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La costruzione di un’identità collettiva. Storia del giornalismo in lingua italiana in Brasile
La costruzione di un’identità collettiva. Storia del giornalismo in lingua italiana in Brasile
La costruzione di un’identità collettiva. Storia del giornalismo in lingua italiana in Brasile
E-book345 pagine6 ore

La costruzione di un’identità collettiva. Storia del giornalismo in lingua italiana in Brasile

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Lo spoglio sistematico delle testate italiane ancora custodite presso biblioteche e archivi soprattutto in Brasile ha consentito di tracciare un quadro esauriente della stampa italiana oltreoceano, della quale sono stati analizzati contenuti, indirizzi, fasi, campi di specializzazione tematica e funzioni in tre grandi sottoperiodi: sino alla prima guerra mondiale, nel ventennio fascista e nel secondo dopoguerra, sottolineandone continuità e discontinuità, avendo costantemente presente il compito che giornali e riviste si attribuivano in termini di difesa e costruzione dell’italianità e di rafforzamento dell’identità collettiva. Un capitolo intero viene dedicato alla stampa operaia, molto ricca sino al 1920, che poneva anch’essa un compito di formazione più che informazione, sia pure non in chiave nazionalistica ma di classe, scontando comunque l’apparente ambiguità di rivolgersi a un pubblico formato quasi esclusivamente da italiani.
Negli anni tra le due guerre, anche i periodici subirono l’influenza del regime mussoliniano, così attento d’altronde alla stampa e agli italiani all’estero, mentre a partire dal 1946 si assistette al declino della pubblicistica etnica.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2014
ISBN9788878534452
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    Anteprima del libro

    La costruzione di un’identità collettiva. Storia del giornalismo in lingua italiana in Brasile - Angelo Trento

    APPENDICE

    CAPITOLO 1

    Dalle origini alla prima guerra mondiale

    1.1. La dimensione del fenomeno

    Pur avendo l’emigrazione italiana all’estero suscitato l’interesse degli studiosi (benché spesso, in ambito accademico, solo come gabbia specialistica), gli storici si sono quasi sempre serviti della sua stampa semplicemente come fonte piuttosto che analizzarne orientamenti, contenuti e funzioni[1]. Considerazioni, queste, che valgono anche per il Brasile dove le poche incursioni su tale terreno sono inserite marginalmente in tematiche più generali o abbordano un unico giornale o si limitano a un’elencazione incompleta delle pubblicazioni di cui si è a conoscenza. Eppure, il fenomeno si manifestò con largo anticipo, precedendo di gran lunga la nascita del primo foglio in portoghese – che vide la luce solo agli inizi del XIX secolo – grazie alla comparsa a Rio de Janeiro nel 1765, per iniziativa di due frati cappuccini (Giovan Francesco da Gubbio e Anselmo da Castelvetrano), del periodico a cadenza mensile La Croce del Sud, che ospitava al suo interno anche una piccola sezione nella lingua del paese.

    Di tale organo cattolico, di vita presumibilmente assai breve, non rimangono tracce materiali, ma la sua esistenza è testimoniata da riferimenti sparsi e diffusi, come d’altronde quella della seconda testata, che uscì, anch’essa a Rio, nel 1836 ad opera di Giovan Battista Cuneo, La Giovine Italia, altro tassello della straordinaria mobilità territoriale del giornalismo sovversivo mazziniano di cui parla Deschamps[2]. L’esilio politico garantì, peraltro, alcuni animatori alla stampa brasiliana del periodo: nel 1829 il medico Libero Badarò fondò O Observador Constitucional, il terzo giornale di São Paulo in ordine cronologico (ma il primo, che aveva visto la luce nel 1823, era ancora manoscritto[3]), e nel 1833 Luigi Rossetti diresse O Povo, organo ufficioso della rivolta secessionista del Rio Grande do Sul. In entrambe le circostanze ci troviamo di fronte a un’anomalia, poiché se è vero che anche altrove, difendendo gli stessi ideali per i quali avevano combattuto in Italia, gli esuli non si estraniavano mai dalla lotta politica dei paesi di ricezione, normalmente i loro periodici si occupavano solo delle vicende della madrepatria.

    Di stampa dell’emigrazione si può, però, parlare solo nel 1854 con l’uscita nella capitale brasiliana de L’Iride Italiana, settimanale che aveva carattere prevalentemente letterario e si poneva l’obiettivo, attraverso la pubblicazione di poesie e racconti, di migliorare l’istruzione della gioventù [e] propagare una lingua che tanto giova a dilettare lo spirito nelle sue armonie[4]. Nel 1860, quattro anni dopo la cessazione di questa scommessa culturale, fece la sua comparsa Il Monitore Italiano e a partire dal 1870 si assistette a una moltiplicazione di testate, soprattutto a Rio de Janeiro, nel Rio Grande do Sul e, in misura veramente massiccia, a São Paulo, stato accolse oltre il 70% dell’emigrazione peninsulare sin dalla metà degli anni ’80 del XIX secolo. Anche se la decisione di affrontare la prova del pubblico veniva giustificata dal desiderio di fare concorrenza ai fogli in inglese, francese e tedesco presenti[5], è ovvio che il motivo determinante era rappresentato proprio dalla dimensione quantitativa dell’esodo (quasi un milione e mezzo di persone sino agli anni ’70 del XX secolo), decisamente di massa tra il 1875 e gli inizi del Novecento, ma ancora assai significativo sino al 1929.

    Il continuo flusso di arrivi e la crescita naturale di un’emigrazione a fortissima composizione familiare – per via delle caratteristiche richieste nello sbocco lavorativo di gran lunga più importante durante i primi decenni, vale a dire le fazendas di caffè, e in subordine i nuclei di colonizzazione agricola specie nelle regioni meridionali[6] – fecero progressivamente aumentare il numero di connazionali residenti, che toccarono un massimo di 600.000 persone all’inizio del XX secolo, dimensione mantenutasi stabile sino al 1920, anche se fonti diplomatiche e giornalistiche peninsulari offrivano cifre ben più elevate, ma senza fondamento. Quale che fosse la vera consistenza della collettività. essa cominciò presto a giustificare la comparsa in molti periodici brasiliani, soprattutto di São Paulo, di servizi dall’Italia in italiano, affinché venissero capiti dall’elemento straniero e a volte persino di rubriche in cui compariva una curiosa koinée di vocaboli e espressioni delle due lingue[7], mentre ancora più frequente era la prassi di ospitare sezioni nel nostro idioma[8], o, nella pubblicistica di classe, di annunciare in italiano riunioni di circoli o leghe.

    Numerosi furono poi i redattori, direttori e fondatori di fogli brasiliani nati nella penisola. Persino una delle prime testate in inglese che circolarono a Rio de Janeiro – The American Mail – vide la luce nel 1872 per iniziativa di Carlo Francesco Vivaldi, un ex sacerdote che, naturalizzatosi statunitense, divenne console a Santos nel 1861[9]. I nostri connazionali risultarono per molto tempo prevalenti in alcuni campi, specie nella stampa umoristica, dove emerse la figura di Angelo Agostini, padre della caricatura in Brasile (settore a lungo appannaggio degli stranieri) e creatore di tante riviste in portoghese. Altra figura di spicco fu Lemmo Lemmi, in arte Voltolino, nato a São Paulo negli anni ’80 del XIX secolo ma inviato dodicenne a studiare in Toscana, che disegnò per diverse testate italiane e brasiliane[10].

    Il dato più sensazionale rimane comunque la proliferazione di giornali nella nostra lingua. E se è vero, come già Fumagalli evidenziava, che il fenomeno doveva necessariamente essere più consistente nelle Americhe che in Europa, dove chi era interessato a una stampa nel proprio idioma poteva accedere, sia pure con ritardo, a quella proveniente dalla madrepatria[11], il Brasile fu, nel continente americano, il paese che vide nascere il maggior numero di testate dopo gli Stati Uniti. Giungere a una stima esatta del numero dei fogli comparsi sino agli anni ’60 del XX secolo rappresenta un compito arduo giacché la loro conservazione è stata decisamente trascurata. Se ormai si è giunti a localizzare materialmente quanto è rimasto di tale produzione, la consultazione non esaurisce la ricerca, poiché non solo esistono pochissime collezioni complete o comunque sufficientemente corpose, ma di un certo numero di pubblicazioni non c’è più traccia in nessuna emeroteca o archivio. Per ottenere dati quantitativi attendibili bisogna quindi sfogliare gli esemplari sopravvissuti e cercare lì notizie di periodici di cui non si hanno materialmente riscontri. È ovvio però che si tratta di indicazioni incomplete sia perché mancano quelle che potevano essere presenti nei tanti fogli perduti (e nei numeri irreperibili delle stesse testate supersiti) sia perché chi compilava le rubriche in cui si trovano le notizie riguardanti l’uscita di altri giornali a volte ometteva di riportarle, magari per rivalità personali.

    Ad ogni modo, ricorrendo a questo sistema sono stato in grado di compilare una lista di oltre 800 titoli (che riporto in appendice), di cui 389 consultati in almeno un esemplare, ma l’elenco non è certamente definitivo (pur risultando di gran lunga il più nutrito di quelli stilati sinora) e forse non si avvicina neppure a esserlo. L’età d’oro fu rappresentata dal ventennio 1900-1919, che vide comparire il 51% delle pubblicazioni, seguito dal 1880-1899 con il 25% e poi dal 1920-1939 con il 18%[12]. Sette periodici su dieci nacquero nello stato di São Paulo (quasi sei su dieci nella sua capitale, dove, nel 1907, circolavano ben 5 quotidiani), mentre la città di Rio de Janeiro – che pure non fu una delle mete privilegiate – figura al secondo posto con quasi 100 titoli e il Rio Grande do Sul al terzo con circa 70. Sino alla prima guerra mondiale, i giornali uscivano inizialmente a 4 pagine – salvo il caso di settimanali, quindicinali e mensili – che però aumentarono con il passare degli anni. A dimostrazione della volontà di inserimento (e come ovunque nei paesi di emigrazione), in molte pubblicazioni veniva utilizzato anche l’idioma del posto, per brevi trafiletti, una o più sezioni o addirittura metà delle pagine. In effetti, i fogli bilingui non rappresentarono una rarità: il primo fu proprio L’Iride Italiana del 1854 che proponeva traduzioni con testo a fronte di notizie, poesie e novelle. Singolare appariva l’esperimento di un quindicinale di Rio de Janeiro – Roma – che nel 1888 utilizzava l’italiano per le notizie riguardanti il Brasile e il portoghese per quelle riguardanti l’Italia. Alcuni fogli uscirono in più di due idiomi (il terzo poteva essere il francese, come nel caso de Il Cosmopolita di Rio) o fecero ricorso anche al dialetto. L’esempio più significativo in tal senso fu Staffetta Riograndense, dove a metà degli anni ’20 il frate Achille Bernardi pubblicò in veneto, a puntate, il suo famoso Vita e storia di Nanetto Pipetta.

    L’utilizzazione del veneto risultava più diffusa nella stampa delle aree di colonizzazione agricola del Brasile meridionale, dove tale provenienza regionale era massicciamente prevalente, ma non mancava di essere presente anche in periodici di altre località come il Bollettino di S. Antonio di Ribeirão Preto, nello stato di São Paulo. Va comunque rilevato che il ricorso a questo specifico dialetto si associava spesso a testate di orientamento cattolico et pour cause. Un’ultima esperienza da segnalare, questa volta curiosa, riguarda il Diario do Abaix’o Piques, settimanale umoristico del 1933 redatto da Juó Bananére, pseudonimo di Alexandre Machado Ribeiro Marcondes, in quella koineé italo-paulistana caricaturale che già gli era valsa il successo di alcuni libri. La testata in questione si presentava come Diario semanale di grande importanza. Proprietà di una sucietà cumpretamente disconhecida.

    Benché tra molte difficoltà, come dimostrava l’alto tasso di mortalità, il nostro giornalismo in Brasile finì per vantare alcune eccezioni di peso per quanto riguarda sia la diffusione sia la vita media, anche in campo operaio: il settimanale anarchico La Battaglia, che uscì per quasi dieci anni (1904-1913), non scese mai al di sotto delle 3.000 copie e raggiunse per qualche tempo le 5.000, un’ottima performance per il Brasile dell’epoca; la prima testata socialista – Il Messaggero – riuscì a superare le 4.000, ma fu l’Avanti! a primeggiare tra i fogli che sostenevano la lotta di classe. La sua lunga storia e il tetto di 8.000 copie raggiunto nel 1914-15 erano indubbiamente segno di notevole capacità editoriale, ma anche dell’esistenza di una rete organizzativa[13] di circoli socialisti italiani all’interno dello stato di São Paulo. Nell’area proletaria poteva comunque capitare che numeri unici promossi da tutte le correnti ideologiche raggiungessero tirature maggiori – come fu il caso di Pro Vittime Politiche d’Italia edito in 10.000 copie per protestare contro gli eccidi della Settimana Rossa in patria – ma si trattava di casi eccezionali.

    In termini di longevità, il panorama era più favorevole a qualche foglio borghese: La Tribuna Italiana e Il Piccolo di São Paulo, Il Bersagliere e La Voce d’Italia (già La Voce del Popolo) a Rio de Janeiro (quest’ultimo durò oltre 40 anni), Stella d’Italia e Staffetta Riograndense (già Il Colono Italiano che, a sua volta, aveva sostituito La Libertà, 1909-1941) nel Rio Grande do Sul. Durature furono anche alcune testate umoristiche, in particolare Il Pasquino Coloniale (32 anni e un massimo di oltre 30.000 copie), e anche culturali (L’Idea). L’organo più rappresentativo fu comunque il Fanfulla che, aperti i battenti a São Paulo nel 1893, li chiuse nel 1965, sia pure con un’interruzione tra il 1942 e il 1947, durando così più a lungo dell’altro grande giornale nella nostra lingua in America latina, La Patria degli Italiani di Buenos Aires. E, benché non abbia mai raggiunto la tiratura di quest’ultima, tra l’inizio del XX secolo e la fine degli anni ’30 rappresentò il secondo quotidiano, in qualsiasi idioma, di São Paulo, passando dalle 15.000 copie del 1910 alle 40.000 del 1934, parecchie delle quali lette anche da brasiliani. Importante nella diffusione di queste pubblicazioni (e forse anche nella loro durata) era la circolazione sul territorio: quanto più un periodico riusciva a penetrare nei piccoli centri dello stato in cui si stampava, tanto maggiori speranze aveva di essere preferito ai modesti fogli in italiano editi nelle cittadine dell’interno. In alcune realtà, tuttavia, l’isolamento delle vecchie zone di insediamento dei nostri connazionali favorì la perpetuazione di testate che avevano circolazione limitata all’area di pubblicazione[14].

    1.2. I percorsi in salita

    Benché la quantità di giornali appaia sorprendente, va detto che essi avevano, di norma, vita breve, travolti dalla penuria di lettori, dalle difficoltà finanziarie, dalla radicata tendenza all’improvvisazione e dalla limitata professionalità di coloro che li compilavano, i quali a volte erano semplici emigrati con qualche istruzione che esercitavano il giornalismo come strategia di sopravvivenza. E anche nel caso in cui vantassero titoli di studio superiore (che usavano per valorizzare se stessi come dimostra la prassi di far precedere il nome dalla dizione avvocato, ingegnere, professore e quant’altro), ciò rappresentava la prova che si trattava di un mestiere improvvisato e che il settore offriva magari solo un primo approdo professionale a membri della piccola o media borghesia urbana, analogamente a quanto avveniva in Argentina[15]. In questa ottica, era perfettamente ragionevole che i direttori e i proprietari (e spesso le due figure coincidevano) svolgessero anche altre attività o che addirittura la testata venisse utilizzata per offrirsi sul mercato del lavoro[16]. Non sorprende che, scorrendo le invettive reciproche, si ritrovino frequentemente accuse di essere analfabeti e spostati, che avevano trovato nella stampa il rifugio propizio e l’ultimo scampo[17], risultando inacapaci di esercitare una professione decorosa.

    A dimostrazione dell’assenza di vocazione interveniva la non episodicità con cui i pubblicisti cambiavano mestiere, dopo aver magari fondato o diretto un giornale per uscire dall’anonimato e stabilire una rete di conoscenze. E se, a volte, la successiva professione risultava declassante (Adriano Pozzi, animatore di alcune testate a São Paulo, si trovò a un certo punto costretto a riscuotere abbonamenti per un altro periodico), altre volte questa caccia all’impiego e all’affare[18] – come recitava un foglio di Urussanga – poteva dare esiti positivi. Così, Luigi Vincenzo Giovannetti, a varie riprese responsabile del più importante organo di stampa italiano in Brasile, fu per un certo tempo rappresentante in Italia dell’impresa di un connazionale – Giuseppe Martinelli – che aveva fatto fortuna nella terra del caffè. Ancora più interessante il percorso di Gaetano Segreto che cominciò la sua ascesa a Rio de Janeiro vendendo giornali (situazione generalizzata nella capitale brasiliana, dove gli italiani detennero il virtuale monopolio di questa attività sino alla seconda guerra mondiale), diventando segretario dell’Unione dei giornalai per poi passare a dirigere alcune testate, tra cui Il Bersagliere, e proseguire come impresario teatrale e proprietario di sale cinematografiche.

    Il quadro descritto rendeva non casuale il fatto che si registrasse un così elevato numero di pubblicazioni anemiche, che stentavano a decollare ed erano sempre pronte a scomparire per magari riprendere a circolare sotto altro nome (il che contribuiva a gonfiare l’elenco delle testate) o sotto quello precedente, dopo mesi di silenzio. Ancora più comune era il mancato rispetto delle cadenze di uscita (anche nel caso di fogli longevi) e una tiratura che sarebbe ottimistico definire modesta, non di rado inferiore al migliaio di copie. Assolutamente normale era poi il trovare sempre gli stessi nomi tra gli animatori di questa stampa. Numerosi furono, infatti, i giornalisti che diedero vita a più periodici, ripercorrendo spesso la strada di analoghi e ripetuti insuccessi. Su 472 direttori o proprietari che sono riuscito a rintracciare, 130 avevano legato il loro nome a più di una pubblicazione, soprattutto sino agli anni ‘20: 59 di essi a due testate, 34 a tre, 13 a quattro, 13 a cinque 5 a sei (Corrado Pucciarelli, Giuseppe Pellegrini Di Daniele, Luigi Schirone, Angelo Bandoni e Galileo Botti, questi ultimi tre di ambiente operaio), 2 a sette (Carlo Battaglia e Adolfo D’Agostino), 2 a otto (Ferruccio Rubbiani e l’anarchico Alessandro Cerchiai), uno a 9 (Natale Belli, che forse ne diresse una in più) e 2 a dieci (l’anarchico Gigi Damiani e Domenico Paulino, animatore però solo di numeri unici).

    Non era, pertanto, fuori luogo la presentazione di un foglio di Rio all’inizio degli anni ’90: Né nuovi né affatto sconosciuti nel campo giornalistico italiano del Brasile, ci ripresentiamo oggi alla Colonia, al pubblico, coll’ITALIA – giornale nuovo e giornalista vecchio[19]. La riproposizione degli stessi nominativi andava associata anche a una prassi di circolazione sul territorio, dal momento che la precarietà professionale spingeva tante figure minori a peregrinare da una città all’altra, o da un paese all’altro, non diversamente dai normali emigrati[20]. Esempi calzanti di questo giornalismo errante furono, in Brasile, oltre ad alcuni anarchici e socialisti, Mario Cattaruzza e Giuseppe Gaja, entrambi operanti in più di una nazione latinoamericana. Dal momento che per molti si trattava di ricavare da queste pubblicazioni i mezzi di sussistenza, risultava comprensibile che essi cercassero di tenerle in vita in tutti i modi, anche variando le cadenze di uscita[21] o tentando il salto nel buio della trasformazione di settimanali o bisettimanali in quotidiani, salvo riprendere poco tempo dopo la vecchia scansione o scomparire definitivamente. Le cause di queste vicissitudini andavano cercate, oltre che nell’impreparazione professionale, nelle scarse entrate che poteva garantire un pubblico etnico privo di tempo libero da dedicare alla lettura, spesso isolato se non addirittura segregato nel mondo impenetrabile delle fazendas, ma soprattutto in gran parte analfabeta o comunque meno alfabetizzato che in Argentina, ad esempio. Questa scarsa preparazione dei lettori spingeva, per contro, a confezionare prodotti modesti, alla portata di tutti, cioè, anche da [sic] chi sa solamente distinguere il nero su bianco[22], come recitava una testata di Minas Gerais, alimentando l’ignoranza dei suoi lettori.

    La penuria di fondi giustificava il fatto che i giornali fossero frequentemente compilati da un’unica persona (la quale, come in altre mete di emigrazione, svolgeva tutte le mansioni da quella del cronista a quella dello stampatore[23]), impedendo che diventassero veri organi di informazione. La formula che compariva su alcune testate – redattori diversi – camuffava la totale assenza degli stessi e, conseguentemente, qualsiasi impedimento – salute, problemi di varia natura, comprese disavventure giudiziarie[24] – provocava interruzioni o sospensioni nelle uscite, di cui davano notizia i fogli concorrenti a volte con sadico compiacimento. Questa situazione giustificava l’amaro commento di uno degli esponenti della categoria, il quale così lamentava la condizione propria e dei colleghi: Chi non è passato per la trafila dei dolori morali che affliggono i pubblicisti italiani, e specialmente in queste terre, non immagina di quali e quanti sacrifici sia coperto il loro cammino[25]. Con il tempo, cominciò a diffondersi la prassi di una redazione, anche minima, che affiancasse il direttore, ma persino un quotidiano importante come il Fanfulla dopo dieci anni dalla sua fondazione ne contava una di soli quattro elementi.

    L’operazione più urgente era evidentemente quella di garantirsi entrate fisse affidabili, che dovevano essere assicurate in primo luogo dagli abbonamenti. Così, già L’Iride Italiana nel 1854 avvertiva in prima pagina di aver inviato il giornale a una serie di indirizzi e che chi avesse trattenuto i primi tre numeri sarebbe stato considerato automaticamente abbonato. Tante altre testate fecero in seguito ricorso allo stesso stratagemma, anche se i numeri da rispedire al mittente potevano aumentare sino a cinque o ridursi a uno. Questa manovra, tuttavia, non garantiva che quanti accettavano l’impegno lo onorassero e la scomparsa de Il Cosmopolita nel 1885 era, infatti, attribuita al loro prolungato e incomprensibile silenzio[26]. A poco servivano le minacce di riportare in prima pagina l’identità dei cattivi pagatori o di passare gli stessi al setaccio delle maldicenze come prometteva La Frusta di Rio de Janeiro nel 1890, giacché neanche la ripetuta denuncia nominativa degli sfruttatori del giornalismo italiano secondo la definizione del Fanfulla riusciva ad avere ragione della morosità diffusa. Per invogliare i lettori, alcuni fogli ricorrevano ad abbonamenti cumulativi con periodici editi in Brasile o in Italia, specie La Domenica del Corriere, ma più spesso offrivano doni, dai più poveri (un libro, bottiglie di vermut, ecc.) ai più allettanti, ma in tal caso ad estrazione: un pianoforte, un calesse completo di finimenti e cavallo, 50 biglietti di andata e ritorno per l’Italia in seconda classe e 10 in prima (Fanfulla, 1905 e 1906), un villino (Fanfulla, 1905 e Il Piccolo, 1928). Altre pubblicazioni invece emettevano azioni da acquistare individualmente o in gruppo, per assicurarsi durata e indipendenza (L’Eco del Popolo, 1905, Il Meridionale, 1908) o si affidavano alla generosità di professionisti, commercianti e industriali immigrati (Roma di Belo Horizonte, 1910).

    Se le vendite consentivano la sopravvivenza solo in un numero limitato di casi, l’eccezionale quantità di testate doveva essere sostenuta da altre fonti di entrata, la principale delle quali era rappresentata dalle inserzioni pubblicitarie, il più delle volte di connazionali, che occupavano da un quarto a metà delle pagine e, in certi fogli, anche di più. Quasi totalmente assente negli anni ’50 e ’60 dell’Ottocento, la pubblicità diventò invadente e continua nei decenni successivi, venendo a mancare soltanto nei periodici anarchici e parzialmente in quelli cattolici, che spesso potevano fruire di altri finanziamenti. Per il resto dei giornali, le inserzioni apparivano elemento fondamentale, ma se è vero che il miraggio degli avvisi economici giustificava la moltiplicazione delle testate in lingua italiana, proprio tale proliferazione faceva sì che la pubblicità si disperdesse in mille rivoli e finisse per garantire scarse entrate a ciascuna di esse. Indipendentemente dal suo ammontare, il cespite in questione impediva libertà di espressione e di critica nei confronti di coloro che pagavano gli annunci, i quali erano spesso gli antagonisti di classe della grande maggioranza degli immigrati e di una quota dei lettori di questi fogli.

    Il tipo di inserzioni che comparivano era indicativo della circolazione del singolo organo di stampa e del pubblico cui si rivolgeva. I periodici a scarsa tiratura (e con tariffe presumibilmente meno elevate) reclamizzavano di prevalenza articoli a buon mercato e categorie professionali più modeste: sarti, barbieri, falegnami, un certo tipo di esercizi commerciali, banchi di pegno, laboratori di generi alimentari, case di cambio, empori, orologerie, farmacie, prodotti per l’igiene, alimenti, vini e liquori importati e non, macchine da cucire, cinti erniari, sciroppi balsamici e altro ancora, comprese le immancabili compagnie di navigazione che campeggiavano anche sulle testate a maggiore diffusione. In queste ultime, dove pure gli articoli descritti non erano totalmente assenti, trovavano spazio inserzioni rivolte a un ceto sociale più agiato: ristoranti, alberghi, caffè, un altro tipo di esercizi commerciali, avvocati, medici, oreficerie, compagnie assicurative, banche, istituti di cura, teatri, automobili, terreni e ville. Come detto, la pubblicità era assente nella stampa anarchica, ma faceva capolino in quella sindacalista per articoli poveri e occupava, invece, maggiore spazio in quella socialista per generi più sofisticati (comprese le automobili), a dimostrazione di una certa circolazione anche presso il ceto medio immigrato.

    Come in Italia, non erano episodiche le pubblicità redazionali, che sotto forma di articoli esaltavano determinati prodotti, imprese e società, specie quelle di navigazione, come era lecito attendersi, a volte magnificando nella stessa pagina, due compagnie rivali[27]. Ancora più comuni risultavano le false missive di gratitudine di lettori inventati che attestavano di essere stati curati da ritrovati di questo o quel sedicente dottore. I farmaci risultavano talora polivalenti, ad esempio contro asma e emorroidi per gli uomini e contro anemia, debilitazione, mancanza di appetito, debolezza di nervi e disturbi digestivi per le donne. Frequenti per i maschi erano, in questo tipo di réclame, i prodotti che debellavano malattie vergognose come la sifilide, per il gentil sesso i rimedi rivolti ad alleviare i fastidi del mestruo e della menopausa. Né mancavano preparati a volte propagandati come toccasana per mali maschili e altre volte per mali femminili, come le portentose pillole rosate del dott. Williams. In alcuni giornali, infine, ci si poteva imbattere in promozioni personalizzate e caserecce, anche in versi, spesso zoppicanti ma talora rispettosi della metrica e della sintassi, indice anch’esso della qualità della testata[28].

    Al di là di quelle pubblicitarie, in genere insufficienti, esistevano entrate inconfessabili, alcune delle quali così polemicamente sintetizzate da un foglio operaio: "Sonvi in S. Paulo dei veri miserabili che per la quotidiana pagnotta d’una sol crosta [...] stampano, colla massima sfrontatezza possibile, elogi sviscerati al Brasile, al suo governo e alle sue leggi e portano ai sette cieli la cuccagna che vi si gode"[29]. In effetti, sin dagli anni ’70 si tracciavano profili lusinghieri del paese d’accoglienza (magari contrapponendogli una disastrosa Argentina) a volte prospettando inesistenti possibilità di guadagno per operai e agricoltori, come faceva Il Brasile di Malan in varie sue rubriche. E proprio il fondatore di questo mensile di Rio de Janeiro si proponeva come mediatore tra i parecchi nostri amici (ovviamente fazendeiros) che desideravano ricevere braccia per il caffè e buone e laboriose famiglie dell’Alta Italia (o del Trentino) che fossero interessate a redditi di 1.000-1.5000 lire nette all’anno oltre al vitto e all’alloggio, invitandole a rivolgersi a lui e a inviare contestualmente un certificato di buona condotta[30]. Forse la rivista rientrava tra i periodici in lingua italiana che Martinho Prado, grande proprietario terriero e politico paulista, ammetteva essere sovvenzionati dalle organizzazioni controllate dai latifondisti per garantire una buona immagine del Brasile e incrementare il flusso dall’Italia verso le fazendas[31]. Tra questi fogli, che falsavano le condizioni dei lavoratori italiani nelle piantagioni di caffè, decisamente drammatiche in termini di vita, lavoro e restrizione delle libertà personali anche dopo la tardiva abolizione della schiavitù nel 1888, figuravano L’Immigrante, Gli Italiani al Brasile, il cattolico L’Amico del Lavoratore (e che amico!), L’Agricoltura Paulista, Il Colono Italiano e L’Italia.

    L’Amico del Lavoratore ammetteva senza problemi che i fazendeiros lo sostenevano finanziariamente[32] e, al pari di altre testate, pur non negando che esistessero piantagioni nelle quali i coloni conducevano una vita stentata non avendo l’aria per respirare e gli occhi per piangere[33] (anche se nessuno riconosceva la segregazione e la violenza anche fisica nei loro confronti, retaggio di una mentalità schiavista dura a morire), proclamavano ai quattro venti che si trattava di casi assolutamente eccezionali. E c’era chi suggeriva ai proprietari di far scattare fotografie a gruppi familiari di dipendenti in cui risultasse un aspetto sano e felice – prova evidente del buon trattamento ricevuto – da pubblicare sul giornale, che avrebbe provveduto a far giungere in Italia un certo numero di copie per dimostrare l’appetibilità della vita in piantagione[34]. Che la diffusione della rivista in patria fosse una condizione importante per ottenere finanziamenti è dimostrato da quanto prometteva Il Colono Italiano al Brasile, assicurando che ogni abbonamento dava diritto a due copie, una delle quali sarebbe stata spedita a cura della redazione a familiari

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