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I Fratelli Bandiera. Racconto documentato. Così come si svoldero i fatti
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E-book551 pagine7 ore

I Fratelli Bandiera. Racconto documentato. Così come si svoldero i fatti

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L’Autore, che si è avvicinato alla storia dei Bandiera e del Risorgimento nelle vesti di appassionato lettore, affronta l’argomento con modalità scientifiche mettendo in luce la formazione politica dei due eroi, la carriera militare nella marina austriaca, la vita affettiva, gli amori, le convinzioni e l’evoluzione dei fatti sediziosi attraverso la documentazione epistolare e i fascicoli processuali dell’Archivio di Stato di Cosenza.
È un teatro storiografico realista, quello delineato da Luigi Tuoto, fuori da ogni mito e dalle ideologie, dove i protagonisti si riappropriano della propria carnalità e ritornano a giocare su più scenari geografici lacerati dalla tirannide dei governi, accettano il rischio come elemento indispensabile per coltivare il sogno italiano e sacrificano la carriera e il denaro sull’altare delle idee (...).
È un racconto animato da un groviglio di persone, che con le loro esperienze contribuiscono a delineare meglio il profilo umano e psicologico dei protagonisti, dove emergono anche le atmosfere e gli spazi fisici della Calabria di metà Ottocento.
Dalla presentazione di Antonello Savaglio



 
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2019
ISBN9788868228637
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    Anteprima del libro

    I Fratelli Bandiera. Racconto documentato. Così come si svoldero i fatti - Luigi Tuoto

    LUIGI TUOTO

    I FRATELLI BANDIERA

    Racconto documentato

    Così come si svolsero i fatti

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore – Cosenza – Italy

    Stampato in Italia nel mese di settembre 2019 per conto di Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) – 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 – Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Alla memoria dei miei amati genitori

    Giuseppina e Gaetano

    «[…] La Patria non è un territorio; il territorio non ne è che la base. La Patria è l’idea che sorge su quello; è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale – finché un solo vegeta ineducato fra gli educati – finché uno solo, capace e voglioso di lavoro, langue per mancanza di lavoro, nella miseria – voi non avrete la patria come dovreste averla, la patria di tutti, la patria per tutti. Il voto, l’educazione, il lavoro sono le tre colonne fondamentali della Nazione; non abbiate posa finché non siano per opera vostra solidamente innalzate. E quando lo saranno – quando avrete assicurato a tutti il pane del corpo e quello dell’anima – muovete allo sviluppo della missione Italiana e ricordatevi che quella missione è l’Unità morale d’Europa […]»

    Giuseppe Mazzini

    Dei doveri dell’uomo, 1860, p. 74

    Contenuti speciali: fotografie e documenti

    Presentazione

    Nella prima metà dell’Ottocento, l’Italia fu palcoscenico di forti tensioni sociali e di rivolte politiche. Nel Mezzogiorno, ritornato ai Borbone dopo il crollo dell’impero napoleonico, i primi tentativi rivoluzionari furono registrati nel 1820-1821 quando scoppiarono i moti carbonari, con gli insorti che chiedevano l’approvazione della Costituzione, la libertà di stampa e un migliore progetto economico, capace di permettere alle famiglie di superare il tunnel della miseria.

    L’immobilismo degli anni successivi esacerbò i rapporti e negli «animi irritati ed anelanti a vendette e a pazzi trionfi»[1], scriveva il contemporaneo F.A. Gualterio, si radicò il pensiero mazziniano e della Giovane Italia, che ambivano a creare una Nazione unita e indipendente, con un assetto istituzionale repubblicano «il cui modello costituzionale sarebbe stato definito da una assemblea eletta a suffragio universale»[2]. Da qui altri piani di cospirazione e una serie di rivolte in Toscana (1831), negli Abruzzi (1837), in Romagna (1843) e, naturalmente, in Calabria: l’area geografica più arretrata del Regno delle Due Sicilie dove, notava Luigi Settembrini, «il popolo vive miseramente, e in un’ignoranza che fa pietà: sono rozzi e fieri, ma non sono sciocchi; pochi esercitano un’arte o un mestiere, gli altri servono, o coltivano i campi o guardano gli armenti: per miseria rubano, e per natura impetuosa trascorrono ai delitti di sangue […] i fuorbanditi si uniscono in compagnia, taglieggiano i proprietari, ricattano uomini, fanciulle, donne, e non li rimandano se non hanno danari e robe: se il proprietario non manda loro ciò che gli chiedono, gli scannano il bestiame, gli bruciano il casino, e se colgono lui lo uccidono»[3].

    Tra questa gente si mossero i fratelli veneziani Attilio ed Emilio Bandiera i quali, informati della rivolta scoppiata a Cosenza il 15 marzo 1844, scelsero il capoluogo di Calabria Citra come il luogo idoneo per dare avvio al processo di rinnovamento politico nazionale. Fu un errore fatale. Il 19 giugno 1844, alle porte di San Giovanni in Fiore, i patrioti, segnalati alle milizie borboniche e circondati dagli urbani del centro silano e da uomini che difendevano i loro interessi, furono catturati e tradotti nelle prigioni della città bruzia. Sottoposti a un falso processo, assodato che il marchese di Pietracatella Giuseppe Ceva-Grimaldi aveva già deciso la sentenza[4], i consanguinei e altri sette membri della spedizione furono condannati a morte e fucilati, il 25 luglio 1844, nel vallone di Rovito.

    Chiusi i riflettori della cronaca politica, la vicenda catturò l’interesse della storiografia, della musica e dell’arte. La scrittura, il suono e l’immagine si coniugarono, così, all’unisono tramandando ai patrioti e alle future generazioni le sembianze dei due martiri, la memoria del sacrificio per l’Italia e la ricchezza del pensiero[5]. Due anni dopo la morte, Goffredo Mameli componeva l’inno Ai Fratelli Bandiera, che terminava con l’assicurazione: «Nel nome dei Bandiera, / lo giuro, la grand’Era / promessa arriverà»[6]. Il laboratorio litografico del bolognese Giulio Wenk, in seguito, riprodusse i ritratti eseguiti in carcere dallo scultore Giuseppe Pacchioni (superstite della spedizione), nei quali la madre Anna Marsich colse i tratti della sofferenza, il terrore di chi sta per essere privato della vita e il canto della malinconia generato dalla delusione politica. «Viva amarezza provonne il materno animo mio – scriveva il 22 ottobre 1867 a Gioacchino Gaudio – nella attenta ispezione che porsi a quegli adorati sembianti sí mutati nell’aspetto che dessi all’ultimo loro distacco dal mio seno avevano; da ravvisar visi l’eloquente espressione della impressione che ne soffrirono i loro lineamenti nelle crudeli ed amare sofferenze del carcere che condusseli al fatal supplizio». Più problematico il cammino degli storici che, almeno per i primi anni, furono impediti di accedere agli atti del processo, ad eccezione del visconte d’Arlincourt[7]. Tuttavia, nel 1848, Antonio Bonafede diede alle stampe la ricerca intitolata Sugli avvenimenti dei fratelli Bandiera e di Michele Bello in Calabria negli anni 1844 e 1847, a cui seguirono altri due lavori firmati da Ricciardi, Lattari e Caputi editi nel 1863[8].

    A questo fiume letterario, ingrossato nel XX secolo con contributi di notevole spessore, a cominciare dal saggio di Riccardo Pierantoni[9], si unisce oggi il libro di Luigi Tuoto, che appare come una risposta all’esortazione di Giorgio Napolitano di studiare le esperienze dei decenni passati «senza superficiali nostalgismi, senza tentazioni impossibili di ritornare indietro, si formulino ipotesi nuove (partendo dal fatto che) la politica generale dello Stato deve cambiare guardando alla valorizzazione del Mezzogiorno nell’interesse di tutto il Paese; e l’insieme della società italiana deve muoversi nello stesso senso: le sue forze produttive, le energie imprenditoriali, non solo le forze politiche, impegnate nel governo della cosa pubblica»[10].

    L’Autore, che si è avvicinato alla storia dei Bandiera e del Risorgimento nelle vesti di appassionato lettore, affronta l’argomento con modalità scientifiche mettendo in luce la formazione politica dei due eroi, la carriera militare nella marina austriaca, la vita affettiva, gli amori, le convinzioni e l’evoluzione dei fatti sediziosi attraverso la documentazione epistolare e i fascicoli processuali dell’Archivio di Stato di Cosenza. È un teatro storiografico realista, quello delineato da Luigi Tuoto, fuori da ogni mito e dalle ideologie, dove i protagonisti si riappropriano della propria carnalità e ritornano a giocare su più scenari geografici lacerati dalla tirannide dei governi, accettano il rischio come elemento indispensabile per coltivare il sogno italiano e sacrificano la carriera e il denaro sull’altare delle idee le quali, notava Enrichetta Di Lorenzo (la compagna di Carlo Pisacane) sono lo specchio della purezza dell’animo e dei sentimenti del cuore[11]. È un racconto animato da un groviglio di persone, che con le loro esperienze contribuiscono a delineare meglio il profilo umano e psicologico dei protagonisti, dove emergono anche le atmosfere e gli spazi fisici della Calabria di metà Ottocento. Luoghi isolati e silenziosi, in cui maturò la tragedia dei fratelli veneziani. Un epilogo di sangue e di morte determinato dalla volontà dei gruppi egemoni e dall’ignoranza delle masse che, per l’ennesima volta dopo i fatti del 1799, furono incapaci di percepire l’importanza del nuovo progetto politico. Nel 1844 come nella rivolta giacobina, infatti, i calabresi furono indifferenti al messaggio repubblicano mettendo in evidenza – osservava Carlo Lauberg – che la sovranità popolare era un frutto per palati più raffinati e andava servito su altre mense poiché «il governo democratico è buono per un popolo virtuoso: noi siamo troppo corrotti e non ci conviene»[12].

    A distanza di 175 anni dalla morte di Attilio ed Emilio Bandiera, in un periodo storico in cui si tende a considerare superfluo il messaggio del passato a discapito del profitto e delle mondanità[13], questa biografia, scritta con stile chiaro e fluido, ha un valore incalcolabile e rappresenta uno strumento necessario a debellare il pericolo dell’oblio, infrangere il ghiaccio dell’ignoranza e tenere lontane le «bestemmie separatiste» sui valori dell’unità nazionale che, ha scritto Giustino Fortunato, «quali che siano i suoi torti, quali che siano i suoi errori […] è la salvezza della nostra indipendenza». Il porto sicuro di Luigi Tuoto per scongiurare i timori di un possibile naufragio verso uno Stato più o meno federale, che «segnerebbe l’inizio della comune perdizione»[14] dove verrebbe meno il legame dell’uomo verso il suo prossimo e la forza legante e vincolante che solo la storia riesce a trasmettere, come insegna Jacques Le Goff.

    Castrolibero, 1 luglio 2019

    Antonello Savaglio

    [1]F.A. Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani. Memorie storiche con documenti, Firenze 1850, vol. I, p. 19.

    [2]A. De Francesco, La cultura politica e i modelli istituzionali, in «L’Unificazione italiana», Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 2011, p. 32.

    [3]A. Placanica, Storia della Calabria dall’antichità ai giorni nostri, Donzelli, Roma 1999, pp. 316-317. Altre notizie in G. Galasso, Calabria, paese e gente difficile, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015, pp. 105-128.

    [4]«Il Re, che in quei giorni si trovava in Sicilia, sarebbe stato incline alla misericordia verso quei cavalieri erranti. Purtroppo il marchese di Pietracatella, incaricato di sostituire Del Carretto come capo della polizia, insisté sulla necessità di agire ancor più severamente con gli stranieri dopo che, per la rivolta di Cosenza, erano stati messi a morte sei napoletani. Eliminandoli, egli sosteneva, si sarebbe arrestato il contagio rivoluzionario; perdonandoli si sarebbe commessa un’imperdonabile debolezza», cfr. H. Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli (1825-1861), Aldo Martello Editore, Milano 1973, pp. 194-195.

    [5] In questo filone può collocarsi anche la fotografia e, specialmente, l’attività del cosentino Carlo Santoro che, nel 1867, immortalò la cerimonia di accompagnamento delle salme dei fratelli Bandiera estratte dalla tomba, nella Cattedrale, per essere portate a Venezia, cfr. L. Bilotto (a cura di), Cosenza la città e l’arte. Le opere d’arte di proprietà comunale, Amministrazione Comunale di Cosenza, Cosenza 2007, pp. 20, 22.

    [6]L. Villari, bella e perduta. L’Italia del Risorgimento, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 118.

    [7] Così scriveva, nel 1850, F.A. Gualterio: «I particolari di quel processo sono ignoti al mondo, perché stanno registrati negli atti deposti negli Archivi del regno napoletano. Niuno li vide, e perciò in mancanza di altre più gravi e coscienziose autorità, trovasi finora la storia, benché ripugnante, costretta a cercarne una nelle pagine del visconte d’Arlincourt; alle quali non attingerebbe certo se non fosse il difetto assoluto di testimonianze migliori e la certezza che egli abbia avuto il raro privilegio di esaminare liberamente le carte di quel governo», cfr. F.A. Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani, cit., vol. I, p. 352.

    [8]A. Bonafede, Sugli avvenimenti dei fratelli Bandiera e di Michele Bello in Calabria negli anni 1844 e 1847, Napoli 1848; G. Ricciardi-F. Lattari, Storia dei fratelli Bandiera, Firenze 1863; M. Caputi, Esposizione dei fatti relativi alla partenza dei fratelli Bandiera da Corfù per la Calabria, Napoli 1863.

    [9]Tra gli ultimi lavori segnaliamo: D. Musto, Per una seconda documentazione della spedizione e del processo Bandiera in «Rassegna Archivi di Stato», A. XXIV, n. 1, 1964; AA.VV., Tra i Bandiera e il 1848. Le fonti dell’Archivio di Stato di Cosenza, Editoriale Progetto 2000, Cosenza 1999; S. Meluso, La spedizione in Calabria dei fratelli Bandiera, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001; Idem, La guida calabrese dei fratelli Bandiera. Vita straordinaria di Giuseppe Meluso, Calabria Letteraria, Soveria Mannelli 2012.

    [10]G. Napolitano, Una e indivisibile. Riflessioni sui 150 anni della nostra Italia, Rizzoli, Milano 2011, p. 21.

    [11]V. Mazzei, Il socialismo nazionale di Carlo Pisacane, Grisolia Editore, Lamezia Terme 1999, p. 38.

    [12]A. Savaglio, La vulcanica esplosione. Le repubbliche giacobine di Calabria Citra, in «Rivoluzione e Antirivoluzione in Calabria nel 1799», Atti del IX Congresso Storico Calabrese, Laruffa, Reggio Calabria 2003, p. 223.

    [13]P. Bevilacqua, Sull’utilità della storia per l’avvenire delle nostre scuole, Donzelli, Roma 2000.

    [14]G. Napolitano, Una e indivisibile, cit., p. 19.

    Antefatto

    Il 9 aprile 1844 Attilio Bandiera, da Atene, comunicava al suo amico Antonio Morandi, patriota modenese residente sull’isola greca di Sira, che il moto rivoluzionario scoppiato a Cosenza il XV marzo 1844 era stato represso nel sangue. Venticinque giorni dopo quello storico avvenimento il maggiore dei fratelli Bandiera, sapeva, come egli stesso scrisse:

    che il moto di Cosenza venne soffocato[1].

    Nonostante ciò e malgrado tre giorni prima di partire verso la foce del Neto, i suoi programmi prevedessero di raggiungere mete di altre regioni d’Italia, lui e suo fratello Emilio, ufficiali disertori della marina austriaca, da Corfù, dove entrambi trovarono asilo, accompagnati da altri diciannove compagni, decisero ugualmente di partire verso la Calabria, presumendo, erroneamente, di incontrare in quella regione del Regno delle Due Sicilie, tanta gente, nascosta sui monti della Sila, lì rifugiata, dopo il moto cosentino, disposta a riprendere la lotta contro Ferdinando II e tentare di realizzare il sogno dell’unità d’Italia.

    La loro spedizione è oggetto di varie e controverse interpretazioni. Tante volte ho avuto la possibilità di ascoltare degli aneddoti intorno a quello storico avvenimento, per la verità non sempre concordanti e, spesso, anche molto coloriti dalla fantasia popolare.

    Una sera di giugno del 2011, poi, capitò un episodio curioso. Ritornavo a casa dal lavoro, e come ogni sera, in macchina, ascoltavo la radio, che, a quell’ora, trasmetteva un programma settimanale di approfondimento informativo. L’argomento trattato quella sera era l’unità d’Italia. Ricorreva il centocinquantesimo anniversario dell’unità nazionale.

    Per pura coincidenza, nel momento in cui stavo percorrendo il tratto di strada che attraversa il Vallone di Rovito, esattamente all’altezza dell’antico acquedotto, luogo della fucilazione dei fratelli Bandiera, uno degli ospiti della trasmissione stava parlando proprio di quella spedizione e illustrava i motivi che indussero questi patrioti a porla in atto e le cause che ne decretarono poi il fallimento.

    La singolare coincidenza ha stuzzicato la mia curiosità e mi ha indotto a fermarmi proprio a pochi metri di distanza dal luogo che fu teatro di quel tragico e celebre avvenimento. Per qualche istante rimasi ad ascoltare quel che si diceva a proposito di quella triste controversa pagina di storia, legata per buona parte alla città di Cosenza.

    Dai pareri espressi, alcuni dei quali segnatamente contrastanti, emersero non pochi interrogativi che sollecitarono in me la voglia di una conoscenza più approfondita. Decisi, così, di dedicare, da subito, un po’ del mio tempo alla lettura di testi e documenti sui fratelli Bandiera.

    La notevole raccolta di appunti, ricco mosaico di notizie storiche, selezionate e annotate durante la consultazione dei testi riportati in bibliografia, mi hanno invogliato a pubblicare il presente volume.

    Lo scritto è il risultato di un’intensa passione per la storia e vuole essere solo un semplice contributo per una disinteressata visione di quella che fu un’eroica e straordinaria pagina di storia risorgimentale, vissuta nella mia Città adottiva in quel lontano e movimentato 1844.

    [1] Buona parte della storiografia, tuttavia, riporta che i Fratelli Bandiera fossero ignari del fallimento del moto cosentino.

    Prima Parte

    1. Venezia, l’Austria e i Fratelli Bandiera

    Per contestualizzare meglio la vicenda che vide protagonisti i fratelli Bandiera, è utile evidenziare, sia pur sinteticamente, le condizioni socio-politiche in cui versava Venezia, loro città d’origine, nei primi anni del XIX secolo, fino alla caduta di Napoleone Bonaparte e la conseguente fine del dominio francese.

    Per fare ciò, bisogna tornare al periodo della Restaurazione[1], conseguenza del Congresso di Vienna del 1815, voluta per contrastare le idee della Rivoluzione Francese del 1789.

    Con la restaurazione furono ristabiliti i regimi assolutisti vigenti prima della rivoluzione francese e furono ripristinati quasi tutti i vecchi confini, così come figuravano prima delle conquiste napoleoniche. La stessa cosa, però, non avvenne per Venezia.

    La Repubblica Serenissima, com’è noto, fu conquistata da Napoleone Bonaparte nel 1797. Il 17 Ottobre di quell’anno, però, dopo il trattato di Campoformio[2], Napoleone cedette all’Austria Venezia e buona parte del territorio appartenuto alla repubblica Veneta, che comprendeva, fra l’altro, la Dalmazia, l’Istria e le Isole dell’Adriatico. L’Austria, in cambio, riconobbe la neonata repubblica Cisalpina, fondata da Napoleone Bonaparte il 29 giugno dello stesso anno.

    Il governo austriaco tenne Venezia sotto il proprio dominio fino al 1805. A dicembre di quell’anno, con la pace di Presburgo[3], ratificata a seguito della disfatta austriaca e degli altri stati che componevano la terza coalizione antifrancese, ad opera dell’esercito napoleonico, nella battaglia di Austerliz del 2 dicembre, ricordata come un capolavoro di strategia militare, Vienna dovette cedere le province venete al regno d’Italia napoleonico.

    Dal 1806, dunque, Venezia e altre città come Trieste o Gorizia, finirono sotto il dominio francese che durò fino alla disfatta di Napoleone Bonaparte e allo scioglimento del regno d’Italia avvenuto il 23 aprile 1814.

    Dopo i lavori del congresso di Vienna del 1815, la vecchia repubblica di Venezia non fu più ricostituita ma fu aggregata al nuovo regno Lombaro-Veneto, istituito al posto del decaduto regno d’Italia napoleonico e sottoposto al controllo politico e militare dell’Austria. Vienna, perciò, ritornò nuovamente a essere padrona di Venezia.

    Il primo ministro austriaco, l’astuto principe di Metternich, comprese benissimo l’importanza di assicurare all’impero asburgico uno sbocco sul mare. Si adoperò alacremente in tal senso e, in poco tempo, riuscì ad approntare su tutto il territorio del Lombardo-Veneto, un ingente apparato politico-militare, che, di fatto, assicurava all’Austria il controllo sistematico su tutta l’area. Per la verità, come sappiamo, tutte le azioni dirette alla formazione e al consolidamento dell’assetto politico dell’Italia post-congressuale furono profondamente condizionate dall’azione diplomatica del primo ministro asburgico, che fece di tutto per sottoporre al controllo dell’Austria l’intera Penisola italiana. Ben presto venne in possesso di tutto l’arsenale della marina veneta, compresi gli equipaggi. Gli scali marittimi di Venezia e Trieste diventarono, così, i porti principali della marina militare dell’impero asburgico.

    I marinai veneti, dopo aver subìto per un decennio il dispotismo francese, non mancarono di giudicare positivamente l’annessione all’Impero austriaco. Gli austriaci, dal canto loro, seppero trattare gli equipaggi della marina veneta meglio dei francesi e, in breve, riuscirono a formare un buon numero di devoti sudditi della corona asburgica. I marinai, quasi tutti italiani, in poco tempo, passarono al servizio del governo viennese.

    Fra gli ufficiali, in quegli anni, si distinse un giovane tenente di fregata. Il suo nome era Francesco Bandiera, veneziano di nascita, padre dei due celebri fratelli Attilio ed Emilio. La sua carriera fu in rapida ascesa e ben presto raggiunse gli alti gradi della gerarchia militare. Fu insignito dall’imperatore austriaco anche del titolo di barone e più avanti raggiunse il grado di contrammiraglio, che lo portò, in seguito, al comando della flotta austriaca nel mediterraneo[4].

    Nato a Venezia il 22 Maggio 1785, Francesco Bandiera, il 9 Gennaio 1808 a Ragusa, in Croazia, sposa Anna Marsich, nata a Corfù il 26 agosto 1786 da genitori appartenenti a una nobile famiglia veneziana[5]. Donna buona e affettuosa, molto attaccata al marito ma anche molto devota alla dinastia asburgica. Dalla loro unione, il 24 maggio 1810, a Venezia, nacque Attilio e dopo nove anni, il 20 giugno 1819, Emilio: i Fratelli Bandiera.

    Nella città lagunare i due Fratelli vissero la loro prima giovinezza, ed entrambi furono avviati agli studi presso il Collegio Sant’Anna dell’Imperial Regia Marina Asburgica, dove studiarono per diventare cadetti. Avendo loro la possibilità di vivere una vita agiata, trascorsero la loro adolescenza fra i canali e le calli della loro amata città senza particolari problemi e senza impegnativi assilli politici o fremiti patriottici.

    Attilio, il primo dei due fratelli, si preparava ad affrontare la vita militare con la dedizione tipica di un giovane di buona famiglia. In quei primi anni nessuna idea politica gli balenava nella mente. Nel 1828, all’età di diciotto anni, per la prima volta, fu imbarcato su una nave della squadra di levante, in navigazione verso Smirne e, sul finire del 1829, partecipò a una missione navale nei mari d’occidente imbarcato sulla stessa divisione comandata dal padre. Una vita affrontata con grande entusiasmo e protesa a seguire le orme paterne.

    Dalle lettere scritte alla madre durante i suoi primi viaggi, si evincono una particolare serenità interiore e una certa indifferenza per le cose della politica. La sua preoccupazione maggiore, infatti, era quella di sapere se Emilio si applicava con profitto negli studi, dimostrando così, sin da allora, una particolare premura per il Fratello minore, manifestata con affettuosa intensità durante tutta la sua breve esistenza. In una lettera alla mamma scritta a Cadice il 5 aprile1830, nella parte finale scrive:

    Spero che l’Emilio, continuerà lodevolmente i suoi studi[6].

    Il maggiore dei Bandiera, perciò, sembrava avviato alla carriera militare nella marina austriaca, senza che niente e nessuno potesse distrarlo da quell’interesse. Qualche tempo dopo, però, esattamente nel 1831, gli capitò di vivere un particolare avvenimento, che dal punto di vista della visione politica cambiò radicalmente tutta la sua esistenza.

    La Carboneria[7], in quegli anni, dalla provincia di Cosenza, dove per la prima volta in Italia pose le basi per le sue future attività cospirative, continuava a diffondersi un po’ in tutta la penisola. Le cospirazioni erano in aumento. I governanti, sospettosi, cercavano di scovare e combattere chiunque congiurasse contro i loro sistemi e, purtroppo, le notizie delle persecuzioni, che, spesso, per i carbonari, finivano in un epilogo funesto o col carcere duro, erano sempre più frequenti. Quelle notizie circolavano con insistenza anche fra i reparti della regia marina austriaca. Non mancarono, perciò, di essere ascoltate e valutate anche da Attilio, che nel 1831, raggiungeva la maggiore età. Ed è proprio nel 1831:

    Anno fatale, che doveva recare all’Italia avvenimenti importanti, e ad Attilio, con la maggiore età, una profonda e impreveduta commozione, una scossa dolorosa da cui dipese forse il suo avvenire, perché dovette rivelargli quanto incompatibile era la nascita italiana con la condizione di soldato imperiale, e apprendergli per la prima volta a pensare e giudicare con la propria coscienza, non con il criterio dei superiori[8].

    Il primo Aprile 1831, Attilio si trovò impegnato in prima persona nell’operazione d’arresto di un gruppo di patrioti italiani. Dopo il fallimento dei moti marchigiani e romagnoli, alcuni di particolare rilevanza come quello tentato da Ciro Menotti nella città di Modena, i primi giorni di febbraio 1831, un centinaio di patrioti, al seguito del generale Carlo Zucchi di Reggio Emilia, ufficiale della vecchia Repubblica Cisalpina[9], tentarono di imbarcarsi dal porto di Ancona sul brigantino Isotta, per dirigersi in Francia in cerca di salvezza. La squadra navale austriaca comandata dall’ammiraglio Francesco Bandiera, su cui era imbarcato Attilio, intercettò quell’imbarcazione e obbligò il generale Zucchi e i patrioti imbarcati a consegnarsi ai marinai austriaci. Attilio assistette alla consegna della spada, sulla cui elsa era inciso il motto: «W la Repubblica Italiana. Vivere libero o morire»[10], che il generale Zucchi dovette rimettere a suo padre in segno di resa.

    In quella circostanza, Attilio Bandiera, ebbe modo di conoscere italiani diversi da quelli fin li conosciuti; uomini dagli animi accesi dall’ideale della Patria, sprezzanti del rischio e della paura, disponibili anche al sacrificio della vita pur di vedere realizzati gli ideali di libertà e d’indipendenza. Tuttavia, l’ingrato compito di soldato austriaco lo obbligava a trattare quei patrioti come nemici, ma, in cuor suo, sapeva quale comportamento avrebbe assunto, già dall’immediato futuro.

    Quell’avvenimento, segnò l’inizio della sua trasformazione politica e i problemi dell’unita e dell’indipendenza d’Italia divennero i problemi della sua esistenza. Disciplinato e attento studente, già da qualche tempo era a conoscenza delle reali condizioni politiche in cui versava il territorio italiano diviso in otto stati. Sapeva che la grande manipolatrice della maggior parte di quei governi era l’Austria e sapeva anche che l’influenza austriaca su quei territori mirava a stroncare ogni tentativo di libertà e di unità. Quell’avvenimento, dunque, fu per lui la definitiva presa di coscienza di una situazione politica ritenuta dispotica e, perciò, insostenibile. Fu come la goccia che fece traboccare il vaso. Sentì parlare della Giovine Italia, fondata in quell’anno, da Giuseppe Mazzini a Marsiglia[11] e, anche se non direttamente coinvolto nelle attività di quell’organizzazione, fece di tutto per procurarsi gli scritti che il coordinamento pubblicava clandestinamente. Quando poi gli capitò, alcuni anni dopo, di leggere il pensiero di Mazzini, si ritrovò in quelle idee, da tempo maturate in maniera totalmente intima e autonoma.

    Nel 1831, dunque, mentre Attilio iniziava a maturare le sue esperienze politiche, Emilio, il fratello minore, aveva appena dodici anni. In quell’anno anch’egli entrò a far parte dell’Accademia di marina, dove rimase per i successivi cinque anni a seguire i corsi per cadetto.

    L’Anno successivo entrò nell’accademia militare un altro ragazzo, anch’egli di Venezia, di un anno più giovane di Emilio. Il suo nome era Domenico Moro, di buona famiglia un tempo benestante. Domenico Moro ed Emilio Bandiera erano molto amici. Negli anni che seguirono, si ritrovarono coinvolti, assieme ad Attilio, nella stessa attività di cospiratori, imbarcati sulla squadra navale austriaca del levante, con i gradi di ufficiali, al comando dell’ammiraglio Bandiera.

    Dopo il 1831, Attilio non faceva altro che pensare, sempre con crescente convinzione, di doversi liberare della divisa austriaca. Il contrasto espresso dal suo animo ribelle di patriota e dall’obbligo di assecondare le regole militari imposte dal giuramento di fedeltà all’Austria, condizionava la sua esistenza in maniera drammatica. Anche la sua vita sentimentale ne risentì.

    Nel 1837 sposò Maria Graziani[12], figlia di Leone Graziani, ufficiale della marina austriaca. Maria era una giovane donna di diciannove anni, molto bella, dolce e affettuosa. Sperava di essere una sposa felice e, nei primi anni di matrimonio, non immaginava certo quante lacrime avrebbe versato qualche anno dopo, prima per la sorte che toccò al marito, e poi, per la sua grave malattia, che nel 1840 la colpì a seguito di un aborto e che le stroncò la vita soltanto dieci mesi dopo i fatti di Cosenza, esattamente Il 24 maggio 1845, giorno in cui il suo Attilio avrebbe compiuto il trentacinquesimo anno di età.

    Anche Emilio visse a Venezia il suo grande amore. Era innamorato di Luisa Rossi, una ragazza di buona famiglia, amica di sua cognata Maria. In quella relazione, però, la madre non vedeva per il figlio la realizzazione di un matrimonio vantaggioso e fece di tutto per contrastarlo[13]. Luisa Rossi, sposò poi un giovane corcirese e con lui si trasferì sull’isola greca. La baronessa Marsich, ovviamente ignara di ciò che in seguito sarebbe successo a Emilio, forse, poi si pentì per avergli impedito di vivere quell’ardente storia d’amore.

    Attilio, dunque, nonostante avesse contratto matrimonio, fece della questione italiana la sua prima ragione di vita. Cospirare contro gli oppressori dell’Italia, divenne lo scopo principale della sua esistenza. La sua era una vera e propria vocazione, che, in quegli anni, lo portò alla continua ricerca di persone con gli stessi ideali e di altre che, ancora prima, avevano dimostrato interesse e impegno per l’unità d’Italia. Gente, per esempio, come Pietro Maroncelli: il patriota forlivese che con Silvio Pellico, finì nel carcere dello Spielberg. Per loro fortuna, però, come sappiamo, dopo dieci anni di carcere duro, furono graziati e Pietro Maroncelli, al quale fu amputata la gamba sinistra per via di un tumore al ginocchio, contratto durante la carcerazione, dopo varie peripezie, trovò asilo a New York.

    Attilio, nel 1835, durante un viaggio che lo portò in America[14], fece di tutto per incontrarlo. Avvertì in quel momento la necessità di incontrare quel vecchio patriota perché sapeva che da quell’incontro avrebbe ricevuto ulteriori nuovi stimoli per proseguire nella sua attività politica. Due generazioni di cospiratori a confronto. La personalità di Maroncelli, rappresentò per Attilio una valida figura di riferimento. Anche sotto il profilo degli affetti personali il Patriota forlivese ebbe un posto preminente nella vita del maggiore dei Bandiera. A lui Attilio si rivolse almeno in due circostanze.

    Una prima volta con una lettera scritta nell’Aprile 1836, nella quale, gli espresse particolari giudizi su suo padre. Attilio amava moltissimo il proprio genitore, sapeva, però, che le loro idee non collimavano e, nel presentarlo a Maroncelli, fiducioso della sua comprensione, lo fece come se volesse giustificarlo per il ruolo che svolgeva da militare al servizio della marina austriaca. Ecco quanto scrive in un brano di quella lettera:

    Incanutito sotto la disciplina delle armi, egli non conosce che il Giuramento dato una volta. Inoltre egli sa bene che ogni suo passo viene osservato dalla gelosa polizia politica Austriaca. Egli ama e sinceramente il suo paese e i suoi Compatrioti e li amerebbe più se fosse indipendente anziché sottoposto allo straniero, ma la sua promessa fedeltà gli sta sempre innanzi agli occhi, ed egli si appaga di rendersi utile alla sua Patria coll’adempiere a tutti i doveri propri del di lui mestiere[15].

    Attilio adorava il proprio genitore, ma, a supporto delle sue scelte politiche, preferì seguire l’esempio del patriota di Forlì. Per diversi anni i due non ebbero contatti. Poi, il 4 Aprile 1843, otto anni dopo averlo incontrato a New York, da Smirne, Attilio gli scrisse una seconda lettera, nella quale, oltre a rinnovargli la stima e l’affetto di sempre, gli confidò i suoi proponimenti futuri, descrivendogli, anche il dramma della moglie Marietta, costretta a vivere una logorante convalescenza, per via della sua difficile malattia:

    Amico, Vi ricordate voi di quell’Uffiziale della Marina Austriaca che saranno da circa 8 anni, procurossi costì l’onore della vostra personale conoscenza? Io sono quel desso, ed ora dopo tanto lungo silenzio approfitto del primo incontro che mi si desse sicuro per far seguito alla appena nata ed in forza delle avverse circostanze già estinta nostra corrispondenza inviandovi con questa mia una testimonianza della perenne continuazione di quell’affetto e di quella stima che non ho mai cessato di professarvi. […] L’Italia, come sempre, freme delle sue catene, ed allo squillar forse non lontano della tromba che invita alla sua rigenerazione, io devo e voglio accorrere tra i suoi difensori.[…]. Io pure imitai il vostro esempio e diedi la mano di sposo ad una donna che adoro come i miei genitori. Alla sorte però non piacque che questo nodo fosse felice imperocchè mia moglie in seguito ad un aborto, langue da quasi tre anni di una malattia terribile e che pur troppo temo incurabile[16].

    Per Attilio, Pietro Maroncelli fu senz’altro un valido punto di riferimento, una persona degna di particolare stima e, per la sua vocazione di cospiratore, sotto il profilo dell’impegno politico e patriottico, un esempio da imitare.

    Intanto, Emilio e Domenico Moro, appena lasciata l’accademia con i gradi di ufficiali, raggiunsero Attilio, che già da diversi anni era imbarcato sulla flotta del levante della marina imperiale austriaca: Emilio Bandiera e Domenico Moro con i gradi di alfieri di fregata e Attilio con quelli di alfiere di vascello. Durante gli anni dell’accademia ebbero il privilegio di frequentare una scuola particolarmente brillante ed ebbero l’opportunità di avere come istruttori tutti insegnanti italiani, alcuni dei quali con idee marcatamente liberali, ferventi sostenitori del concetto di unità e di Patria libera, repubblicana e indipendente. Circolavano furtivamente fra i banchi del collegio gli scritti di Pellico, Guerrazzi, Berchet e d’Azeglio[17]. Le idee di questi patrioti influenzarono non poco le scelte politiche dei due Fratelli e di Domenico Moro. Iniziarono così con grande dedizione e convinzione, in quell’ambiente, la loro azione di cospiratori.

    [1] Periodo storico che inizia dopo il congresso di Vienna (1 Novembre 1814-9 Giugno 1815) voluto dai maggiori rappresentanti europei dell’assolutismo monarchico in cui si tentò, anacronisticamente, di riproporre il vecchio sistema di governo praticato durante l’ancien regime in voga prima della Rivoluzione Francese.

    [2]Il Trattato di Campoformio, edizione veneta di Campoformido, piccolo comune alle porte di Udine, da cui il trattato prese la denominazione, fu firmato il 17 ottobre 1797 dal generale Napoleone Bonaparte e dal conte austriaco Johann Ludwig Josef von Cobenzi. Con il Trattato l’Austria riceveva Venezia e la sua laguna, la Dalmazia, le bocche di Cattaro, l’Istria e le piccole isole dell’Adriatico, in cambio del riconoscimento della neonata Repubblica Cisalpina, fondata da Napoleone Bonaparte il 29 giugno dello stesso anno.

    [3] Questo Trattato di pace, fu firmato dal Principe Giovanni I Giuseppe di Liechtenstein e dal Conte Ignatz von Gyulai per l’Austria e da Charles Maurice de Talleyrand per la Francia il 26 dicembre 1805 nell’omonima Città (oggi Bratislava).

    [4]R. Pierantoni, Storia dei Fratelli Bandiera, Editrice L.F. Cogliati, Milano, 1909, p. 10.

    [5] Ibidem, p. 11.

    [6] Ibidem, p. 18.

    [7] Su questo argomento si veda il capitolo n. 5.

    [8]R. Pierantoni, Storia dei Fratelli Bandiera, cit., p. 16.

    [9]R. Pierantoni, Storia dei Fratelli Bandiera, cit., p. 27; Indro Montanelli, Storia d’Italia, Edizione speciale per il Corriere della Sera pubblicata su licenza di RCS Libri S.p.A., Milano, vol. 5, p. 12.

    [10] R. Pierantoni, Storia dei Fratelli Bandiera, cit., p. 31. La spada è custodita presso il museo del Risorgimento di Vicenza.

    [11]«Marsiglia era il luogo di raccolta dei fuorusciti italiani che vi conducevano quasi tutti una vita grama. […] L’organizzazione mazziniana, più che una setta, sarebbe stata un vero e proprio partito, anche se clandestino, senza l’oscura simbologia e i complicati rituali carbonari. Si sarebbe chiamata Giovine Italia e lo sarebbe stata anche di fatto, perché, salvo casi eccezionali, era preclusa a chi avesse superato i quarant’anni di età […] Al momento dell’affiliazione, ogni adepto, doveva assumere un nome di battaglia e pronunciare questo giuramento: «Io cittadino italiano, davanti a Dio, padre della Libertà; davanti agli uomini nati a gioirne; davanti a me e alla mia coscienza, specchio delle leggi della natura; pei diritti individuali e sociali che costituiscono l’uomo; per l’amore che mi lega alla mia patria infelice; pei secoli di servaggio che la contristano; pei tormenti sofferti dai miei fratelli italiani; per le lacrime sparse dalle madri sui figli spenti o prigioni; pel fremito dell’anima mia in vedermi solo, inerte e impotente all’azione; pel sangue dei martiri della patria; per la memoria dei padri; per le catene che mi circondano; giuro di consacrarmi tutto e sempre con tutte le mie potenze morali e fisiche alla Patria ed alla sua rigenerazione; di consacrare il pensiero, la parola, l’azione a conquistare indipendenza, unità e libertà all’Italia; di spegnere col braccio ed infamar con la voce i tiranni e la tirannide politica, civile, morale, cittadina, straniera; di combattere in ogni modo le ineguaglianze fra gli uomini d’una stessa terra; di promuovere con ogni mezzo l’educazione degl’Italiani alla libertà e alla virtù che la rendono eterna; di cercare per ogni via che gli uomini della Giovine Italia ottengano la direzione delle cose pubbliche: di ubbidire agli ordini e alle istruzioni che mi verranno trasmessi da chi rappresenta con me l’unione dei fratelli; di non rivelare per seduzioni o tormenti l’esistenza, lo scopo della Federazione, e di distruggere, potendo, il rivelatore; così giuro, rinnegando ogni mio particolare interesse per il vantaggio della mia patria, ed invocando sulla mia testa l’ira di Dio e l’abominio degli uomini, l’infamia e la morte dello spergiuro, se io mancassi al mio giuramento». Cfr. Storia d’Italia di Indro Montanelli, Edizione speciale per il Corriere della Sera pubblicata su licenza di RCS Libri S.p.A., Milano, vol. 5, pp. 39-41.

    [12]R. Pierantoni, Storia dei Fratelli Bandiera, cit., p. 52.

    [13] Ibidem, p. 122.

    [14] Ibidem, p. 44.

    [15] Ibidem, p. 46.

    [16] Ibidem, p. 115.

    [17] Ibidem, p. 42.

    2. L’Esperia. I contatti con Giuseppe Mazzini e la fusione con la Giovine Italia

    Diversi storici ritengono in tutto i fratelli Bandiera allievi di Giuseppe Mazzini. Però, solo nel 1842 ebbero il primo vero contatto col Patriota genovese, nonostante già da due anni vivessero la condizione di cospiratori, visto che, nel 1840 fondarono una loro società segreta denominata Esperia.

    Di Attilio, si può dire che, già diverso tempo prima del 1840, com’era avvenuto con Maroncelli, frequentasse altri cospiratori e che fosse già iscritto alla Carboneria e alla Massoneria. Una copia del Catechismo Carbonico in grado d’Apprendente e un’altra del Catechismo massone, rinvenute fra le carte che la polizia borbonica gli sequestrò quando fu fatto prigioniero in Calabria, rendono attendibile questa tesi[1].

    Una testimonianza che evidenzia l’attività di cospiratori, praticata dai due Fratelli ancor prima di incontrare Mazzini, ci è fornita direttamente da Emilio in una lettera che il 17 aprile 1844 scrisse al padre da Corfù, supplicandolo, perché in quel difficile momento, (oramai i due fratelli erano disertori) potesse concedergli la benedizione paterna. In quella celebre lettera, fra le altre cose scrive:

    Crebbi e gittai lo sguardo sui suoi nemici e gli odiai perché tormentavano tanto, perché sogghignavano sulla lor vittima d’un sorriso infernale. E guardai le armi che adoperavano a piagarla e le conobbi inique e sacrileghe, e considerai diritto e dovere ritorcere le frodi e le violenze sugl’infami maestri, e, soldato austriaco per caso, cospirai, a venti anni cospirai[2].

    Ora, basta fare un po’ d’ordine cronologico. Emilio nasce nel 1819. Nella lettera indirizzata al genitore, ammette che a vent’anni già cospirava. Si arriva perciò al 1839, tre anni prima del primo contatto con Mazzini, perciò, la sua condizione di cospiratore era già chiara e attiva.

    I due Fratelli, dunque, dal 1840 erano già a capo dell’Esperia: la loro società segreta. Esiste a tal riguardo una precisa testimonianza scritta dal patriota e scrittore Carlo Alberto Radaelli, riportata sul suo libro Storia dell’Assedio di Venezia. Anch’egli ufficiale della marina austriaca, amico dei due Fratelli e di Domenico Moro, fu uno dei primi ad aderire all’Esperia. Scrive il Radaelli:

    Sul principio del 1840 Attilio Bandiera, presomi in disparte, mi disse: – Noi vogliamo fondare una società segreta allo scopo di affrancare l’Italia dal dominio straniero, e perciò contiamo su di te. – Questa inattesa proposta mi sorprese; ma tostamente ispirato dalla nobiltà e dalla grandezza del disegno accettai dividere con essi i pericoli dell’impresa[3].

    Lo scopo primario dell’Esperia era costituito dalla cospirazione in chiave antiaustriaca, al fine di ottenere, con azioni rivoluzionarie, l’unità e l’indipendenza dell’Italia.

    Lo statuto, sviluppato in dieci titoli e 338 articoli[4], trattava, sostanzialmente, tre punti rilevanti, che provo così a sintetizzare:

    1. I principi politici, trattati nel Titolo III:

    Ogni secreta associazione deve, per possedere un pegno di stabilità, fare che le sue massime chiaramente ed indelebilmente sieno impresse nell’animo de suoi seguaci affinché dessi in qualunque caso dubbioso possano averle a propria guida sicura. Mai dunque dagli Esperidi non si dimentichi che meta della loro società è di render l’Italia indipendente libera ed una. Che perché sia indipendente conviene cacciare al di là dei naturali suoi confini ogni straniero dominatore; perché sia unita (unica maniera di conservarla indipendente) da Malta alle Alpi un solo governo deve governarla; perché finalmente sia libera, quest’unico governo deve consistere, se gli eventi pienamente ai voti universali corrispondano, in una repubblica, che da un primitivo stato di ristretta federazione con prudenza e gradatamente in appresso noi ed i nostri figli per crescente carità di patria potremmo, qualora si creda utile, far passare ad un legame ancora più intimo; oppur se gli altri governi d’Europa, che ci hanno venduti e mantenuti divisi e che come timorosi di ogni moto popolare dovunque egli accade avremmo sicuramente nella lotta che stiam preparando ad incontrar per nemici, non vogliano a nessun patto per non compromettere la propria interna sicurezza permettere che l’Italia possa, come è suo desiderio ed istinto, assumere una democratica costituzione, allora per non lasciare più oltre in balia di un giuoco troppo arrischiato la gelosissima causa della libertà ed unione nazionale, studiar devesi di ottenere che le sociali libertà italiane vengano ad un sol Re affidate, il quale nella eterna città del Tevere risiedendo con limitati poteri l’intiera nazione rappresenti[5].

    Il primo elemento costituente l’Esperia, prevedeva la costituzione di una repubblica, anche se, per giungere a tale scopo, si sarebbe dovuto passare da un primitivo stato di ristretta federazione, senza disdegnare, tuttavia, la possibilità di accettare un regno, retto da un sovrano con limitati poteri, residente nella città di Roma, qualora le maggiori potenze europee, tutte monarchiche, si fossero opposte alla nascita di una repubblica. Nella sostanza, l’idea era di concretizzare l’unità nazionale, affrancata da governi stranieri, mentre, per il raggiungimento dello scopo, la forma era considerata secondaria.

    2. I principi morali, trattati nel Titolo IV. Cito testualmente alcuni brani:

    La politica ha una tale relazione colla morale che invano si tenterebbe di migliorar l’una, l’altra trascurando. La libertà non può mai regnare dove non sienvi severi costumi. Uomini indegni non saranno che cattivi cittadini. Ogni Italiano determinandosi di entrar nell’Esperia risolvasi nello stesso tempo come a cosa di prima necessità di adottare intieramente le massime che le son convenienti. Giovi

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