un secolo i giornali di collettività, per gli emigrati hanno costituito il trattino di congiunzione con l’Italia e con il paese ospitante e uno strumento per affermare la propria identità. Ciò avvenne non solo in Argentina ma ovunque, nei paesi del Mediterraneo, in Asia, in Sud Africa, in Australia e nelle Americhe, gli italiani si siano insediati per motivi di lavoro toa Ottocento e Novecento[3].

    Cosa è accaduto nei media della collettività italiana in Argentina prima e dopo quell’istantanea che risale all’ultima decade del secolo XIX? La storia di questa stampa, scarsamente considerata fino agli anni Sessanta del Novecento, mai oggetto di organica trattazione, ha bisogno di maggiore attenzione perché la parola stampata non è solo traccia identitaria e il giornale non è solo deposito di memoria, ma essa serve per leggere l’evoluzione di un popolo e di un costume, in questo caso del mantenimento di una identità senza con ciò rinunciare a forme di integrazione avanzata. In Italia e in Argentina, Uruguay e Brasile, per quanto riguarda il subcontinente americano, è stata oggetto di articoli e saggi che hanno avviato un approccio rigorosamente scientifico. Nel giugno 2006, per esempio, è stata anche tema di una mostra al Centro Cultural Borges di Buenos Aires[4], poi replicata a Roma[5] che ha offerto ai visitatori l’occasione per apprezzare momenti di storia sociale della comunità italiana in Argentina tramite una cinquantina di prime pagine delle più indicative testate etniche che dall’Ottocento in poi hanno visto la luce.

    Solo nel 2009 è stato pubblicato, finalmente, il bel volume «La stampa italiana in Argentina» di Federica Bertagna. L’autrice fornisce un quadro storico di lungo periodo e si sofferma in particolare su tre grandi quotidiani che, in epoche diverse, hanno segnato la storia del giornalismo italiano in Argentina: «La Patria degli Italiani», «L’Italia del Popolo» e infine il «Corriere degli Italiani»[6].

    L’interesse per la storia dell’emigrazione e, in essa, per il grande esodo e il travagliato inserimento degli italiani in Argentina, un paese dalla forte capacità attrattiva che si offrì subito come seconda patria e divenne un crogiuolo di idiomi e di culture[7], dopo un’attenzione in generale «tardiva e intermittente»[8], si è ravvivato anche in anni recenti per vicende come quella del corralito, l’impedimento da parte del governo di poter disporre del proprio danaro in banca, e del collasso economico del 2001-2002 che hanno determinato un massiccio fenomeno di rientro in Italia anche di italiani nati in Argentina. La tradizione di accoglienza ha consentito a lungo alla componente migratoria italiana nel grande paese sudamericano di mantenere una propria e ben visibile identità fatta anche di una stampa capace di organizzare la presenza e la memoria collettiva dell’emigrazione, senza con ciò estraniarsi dalla vita nazionale e dalle aspirazioni generali di sviluppo, anzi partecipandovi da protagonista: basta ricordare le legioni di combattenti in difesa del Paese o i tanti industriali che ne cambiarono il volto già alla fine dell’Ottocento e le masse di lavoratori che hanno contribuito a formare uno Stato moderno, la partecipazione convinta alla costruzione di una storia e di una identità nazionale[9].

    2. Italiani e giornali etnici: un legame profondo

    La storia di questa stampa, così, come giustamente, e più in generale, indica Giovanni Gozzini[10], riguarda generazioni di democratici, rivoluzionari, visionari, ribelli e disperati che nello smisurato paese sudamericano cercavano, e non sempre trovarono, sicurezze sul piano della libera espressione e su quello del vivere quotidiano che dapprima l’Italia ancora frammentata e poi il nuovo Regno non garantivano.

    Per decenni l’Argentina fu terra d’immigrazione. Lande desolate furono popolate con trasferimenti di massa, veri e propri trapianti umani collettivi in terre senza popolo. La crescita demografica di questo immenso Paese, iniziata verso la fine del XVIII sec. quando venne creato il Vicereame del Rio de la Plata (1776), ebbe un forte impulso con la costituzione della Repubblica nel 1810. A cavallo tra Settecento e Ottocento alcune decine di italiani, tuttavia, si muovevano già al Plata. Secondo un censimento del 1805 a Buenos Aires vivevano 469 stranieri. Gli italiani – liguri per lo più – erano 92. Tra essi spicca il nome di un commerciante, Domenico Belgrano che fu consigliere del Cabildo, l’assemblea cittadina. Egli aveva una posizione economica agiata che gli consentì di inviare il figlio Manuel, futuro membro della Primera Junta Revolucionaria, a studiare legge in Spagna.

    «I 500 mila abitanti del 1810, anno della Rivoluzione di maggio, salirono a 7.885.237 nel 1914 (secondo il censimento nazionale di quel tempo). Fu il più potente impulso per popolare l’Argentina come appunto lo volevano gli uomini della Costituzione Nazionale del 1853»[11].

    In questa nuova Argentina, gli italiani – in centoventi anni, a partire dagli Anni trenta dell’Ottocento, ne arrivarono 3.500.000 da tutte le regioni d’Italia[12] – ebbero un ruolo di grande visibilità e altrettanta considerazione, svolgendo ruoli di primo piano. Pur dovendo affrontare viaggi che spesso diventavano dolorose odissee con perdite di molte vite umane[13] e sopportare e superare a volte l’ostilità della popolazione locale, molti di loro diventarono classe dirigente del paese e capitani d’industria, mentre la gran parte degli agricoltori e operai provenienti dall’Italia partecipò attivamente a quella grande epopea del paese ospitante, molto spesso in situazioni di disagio. E per svolgerlo, questo ruolo, non schiacciarono né misero in cantina i propri valori, i propri ricordi e la propria cultura, bensì esaltarono, offrendoli come contributo alla nascente nazione argentina, quelli che erano i tesori d’ingegno, di creatività e di cultura di cui erano eredi e portatori. Lo fecero anche con il mezzo della stampa, una stampa inizialmente legata ai moduli del giornalismo risorgimentale e a quelli di provincia nel periodo post-unitario italiano, vivacizzata continuamente con l’innesto di giornalisti «importati» o in fuga dalla madrepatria per motivi politici e per spirito di avventura. Senza dimenticare, inoltre, l’impegno di molti di loro nel nascente giornalismo platense.

    Quello che i primi emigrati trovarono, infatti, era un giornalismo giovane e dinamico che mancava, tuttavia, di stimoli innovatori. Ancor prima di dare vita ai fogli di comunità, così, il contributo del giornalismo italiano a quello argentino è stato generoso e qualificato, avendo un ruolo sostanziale nella formazione e nel consolidamento del nuovo stato fin dalle origini (l’ingresso di pubblicisti italiani sulla scena del nascente giornalismo argentino, infatti, risale al 1826).

    La storia degli italiani in Argentina è racchiusa, dunque, in decine di periodici che ne hanno seguito l’evoluzione, nei quattro periodi che l’hanno caratterizzata:

    – il primo, quello preparatorio che ha termine con gli anni Sessanta dell’Ottocento, che può essere ricordato come il tempo dell’emigrazione politica, già attiva dopo le sconfitte dei movimenti antiassolutistici del 1820-21 e del 1830-31 e abbastanza consistente dopo il 1848;

    – il secondo, quello della cosiddetta, «valanga immigratoria», dal 1876 all’inizio degli Anni venti del Novecento, quando «attraverso le reti più diverse, sia familiari che di altra natura, si sviluppò un meccanismo di ingresso degli immigrati e di trasmissione di aspettative positive, che promettevano benessere assicurato ai parenti del paese»[14], e quando l’Argentina mostrò una grande capacità di accoglienza di masse di lavoratori italiani scacciati dal processo produttivo, anche per la lunghissima crisi agraria che mise in ginocchio la già gracile economia del Mezzogiorno d’Italia nelle ultime decadi dell’Ottocento;

    – il terzo tra le due guerre mondiali, col sostanziale blocco determinatosi per la politica emigratoria nel periodo fascista quando il regime utilizzò le Colonie di emigrati, che sull’onda del patriottismo avevano dato vita a numerosi Fasci di combattimento di italiani all’estero[15], assieme alla diplomazia e ai giornali come strumento per diffondere la propria ideologia[16] e sostenere la politica estera del regime;

    – il quarto, che esula già da questo studio, con l’ultimo esodo di massa iniziato nel secondo dopoguerra e conclusosi negli anni Cinquanta;

    – un quinto periodo, può essere rappresentato dagli anni della completa assimilazione dell’emigrazione, con una stampa in lingua italiana, modesta dal punto di vista editoriale e, a ogni modo, con fini diversi da quello per cui si era sviluppata per quasi un secolo.

    La stessa periodizzazione può essere utilizzata per la storia dei giornali italiani in Argentina; partendo dagli incerti e comunque esaltanti esordi per arrivare al declino dell’ultimo mezzo secolo, in questo lavoro – nato dallo stimolo di un amore solido per questa terra – attraverso la storia di un grande quotidiano, «La Patria degli Italiani» che con altri quotidiani e periodici ha testimoniato l’operosità della collettività tenteremo di leggere in filigrana la vicenda dei giornali e del giornalismo etnico italiano in Argentina dalle origini all’avvento del fascismo in Italia che scompaginò la situazione nelle cosiddette colonie d’emigrazione e pose fine alla storia del più grande quotidiano in lingua italiana all’estero perché non si piegò al regime.

    In queste pagine ho cercato, insomma, di ricostruire una sorta di epopea del giornalismo d’emigrazione che tra Ottocento e Novecento ha visto tra attori e fruitori milioni di nostri connazionali. Lasciando l’Italia essi avevano trovato nell’Argentina una «seconda patria». Una «terza patria» fu rappresentata dai giornali e in maniera particolare dal quotidiano fondato da Basilio Cittadini che si richiamava anche nel nome all’Italia e per più di mezzo secolo ha segnato la storia della stampa etnica e della stessa comunità. Un giornale che, insomma, divenne la «Patria di carta».

    [1]Il risvolto del volume Argentina, l’altra patria degli italiani, Manrique Zago ediciones, Buenos Aires 1983, dove la foto si trova in copertina afferma che si tratta di giornalisti in attesa del primo periodico italiano a Buenos Aires. La presenza, al centro nella foto, di Gustavo Paroletti che diresse «La Patria Italiana» trasformandola in «La Patria degli Italiani», dimostra che la foto è stata scattata in ben altra occasione, nell’ultima decade dell’Ottocento, quindi molto tempo dopo la nascita del primo periodico di comunità.

    [2]Mario Basti, Feconda integrazione, in Gli italiani in Argentina negli ultimi cinquant’anni 1937-1987, Manrique Zago ediciones, Buenos Aires 1987, p. 23.

    [3] Cfr. Pantaleone Sergi, Stampa migrante, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009.

    [4]La mostra «Giornali al Plata» si è svolta in occasione dei sessanta anni della Repubblica italiana ed è stata curata da Dante Ruscica, per molti anni addetto stampa dell’Ambasciata italiana a Buenos Aires. Purtroppo non è stato redatto un catalogo che avrebbe potuto concretamente contribuire alla storia del giornalismo italiano in Argentina. In compenso, dell’iniziativa hanno parlato i maggiori quotidiani argentini (cfr. Juan Pablo Casas, Los inmigrantes italianos, a través de sus propios diarios, in «Clarin», 2 giugno 2006; Susana Reinoso, «Muestra sobre la prensa italiana en la Argentina», in «La Nación», 2 giugno 2006) e i periodici di collettività (cfr. Edda Cinarelli, Giornali al Plata. Omaggio agli storici giornali italiani pubblicati in Argentina, in «Voce d’Italia», 31 maggio 2006).

    [5]Julio Algañaraz, Exponen en Roma la historia de diarios italianos en la Argentina, in «Clarin», 2 novembre 2007.

    [6]Federica Bertagna, La Stampa italiana in Argentina, Donzelli, Roma 2009. Su «L’Italia del Popolo» la stessa autrice ha pubblicato uno studio con annessa antologia di testi: L’Italia del Popolo. Un giornale italiano d’Argentina tra guerra e dopoguerra, Sette Città, Livorno 2008.

    [7]Tra i contributi storici più recenti: Fernando J. Devoto, Storia degli italiani in Argentina, Donzelli, Roma 2007; Piero Bevilacqua, Andreina Clementi, Emilio Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana (in due volumi: I - «Partenze», 2001, e II - «Arrivi»), Donzelli, Roma 2003); si veda anche: Matteo Sanfilippo (a cura di), Emigrazione e storia d’Italia, Pellegrini, Cosenza sd, nel quale sono stati raggruppati studi apparsi sul «Giornale di Storia Contemporanea», V, 2, 2002 e VI, 1, 2003. Nel corso di questa ricerca abbiamo fatto spesso riferimento, poi, a numerosi studi di Fernando J. Devoto e di Gianfausto Rosoli specificamente dedicati all’Argentina.

    [8]Serenella Pegna, Malessere e ambizioni della storia delle migrazioni, in «Storica», 24, 2002, pp. 75-90.

    [9]Il giornalista Antonio Massone, per esempio, nel 1882 organizzò al quartiere Boca di Buenos Aires, dove numerosa e organizzata era la presenza italiana, festeggiamenti per i 400 anni della scoperta dell’America

    [10]Giovanni Gozzini, Storia del giornalismo, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. XX.

    [11]Argentina. Un paese latinoamericano, Buenos Aires, FAIGA, 1977, p. 12

    [12]Fernando J. Devoto, In Argentina, in Bevilacqua, de Clementi e Franzina, Storia dell’emigrazione italiana cit., vol. «Partenze», p. 25.

    [13] Sul tema dei disastrosi viaggi – raccontati con rigore storico e brillante taglio divulgativo – cfr. Gian Antonio Stella, Odissee. Italiani sulle rotte del sogno e del dolore, Rizzoli, Milano 2004.

    [14]Graciela Bramaglia, Mario Santillo, Un ritorno rinviato: discendenti di italiani in Argentina cercano la via del ritorno in Europa, in «Altreitalie», 1, 2002, p. 36.

    [15]Matteo Pretelli, Fasci italiani e comunità talo-americane: un rapporto difficile (1921-1929), in Matteo Sanfilippo (a cura di), Emigrazione e storia d’Italia, Pellegrini, Cosenza 2003, p. 215.

    [16]Alessandro Migliazza, Il problema dell’emigrazione e la legislazione italiana sino alla seconda guerra mondiale, in Gli italiani fuori dall’Italia, Fondazione Brodolini, Milano 1983, p. 53.

    La stampa italiana degli esordi

    1. Emigrazione e bisogno d’informazione

    A metà dell’Ottocento, l’Argentina era un paese di solitudini. Distese sterminate, senza confini e senza orizzonti, inabitate e inaccessibili si offrivano a massicci insediamenti umani. Sembrava un paradiso terrestre, la terra promessa a portata di mano. Almeno così la vedevano quanti, per scelta o costrizione, lasciavano il vecchio continente in cerca di fortuna.

    Quando, con la battaglia di Caseros del 3 febbraio 1852, finì il lungo «regno» di Rosas, l’Argentina riaprì le porte agli stranieri, seguendo la massima gobernar es poblar, governare è popolare, di Juan B. Alberdi, massima che per decenni guiderà la politica nazionale dell’immigrazione[1]. Gli emigrati italiani assunsero, in questa realtà, un ruolo ancor più decisivo e, dopo l’approvazione della Costituzione del 1853 con la quale (art. 25) il governo federale, facendo proprie le idee di Alberdi, s’impegnò a stimolare l’immigrazione europea, perché ne aveva necessità, essi diventarono gli ispiratori del riformismo argentino, parte sostanziale, dunque, della storia nazionale.

    L’Argentina, allora, fu protagonista di un processo di grandi cambiamenti. «Durante questi anni lo Stato prese forma, si consolidò un’economia capitalistica agraria e si delineò una società complessa ed eterogenea»[2]. Nessun mutamento, tuttavia, sarebbe stato possibile, né tanto meno un’economia di tipo capitalistico avrebbe potuto affermarsi negli anni seguenti, senza l’apporto di eccezionali flussi migratori provenienti dal vecchio continente.

    Per la massa di emigrati giunti dall’Italia, in gran parte analfabeti e senza alcun capitale se non quello delle proprie braccia, destinati per questo a lavori umili per lo più nei campi come braccianti nelle aziende agricole latifondiste, considerati gli ultimi nella scala sociale, le difficoltà d’integrazione sono state sempre notevoli, nonostante il forte legame sociale e l’affinità culturale tra l’Italia e l’Argentina.

    Il senso di smarrimento, i disagi, la nostalgia ma anche il bisogno di aiutarsi vicendevolmente li spinse a formare isole di italianità, a raggrupparsi fondando associazioni operaie, scuole, ospedali, banche, società di mutuo soccorso, chiese e anche giornali «per mantenere vive le proprie tradizioni e sostenersi con generoso solidarismo nei momenti difficili»[3].

    Gli emigrati italiani, in effetti, in qualsiasi parte del globo siano andati alla ricerca di «mondi di Abbondanza», hanno sempre tentato di ricostruire un ambiente fisico, sociale e culturale che li facesse «sentire a casa». Migliaia di persone, per lo più provenienti dagli stessi paesi e dalle stesse aree geografiche, hanno così riproposto modelli urbanistici, ambienti e comportamenti somiglianti a quelli di origine, «unità minime territoriali in cui gli individui possano trovare la loro identità mediante modelli di rapporti sociali da loro stessi scelti»[4]: diverse strade di Lomas del Mirador, nella Gran Buenos Aires, per esempio, somigliano a quelle di uno dei tanti paesini del Mezzogiorno d’Italia, anche nella loro desolazione e nei modi di vita degli abitanti[5] e nel nuovo mondo – soprattutto nelle Americhe – gli emigrati si sono portati i loro santi e le loro tradizioni, hanno difeso, finché hanno potuto, la loro lingua. Hanno, insomma, tentato di ricostruire un paese doppio, un sosia di quello che avevano lasciato oltreoceano[6], considerandolo «come baluardo contro il rischio di scomparsa dell’io, come difesa dall’annientamento, come accompagnatore per scoprire nuovi mondi»[7]. Insomma, per l’emigrante oltreoceano c’è la «necessità – avvertita o inconscia – di ricostituire nel luogo di destinazione un sistema di vita che gli consenta di continuare a sperimentare, in una certa misura, i modelli di comportamento cui era abituato»[8].

    In questo sistema di autodifesa identitaria etnico-culturale in cui i legami si rafforzano, i giornali dell’emigrazione hanno svolto un ruolo di sostegno essenziale. Soprattutto per quanto riguarda la lingua, obiettivo culturale ma anche necessità molto avvertita. Perché se è vero che perdere la propria lingua significa perdere percentuali di identità nazionale, è anche vero che il mantenimento dell’idioma d’origine – compito prioritario affidato alla stampa d’emigrazione, soprattutto degli esordi – significa anche una potenziale maggiore diffusione degli stessi giornali italiani. Per cui si è determinato un rapporto diretto, traducibile quasi in una costante matematica, tra progressiva scomparsa della lingua e diminuzione delle testate e delle copie vendute.

    Il compito dei giornali etnici, ovviamente, non è solo quello di contribuire al mantenimento della lingua e non si esaurisce col fatto che sempre meno gli emigrati parlino l’italiano (quelli nati in Italia, infatti, nel 1991 rappresentano solo l’1 per cento della popolazione. Erano l’1,5 per cento dieci anni prima e sono in progressivo calo anche per fatto biologico[9]). Questi giornali, qui come altrove «specchio della […] situazione sociale e professionale [degli emigrati], del loro crescente inserimento nella società, delle loro resistenze (politiche, culturali, linguistiche, religiose…) all’assimilazione»[10], hanno svolto e ancora in parte svolgono un ruolo insostituibile di collegamento con la madrepatria e con il paese di emigrazione di cui interpretano la realtà, sono il collante della comunità, partecipi della sua vita e dei suoi problemi, voceros delle rivendicazioni, valorizzatori e divulgatori dell’italianità, promotori della cultura e dell’economia comunitaria, traghettatori tra due società e due culture per favorire un processo di integrazione che non sia traumatico, erogatori di assistenza materiale[11]. In alcuni momenti essi operarono in sostituzione o in supporto dei patronati italiani che, maggiormente nel primo secolo di emigrazione, non erano presenti e attivi come lo sono oggi[12].

    Balza evidente, dunque, il ruolo sociale della stampa d’emigrazione, quella stampa gestita dagli immigrati e rivolta alla comunità etnica che la mantiene, per il sostegno, in tutti i sensi, che essa ha dato agli emigrati, aiutandoli a capire la nuova realtà, favorendone l’integrazione, mantenendo vivo il legame tra le «due Italie», quella di origine e quella «ricostituita» in terra d’emigrazione. Di più. Una recente storiografia latino-americana, quella che negli ultimi lustri si è occupata delle problematiche relative a sovranità, rappresentazione politica e partecipazione civica[13], prendendo in esame le comunità di immigrati apparentemente assenti dalla dialettica politica nazionale, specialmente nella seconda metà dell’Ottocento, conclude che la stampa etnica, quella cittadina e quella della campagna, costituì il mezzo meno formale rispetto ai comizi con cui le comunità di emigrati, e tra esse senza dubbio quella italiana che era la più consistente in termini numerici e per «qualità» politica, partecipavano alla «cosa pubblica»[14].

    La scelta dell’emigrazione italiana – inizialmente colta, fatta di esiliati politici, carbonari, mazziniani e massoni, reduci sconfitti delle lotte del 1848[15] – di partecipare indirettamente al processo di radicale mutamento dell’Argentina, permeandola con idee riformiste e liberali, segna già, così, il primo giornalismo di emigrazione dell’Ottocento, «sottintendendo sovente un impegno personale artigianale, lo sfogo quasi di idee, di circostanze e di speciali momenti storici»[16].

    In tale contesto, quelle pubblicate agli esordi del giornalismo etnico italiano in Argentina sono per lo più «testate e fogli di intonazione libertaria, romantica, quasi avventurosi»[17] che riflettono e si fanno interpreti delle impazienze dei patrioti con la mente rivolta alle vicende italiane anche se, partecipando attivamente alla vita civile del paese, «non chiedevano soltanto un asilo, un rifugio, ma portavano ai popoli che li accoglievano il contributo della propria passione politica e delle loro idee»[18].

    Molti di tali impegni si possono ritrovare già nel programma di quello che avrebbe dovuto essere il primo giornale italiano in Argentina (1854), che significativamente si doveva chiamare «L’Italiano». L’idea, quando ancora le navi non avevano iniziato a trasportare migliaia di immigrati ogni settimana, «tonnellate umane» come sono state definite, era stata del patriota Giovanni Battista Cuneo, che aveva fatto esperienze analoghe in Brasile e in Uruguay: in quest’ultimo paese pubblicò un settimanale con la stessa testata[19].

    «Riflesso fedele di tutte le aspirazioni, di tutti gli attriti, di tutte le lotte e speranze dalle quali fu travagliata ed eccitata la Colonia Italiana»[20], il programma redatto da Cuneo per il settimanale «L’Italiano», individuava il compito della stampa di collettività soprattutto in quel momento storico di fervori risorgimentali vivi tra gli italiani, e cioè quello di fornire agli emigrati – con una funzione di raccordo – notizie del proprio paese e di quello ospitante, in evidente chiave didascalica. Si legge nel programma: «È bisogno generalmente sentito tra gli italiani residenti all’estero, quello di conoscere nel lor vero e genuino carattere, i fatti che vengono svolgendosi nel nostro paese, quale relazione esista tra quelli che accadono nelle provincie d’Italia, e come tutti si connettano al grande pensiero della rigenerazione nazionale. Desiderosi di soddisfare a questo bisogno, per gli italiani qui residenti, e spronati più ancora dal dovere di apostolato, che c’impone di adoprarci a mantener vivo tra i nostri lo spirito nazionale, e di propagare quelle dottrine nelle quali ci sembra riposta la salute della Patria, annunciamo il progetto d’un foglio periodico, da pubblicarsi una volta la settimana e col nome posto in fronte a questo scritto»[21].

    2. I giornali della collettività italiana

    «L’Italiano», si è visto, rimase solo allo stadio di progetto. Il primo giornale etnico della comunità italiana, fu così «La Legione agricola» diretta e redatta dallo stesso Cuneo. Il giornale, annunciato dal quotidiano «El Nacional» del futuro presidente della Repubblica Don Domingo Faustino Sarmiento, ebbe vita breve. Uscirono soltanto 14 numeri, stampati nella tipografia del quotidiano «La Tribuna» sul quale Cuneo scriveva come redattore dopo il suo arrivo a Buenos Aires: il primo è datato 21 gennaio 1856, l’ultimo il 26 settembre dello stesso anno.

    La vicenda del primo giornale italiano in Argentina è tutta legata a un episodio singolare, la fondazione della colonia Nuova Roma, voluta dal colonnello Silvino Olivieri[22]. Questi, che già aveva combattuto in Argentina contro Rosas, tornato in Italia era finito nelle prigioni del Papa con una condanna a 15 anni. Sulle pagine della «Tribuna», Cuneo lanciò con successo una campagna per la libertà di Olivieri, il quale nel 1855 rientrò in Argentina e accettò di fondare una colonia nei pressi di Bahìa Blanca, nel sud della provincia di Buenos Aires, che chiamò Nuova Roma. Cuneo fu con lui in questa avventura, sostenendo l’iniziativa con il periodico «La Legione agricola», di ispirazione mazziniana. Fu il primo di decine e decine di periodici dedicati al mondo dell’emigrazione che hanno visto la luce soprattutto a Buenos Aires ma anche in altre città e province. Il secondo periodico, anch’esso di vita effimera, infatti, apparve nel 1959 in Entre Rios: redatto da José Ballesteros e Pietro Laura, si chiamò «L’Italia» e fu molto letto nella comunità italiana di Paraná[23]. Periodici italiani in seguito apparvero anche a Cordoba, Rosario, Corrientes e altre città.

    Tornando alla «Legione Agricola», essa «doveva servire ad assecondare quell’audace, nobile e disgraziata iniziativa»[24]. Lo stesso Cuneo, nel primo numero del quindicinale, ne spiegò gli obiettivi: «Accompagnare la colonia nel suo cammino fino al punto in cui dovrà fissare le sue tende che più tardi dovranno cedere il posto agli edifici: e di lì, immedesimandosi con la vita agricola e militare del legionario seguire i suoi passi nella fortunosa marcia per il deserto in lotta con gli uomini e con gli elementi e nella paziente impresa di dissodare le terre, che aspettavano da tempo la mano che doveva fecondarle»[25]. L’assassinio di Olivieri significò anche la fine del giornale. In tutto apparvero 18 numeri: il primo il 21 gennaio 1856, l’ultimo il 10 ottobre dello stesso anno.

    Cuneo era un emigrato «politico», correttore di bozze, tipografo e giornalista. Originario di Oneglia, seguace di Mazzini (fu fra i più ardenti sostenitori della «Giovane Italia» che fece da sfondo alla emigrazione politica in tutto il Sudamerica) e amico di Garibaldi che lo ricorda nelle sue «Memorie» e del quale ha scritto la prima biografia, aveva fatto altre esperienze giornalistiche. Personaggio a tutto tondo, aveva fondato «La Giovine Italia» che, redatto in italiano, fu pubblicato a Rio de Janeiro nel 1836[26], e dopo Luigi Rossetti aveva diretto «O Povo», il periodico dei ribelli del Rio Grande do Sul.

    Il periodo uruguaiano, prodromico all’attività svolta in Argentina, è quello in cui Cuneo si affermò come entusiasta portatore delle idee mazziniane anche mediante la fondazione di giornali. Nella capitale uruguaiana, come ricorda Luce Fabbri Cressatti in una sua ricerca pubblicata sulla «Revista Garibaldi» di Montevideo, Cuneo diede vita, infatti, al giornalismo italiano propriamente detto nell’area rioplatense[27].

    Tempra di rivoluzionario, infaticabile agitatore politico e stoffa di scrittore[28], dopo una iniziale collaborazione alla rivista culturale «El Iniciador», influenzata dal romanticismo italiano, che cessò le pubblicazioni nel gennaio 1839, Cuneo scrisse di argomenti italiani per le pagine del periodico «El Nacional» di Rivera Indarte e di «El Comercio del Plata» di Florencio Varela. Sollecitato dalla numerosa collettività italiana, per lo più esuli carbonari e mazziniani in fuga dalle persecuzioni, finalmente, nell’aprile 1841 pubblicò «L’Italiano», settimanale in lingua italiana[29], Nonostante le attese e le aspettative, il periodico non ebbe grande fortuna. Furono stampati soltanto 8 numeri e altri 17 l’anno successivo, dopo una lunga interruzione. Alla resa dei conti, come lamentò lo stesso Cuneo nel numero del 3 luglio 1841 con il quale si interruppe la prima serie, gli emigrati italiani a Montevideo si dimostrarono più interessati ai propri affari che alla politica, agli ideali e, dunque, alle riflessioni di un giornale[30]. Eppure il contributo del periodico che Cuneo scriveva praticamente tutto da solo («I suoi articoli riguardano generalmente i temi politici e sono notevoli – ritengo – soprattutto per lo sforzo di radice mazziniana, di conciliare l’amore per la patria con l’amore per l’umanità attraverso un ideale di libertà per tutti», come scrisse Luce Fabbri[31]) è ancora oggi apprezzato perché fu uno stimolo alla lotta per un’Italia unita e repubblicana. Era questo, d’altra parte, il cuore dell’insegnamento di Mazzini il quale affidava agli intellettuali una missione educativa, quella di istruire le classi lavoratrici proprio attraverso i giornali.

    Chiusa l’esperienza de «L’Italiano», Cuneo si dedicò alla collaborazione con la stampa locale. Erano quelli anni di grandi ideali e al lavoro giornalistico egli affiancò quello politico, con l’impegno a tenere in piedi le diverse sezioni della Giovane Italia nate un po’ ovunque in Sudamerica e che dipendevano da quella di Montevideo da lui animata. Seguendo il motto simbolo mazziniano «Pensiero e Azione», dunque giornalismo e azione rivoluzionaria, aiutò Garibaldi a organizzare la Legione italiana che si distinse nella difesa di Montevideo contro le truppe di Manuel C. Oribe. Subito dopo, per «mantenere ardente lo spirito della Legione italiana», diede vita al secondo periodico italiano in Uruguay che chiamò «Il legionario italiano». Pubblicato dal 1844 al 1846, del periodico si conservano solo 4 numeri nella biblioteca dell’Università de La Plata. I primi tre numeri furono stampati nella tipografia di «El Nacional» dove era stato stampato anche «L’Italiano», e il quarto nella tipografia del «Comercio del Plata»[32].

    Lasciato il Sudamerica e rientrato in Italia (nel 1849 lo ritroviamo deputato al Parlamento del Regno sardo-piemontese), quindi tornato a Montevideo nel 1850, Cuneo si spostò a Buenos Aires come redattore de «La Tribuna». Divenne uno degli esponenti della comunità di esuli intellettuali e di emigrati di cui fu animatore e protettore. Rientrato, definitivamente, in Italia all’inizio degli anni Sessanta dell’Ottocento fu nominato dalla Repubblica Argentina suo rappresentante nel nuovo Regno d’Italia. Morì a Firenze nel 1875. Sono gli anni in cui, assieme a quelle che sarebbero diventate importanti e longeve testate nazionali («La Prensa», «La República», considerata l’organo più anticlericale della stampa argentina[33]), nelle strade di Buenos Aires, los canillitas[34] davano voce anche a una forte presenza di stampa etnica italiana.

    Con gli Anni Sessanta, infatti, e con un’agguerrita presenza di periodici d’ispirazione risorgimentale (dei quali aveva fatto da apripista «La Legione agricola»), ebbe inizio la vera storia del giornalismo italiano in terra argentina. Il 1860 è l’anno in cui a Santa Fe si riunisce la Convenzione Nazionale e a Buenos Aires viene varata la carta costituzionale. È un periodo tranquillo dopo decenni di tensioni e conflitti. Nacquero allora le prime testate etniche, non molte numericamente ma tutte impegnate a testimoniare la presenza italiana. Proprio nel 1860 iniziò «La Patria» che per Don Domingo Faustino Sarmiento era «el más correcto redactado en italiano»[35]. Tre anni prima, come riporta Bernardini nella sua «Guida»[36] sarebbe apparso il «Sospiro dell’Esule», foglio diretto da Cesare Orsini durato qualche numero ma del quale non c’è altra traccia. Nel 1862, invece, fu la volta, della «Rivista mensile per gli italiani», diretta dal repubblicano Gustavo Minelli, giovane professore universitario di Storia Universale dalla vita avventurosa (si improvvisò anche medico e ingegnere)[37], che non lesinava «la polemica più velenosa nel commentare sui giornali argentini vicende e personalità italiane»[38]. Minelli in seguito si trasferì a Montevideo per un’altra avventura giornalistica e «si convertì» ben presto alla monarchia che aveva unificato l’Italia. In Uruguay il 16 dicembre 1864 fece uscire il primo numero del quotidiano «L’Italia». Il 19 gennaio 1865 il giornale fu chiuso d’autorità dal capo politico di Montevideo che intimò a Minelli, minacciato tra l’altro da un redattore del giornale «L’Artigas», di lasciare il paese in 24 ore. Nonostante l’intervento sul ministro degli Esteri da parte del ministro d’Italia Raffaele Ulisse Barbolani[39], che lo indicò come suo «segretario volontario»[40] avendolo utilizzato anche come messaggero in un tentativo di pacificazione tra il governo dei blancos e il generale Venancio Flores, Minelli fu costretto a trasferirsi a Buenos Aires dove ripubblicò il suo giornale con l’obiettivo dichiarato – come scrisse sul primo numero – di diffondere «la concordia, l’unione e la gratitudine cosciente» per la Nazione che ospitava lui e tanti altri suoi compatrioti. Secondo Diego Abad de Santillán, il giornale ebbe scarso impatto nella realtà argentina[41], per i contrasti esistenti all’interno della comunità[42]. Minelli abbandonò presto l’impresa e se ne tornò in Uruguay dove i colorados erano tornati al potere col dittatore Flores.

    Nel frattempo, il 9 aprile 1863, nella capitale argentina aveva visto la luce «L’Italiano», a cui seguì, «L’Italia del giorno» diretta da Luigi D. Desteffanis che, come riferisce Niccolò Cuneo, fu simpaticamente salutato dalla stampa locale come un giornale destinato a una grande missione, in quanto «eco dei buoni figli d’Italia»[43]. Il foglio di Desteffanis in meno di un anno scomparve e il suo fondatore lo ritroviamo anni dopo sull’altra sponda del Plata, come condirettore del quotidiano liberale «L’Italia» e professore di Storia Universale all’Università di Montevideo, incarico da cui fu destituito per un articolo critico nei confronti del generale José Gervasio Artigas, scritto in un periodo in cui il governo in carica stava riabilitando la figura dell’ex presidente della Repubblica Orientale[44]. Stessa fugace presenza ebbero «L’imparziale» e il «Corriere italiano», un bisettimanale diretto da Giovanni Cervetto. Nel 1864 cercò spazio, senza trovarlo, il periodico «Biblioteca di Autori Italiani» diretto da Pietro Cagliari[45].

    Cresceva a vista d’occhio, in quantità e qualità, la presenza degli emigrati italiani e di pari passo aumentavano i punti di riferimento sociale e tra questi i giornali acquistavano un ruolo sempre più trainante. Furono anni importanti per la piccola editoria italiana nell’area platense che aumentò testate e copie, anche se la vita di molti giornali si dimostrò alquanto effimera. Il 1868 fu un anno eccezionale. Diretto da Antonio Gigli, giornalista e poi cattedratico, torinese arrivato giovanissimo al Plata all’età di 24 anni, si presentò «L’Eco d’Italia» (dal 1870 guidato da Annibale Blosi), un quotidiano di tendenza moderata e monarchica. Nello stesso 1868, per iniziativa del tipografo Giovanni Ceroni, fu stampato anche il quotidiano «Il Pungolo» diretto dal giornalista torinese F. Codecasa, che dopo pochi mesi cessò le pubblicazioni. Diretta concorrente del quotidiano «L’Eco», già sul finire del 1868, al posto del «Pungolo», da Andrea e Giuseppe Barbieri, titolari di un’importante tipografia, fu stampata «La Nazione Italiana», un quotidiano radicalmente democratico, mazziniano e anticlericale che divenne il punto d’incontro degli intellettuali italiani a Buenos Aires. Il giornale fu pubblicato per iniziativa di alcuni patrioti italiani, guidati dal ricco commerciante Achille Maveroff, tra i fondatori del Banco de Italia y Rio de la Plata, il quale, per i due anni in cui è stampato, in pratica tenne in vita il giornale con la pubblicità della sua agenzia commerciale. Accanto a Maveroff si ritrovò un gruppo di ingegneri e imprenditori, da Bernardino Speluzzi (promotore nel 1872 della Sociedad Científica Argentina), a Emilio Rossetti, a Pellegrino Ströbel, Giovanni Ramorino, Pompeo Moneta e altri, chiamati a Buenos Aires per fondare la Facoltà di Ingegneria. La direzione fu affidata inizialmente al dott. Bianchi e quindi a Giuseppe Vatri[46] e poi a Basilio Cittadini, fatto arrivare dall’Italia come redattore capo[47].

    3. La svolta e lo sviluppo

    La presenza alla «Nazione» e in Argentina di Cittadini rappresenta una svolta fondamentale per la storia del giornalismo etnico in lingua italiana. Cittadini, arrivato al Plata appena ventiseienne, era un giornalista nato a Pilzone d’Iseo (Brescia) il 2 agosto 1843. Nella sua città natale, ancora giovanissimo, assieme a Gerolamo Lorenzi fondò il giornale letterario «La Voce dei Giovani» che abbandonò quando il condirettore volle imporre una linea cattolica. Postosi al seguito di Zanardelli di cui fu compare, fece il suo apprendistato alla «Gazzetta di Brescia». Laureato in filosofia e lettere, collaborò come segretario, con Cesare Maestri, responsabile della Statistica del Regno. Quindi, si spostò a Firenze, diventata capitale del Regno d’Italia, lavorando come redattore della «Riforma» di Francesco Crispi e corrispondente del «Secolo» di Milano, il quotidiano più importante del Paese nato per iniziativa degli editori Sonzogno. A Buenos Aires si trasferì nel 1869 su consiglio di Gabriele Rosa e di Teodoro Moneta, direttore del «Secolo». La «Nazione Italiana» fondata l’anno prima aveva bisogno di una guida ferma e la trovò nel giovane giornalista, la cui lunga successiva carriera – sostiene a ragione Maddalena Tirabassi – «illustra al meglio la densa rete di relazioni sociali, politiche ed economiche» all’interno dell’élite italiana e tra questa e la collettività[48]. Cittadini condusse innumerevoli battaglie e «storiche» polemiche con politici e intellettuali argentini che non facevano nulla per mascherare la loro italofobia. Si deve anche alla sua opera se la comunità italiana cominciò ad avere la sua influenza nella società argentina, alla quale si rivolgeva attraverso i propri giornali che dopo il 1868 furono dominati da un gruppo mazziniano con forte impronta laicista e anticlericale.

    Alla «Nazione Italiana», Cittadini sostituì la linea incerta fino ad allora espressa che cercava di assecondare le diverse posizioni politiche esistenti tra gli

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