Biografia dell'Italia monarchica
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tioni colte quella tracciata da Saverio Omar Ciccimarra in Bi-
ografia dell’Italia monarchica. All’imprescindibile substrato
storico, con gli avvenimenti cruciali del periodo esaminato,
l’Autore scandaglia – grazie a un’ampia bibliografia – alcune
Opere rappresentative di quelle vicende offrendo al lettore
una traccia inedita e originale.
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Anteprima del libro
Biografia dell'Italia monarchica - Omar Ciccimarra Saverio
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Titolo dell’opera:
Biografia dell’Italia monarchica
© 2022 Altrimedia Edizioni
ISBN: 9788869601637
© Altrimedia Edizioni è un marchio di
Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria
Prima edizione digitale: Gennaio 2023
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Introduzione
Intervistato pochi anni prima della sua morte, Indro Montanelli, ricordando le parole di un altro giornalista e suo maestro, Ugo Ojetti, affermava che l’Italia «è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri perché senza memoria» facendo leva sul fatto che gli italiani conoscessero poco il proprio passato. La storia, disciplina spesso tanto bistrattata e ridotta a un mero affastellarsi di nomi e date da collocare lungo una immaginaria linea del tempo, rimane solitamente un lontano ricordo dei tempi della scuola: poco si sa, per esempio, della storia d’Italia prima del fatidico 1946, autentico spartiacque nella vita del nostro Stato.
In una narrazione storica magari dominata da pressapochismo o superficialità si tende a liquidare la vicenda dell’Italia monarchica all’ambiguo ruolo che Casa Savoia ha rivestito nel corso del Ventennio e in particolar modo durante quel 1943 determinante sia per le sorti del Paese che per lo sviluppo dell’intero conflitto mondiale. Dietro questo stigma si cela però una pagina di storia nazionale ben più lunga e complessa, che va ben oltre gli anni oscuri del regime mussoliniano e che ci riporta indietro nel tempo sino a risalire a quel 17 marzo 1861, data di nascita del nostro Paese, parzialmente riscoperta in occasione del 150° anniversario dell’Unità, ma ai più sconosciuta e normalmente trascurata anche in ambito istituzionale.
Non si vuol certo condurre, rimanendo in tema di date, una critica al 2 giugno o a ciò che ne scaturì dopo, ma semplicemente formulare un invito a riscoprire, leggendo queste pagine, volti e fatti di ben ottant’anni di storia nazionale. Cavour, Crispi, Giolitti, Matteotti, Dogali, Adua, Vittorio Veneto: nomi di personaggi e luoghi che forse ci dicono poco, che ritroviamo qua e là nella toponomastica delle nostre città e che ci riportano con la mente ai tanti anni trascorsi sui banchi di scuola. Rileggere la storia d’Italia nel periodo compreso tra il 1861 e il 1946 significa seguire le vicende di quello che potremmo definire come il romanzo di formazione
di un Paese che sin da subito si è ritrovato a dover affrontare sfide assai ardue e impegnative, non senza errori e cadute, nel tentativo di ritagliarsi uno spazio in un continente, quello europeo, in cui di spazio libero ce n’era già ben poco inseguendo una modernità che a molti pareva ancora un miraggio.
Lo stesso processo di unificazione non è stato facile e privo di polemiche o giudizi contrastanti: a detta di molti condotto male e in fretta, da altri ridotto a una banale opera di piemontesizzazione, per tanti altri qualcosa che risulta incompiuto tutt’oggi. Sono note le molte difficoltà, talune a prima vista ritenute insormontabili, che la piccola grande Italia, fresca di unità politica e istituzionale, si trovò ben presto a dover fronteggiare, tra gli spaventosi tassi di analfabetismo, la difficoltà nei collegamenti di alcune aree del Paese, la piaga del brigantaggio e l’arretratezza economica e non solo del Mezzogiorno che finirà col divenire tema di dibattito di primaria importanza in quella Questione meridionale ancora irrisolta dopo quasi due secoli. Occorreva, riprendendo una fortunata espressione erroneamente attribuita a Massimo d’Azeglio, fare gli Italiani
, formare un profondo orgoglio patrio e una coscienza nazionale, superare le barriere culturali, economiche e perfino linguistiche che separavano le numerose anime di una Penisola che per secoli erano state vicine e lontane al tempo stesso.
A dirla tutta, neanche l’unificazione politica era compiuta dato che all’appello mancava il Veneto, italiano dal 1866, e le altre terre irredente le quali dovranno attendere più di un cinquantennio per veder sventolare il Tricolore nelle proprie città, ma soprattutto mancava l’elemento più importante, Roma, l’unica città, a giudizio di molti e in primis dello stesso Cavour, in grado di rivestire appieno il ruolo di collante ed elemento unificatore di una nazione ancora divisa e nella quale per lungo tempo avevano prevalso (e continuavano a farlo) le memorie municipali. La presa di Roma compromise terribilmente i rapporti tra lo Stato liberale e la Chiesa: il progetto cavouriano, sintetizzato nella famosa formula «libera Chiesa in libero Stato» non risultò infatti per nulla gradito alla Santa Sede e a Pio IX che, all’indomani dei fatti di Porta Pia, preferì rinchiudersi nelle stanze vaticane, scelta fatta anche dai suoi successori: bisognerà dunque attendere parecchi decenni per vedere compiuta quella tanto sospirata riconciliazione tra le parti che, dopo diverse tappe intermedie (come il Patto Gentiloni), culminerà nella stipula dei Patti Lateranensi, voluti anche da un Mussolini ormai saldamente al potere e disposto a rinnegare i tempi passati da fervente anticlericale.
La Roma del 1870 non era però la Roma dei Cesari, vertice di un impero che all’acme della sua grandezza si espandeva dalla Spagna all’Egitto: era una città non tanto grande, impreziosita dalle solenni e decadenti vestigia della sua gloria passata e adornata da alcune delle basiliche più importanti della Cristianità, ma assai lontana dal poter competere con le grandi capitali del tempo, Londra e Parigi su tutte. Sovente agli occhi dei contemporanei Roma appariva come una città piccola, popolata da gente indolente, tappa esclusivamente per preti e pellegrini, pericoloso nido di corruzione: occorreva perciò fare di Roma una città degna di una grande nazione quale l’Italia aspirava a essere e in quest’ottica si collocò quella fase di monumentomania
, come da alcuni è stata definita, che coinvolse Roma e tante altre città italiane, con il sorgere di statue e monumenti in onore dei principali artefici dell’Unità e che proprio nella nuova capitale vedrà il suo culmine con la discussa edificazione del Vittoriano, nel chiaro obiettivo di dare inizio, dopo la Roma imperiale e quella papalina, al tempo della Roma sabauda e italiana.
Quella del secondo Ottocento è un’Italia che, sgomitando con le altre potenze, mirava a ottenere anche un posto di rilievo nel consesso europeo e in particolar modo in quella caccia al cosiddetto posto al sole
che vide partecipare, specie negli ultimi decenni del XIX secolo, le più grandi potenze del Vecchio continente in una rapida avanzata nelle lande, spesso ancora inesplorate, della terra d’Africa: anche l’Italia ebbe un suo ruolo nel processo di espansione coloniale che si focalizzò, come è noto, sia sulla mitica quarta sponda
(sulla quale si approderà però solo nel 1911) sia sull’area del Corno d’Africa. L’avventura coloniale italiana, che si svilupperà in una lunga stagione che va dagli anni della Sinistra storica di Depretis e Crispi sino alle discusse guerre di matrice fascista, entusiasmò gli animi più disparati e politicamente distanti e persino un anziano Mazzini che già nel 1871 invitava a guardare alle terre nordafricane, là dove «sventolò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterraneo si chiamò Mare nostro».
Si arriva così al Novecento che si aprì, sull’onda del movimento futurista che esalta il progresso, i rumori, la velocità, con una guerra che si rivelò da un lato nuova
e tecnologica, dall’altro incredibilmente vecchia
e dura, logorante, al gelo e nel fango delle trincee, terminata, riprendendo i versi della Canzone del Piave, solo quando «indietreggiò il nemico fino a Trieste, fino a Trento, e la Vittoria sciolse le ali al vento».
L’ebbrezza della vittoria, non priva di strascichi polemici di cui si fece sonoro interprete D’Annunzio, durò però poco: un’Italia stanca, attraversata da profonde divisioni sociali e da una dura crisi economica, governata da una classe politica vecchia, distante e incapace di garantire stabilità fu il terreno fertile per la nascita e lo sviluppo del movimento fascista che, nel giro di soli tre anni, riuscì ad arrivare, con un vero e proprio atto di forza, al governo del Paese.
Il 28 ottobre 1922 segna di fatto un punto di svolta nella storia d’Italia, l’apertura di una pagina cupa e dolorosa in cui la progressiva limitazione di diritti e libertà e l’affermarsi di atti e pratiche dal carattere autoritario permetteranno purtroppo all’Italia di conoscere anche la triste esperienza della dittatura: il voler fare dell’Italia una grande potenza, il sogno lungamente rincorso dell’Impero e il mirare a una rigenerazione spirituale e antropologica dell’italiano tendendo, come sottolineava Renzo De Felice nella sua discussa Intervista sul fascismo, «alla mobilitazione, non alla demobilitazione delle masse, e alla creazione di un nuovo tipo di uomo», si risolverà, come tutti sappiamo, in una guerra sciagurata e devastante, frutto di una scellerata alleanza con la Germania nazista che condurrà anche alla ratifica delle leggi razziali del ’38, senza dubbio l’atto più infamante della nostra storia.
Tutto ciò portò sia alla fine del regime fascista, in quel convulso 25 luglio 1943, sia, a guerra finita, alla conclusione della parabola della monarchia sabauda, sconfessata, nonostante maldestri tentativi di salvare il salvabile, dal referendum del ’46, anch’esso non privo di polemiche e rumores di tacitiana memoria e che mostrò ancora una volta un’Italia spaccata in due.
Si apriva così la lunga pagina della Repubblica, «in un