“Come siamo andati in Libia”. La Guerra Italo-Turca tra politica e cronaca (1911-12)
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Anteprima del libro
“Come siamo andati in Libia”. La Guerra Italo-Turca tra politica e cronaca (1911-12) - Luca Giansanti
633/1941.
Nota introduttiva
Questo lavoro ha la semplice ambizione di offrire una sintesi delle vicende politiche e diplomatiche che hanno portato l’Italia giolittiana ad intraprendere e condurre quella che il maggiore storico italiano, Gioacchino Volpe, definì l’Impresa di Tripoli¹, assegnando ad essa una importanza decisiva nel lento farsi nazione dell’Italia liberale.
Il titolo del volume riprende quello di un’opera di Gaetano Salvemini, fervido oppositore dell’impresa libica, il quale raccolse in volume, nel 1914², una serie di scritti e lavori dai quali, nella sua intenzione, sarebbero emerse in modo nitido tutte le falsificazioni e mistificazioni della campagna interventista sia dal punto di vista politico, che economico e militare: il giudizio dello storico di Molfetta fu perentorio: Sia il quando, sia il perché, sia il come della impresa libica non si spiegano, se non tenendo presenti la incultura, la leggerezza, la facile suggestionabilità, il fatuo pappagallismo delle classi dirigenti italiane
.
Il volume, nella cronaca fattuale, tratta tuttavia solo un periodo limitato della guerra libica, quello che va, più o meno, dalla fine del settembre del 1911 (con la consegna dell’ultimatum italiano all’Impero ottomano) all’ottobre dell’anno seguente (con la consegna all’Italia della Libia a seguito del Trattato di Pace di Losanna); in tal senso il titolo scelto fa riferimento alla guerra Italo-Turca. Come ha infatti ampiamente ed acutamente argomentato Nicola Labanca, questa guerra non ebbe termine nel 1912 ma nel 1931, in piena era fascista, allorquando venne soppressa ogni forma di resistenza armata opposta alla conquista italiana: da questo punto di vista, la guerra libica
divenne guerra per la Libia
, trasformandosi altresì da impresa dell’Italia liberale in impresa anche dell’Italia fascista³.
Tengo infine a precisare che per la stesura di questo libro non sono state utilizzate fonti inedite, né esso è il frutto di scavi archivistici personali; la sintesi che qui si presenta utilizza infatti il vasto materiale che altri lavori della storiografia italiana hanno raccolto e presentato. In particolare, non posso non essere debitore del fondamentale lavoro di Francesco Malgeri del 1970⁴, che ebbe il merito di aprire in modo quasi pionieristico una stagione di studi su un tema trascurato se non dimenticato dalla storiografia italiana del secondo dopoguerra.
In considerazione della impostazione scelta e della natura stessa del presente volume, è stato evitato di appesantire questo testo con un apparato di note, limitandomi a presentare la bibliografia essenziale consultata ed utilizzata.
Il presente lavoro è dedicato a quanti hanno combattuto per la Pace, sempre.
I. Dopo Adua. Il laboratorio imperialista italiano
1. Politica e diplomazia
L’atteggiamento mostrato dalla classe dirigente italiana nei confronti del colonialismo si manifestò sin dagli anni immediatamente successivi al compimento dell’unità nazionale, col perdurare di quello che la storiografia ha definito spirito del 1848
.
Il ricordo ancora non sopito della secolare dominazione straniera si era andato col tempo trasformando in una sempre più decisa avversione contro l’eventualità di un’occupazione militare di altri territori.
Era questo lo spirito che animava, ad esempio, la cosiddetta politica delle mani nette
perseguita da Benedetto Cairoli (Presidente del Consiglio dal 1879 al 1881 ed eminente rappresentante della Destra storica), la medesima che gli valse l’accusa di essersi mostrato troppo accondiscendente e rinunciatario in occasione della conquista francese della Tunisia.
Trattavasi, tuttavia, di un punto di vista condiviso anche dall’estrema sinistra di Andrea Costa, il cui pensiero in proposito fu efficacemente esemplificato dalla celebre frase Né un uomo, né un soldo per le avventure d’Africa
.
Alle voci dei politici fecero da contrappunto anche quelle ben più persuasive degli organi di stampa, sia a livello nazionale che locale, a cominciare da fogli come Il Fischietto
, Il Secolo
di Milano e Il Popolo
di Genova che, sulla scia della sconfitta di Dogali, contribuirono a incoraggiare la profonda ostilità dell’opinione pubblica verso possibili imprese coloniali. Altri giornali, di limitata tiratura e breve esistenza, diedero modo alla Sinistra di rilanciare i propri attacchi. Fra questi, la Via d’Africa
uscita nel 1891 a cura dell’Unione Democratica.
Vanno altresì ricordati quotidiani di ben più alto spessore: la Critica Sociale
e la Lotta di classe
, per citarne due, protagonisti dal 1895 al 1896 di una serrata campagna contro la guerra d’Africa nonché formidabili casse di risonanza dell’avanzata politica del Partito Socialista.
Sul fronte opposto, quello della stampa di Destra, Stefano Jacini aveva osteggiato con asprezza la fretta di esser grandi
che aveva condannato l’Italia a sostenere prove che non era materialmente in grado di affrontare, nonostante la nostra stessa posizione nel Mediterraneo avrebbe dovuto suggerire una cauta ricerca di equilibrio anziché l’inseguimento di avventure suscettibili di fallimento.
Tra i primi a tacciare Crispi di megalomania, Jacini (insieme ad altri membri del suo schieramento politico) aveva dato vita ad un vasto bacino di opposizione che spaziava dagli industriali conservatori del nord ai loro operai socialisti, categorie entrambe d’accordo nell’affermare che il denaro dissennatamente dilapidato in Eritrea avrebbe potuto trovare migliore impiego nell’incremento della produzione e nell’aumento dei salari.
Terreno, questo, sul quale il capitalismo di destra non tardò a trovare un ideale punto d’unione con i cattolici i quali, pur con interventi meno incisivi rispetto a quelli dei socialisti, non esitarono a bollare le azioni compiute in Africa dall’esercito italiano come dimostrazioni di politica irresponsabile
, guerra insensata
, impresa mal preparata
, termini ricorrenti in numerosi articoli apparsi su Civiltà Cattolica
.
Tra i repubblicani, Napoleone Colajanni (autore, tra l’altro, di Politica coloniale
apparso nel 1891) si riagganciò alle proteste socialiste evidenziando con lucidità i motivi che rendevano condannabile senza appello il nostro intervento su suolo africano.
Si trattava, dunque, di un’opposizione ragionata, che traeva spunto da argomentazione solide ed inoppugnabili, non limitata ad ambiti e consorterie ristretti ma ampiamente condivisa da quanti erano consapevoli delle insite debolezze che impedivano al Paese di affrontare le molte sfide della età degli imperi
.
Opposizione che, tuttavia, nulla aveva potuto contro la direzione impressa alla politica estera da Francesco Crispi negli anni in cui fu capo del Governo (1887-1891 e 1893-1896).
La volontà di porre l’Italia alla pari con gli altri grandi protagonisti della storia europea (in primis la Gran Bretagna e poi Francia e Germania) nella corsa alla conquista di propri domini coloniali si era in ogni caso venuta evidenziando sin dal 1878 sullo sfondo del Congresso di Berlino, le cui conseguenze a lungo termine gettarono le basi per quella che in seguito venne chiamata guerra di Libia
.
Dominato dall’energica personalità del cancelliere Otto von Bismarck, il Congresso vide anzitutto la Germania impegnata su un duplice fronte: da un lato, infatti, diventava sempre più urgente guadagnarsi se non il pieno appoggio, quanto meno le simpatie della Russia, presa ad estendere la propria sfera d’influenza sul Mar Nero e sui Balcani – col Mediterraneo – dall’altra.
Altrettanto indispensabile era anche la necessità di distogliere la Francia da possibili rigurgiti di revanchismo, fomentato dalla bruciante sconfitta inferta dalla Prussia nel 1870.
Partita complessa e rischiosa che Bismarck pensò di condurre a suo vantaggio presentando un’allettante esca: la Tunisia, fatta balenare davanti agli occhi tanto della Francia quanto dell’Italia come possibile obiettivo di conquista.
Scopo della proposta era anzitutto quello di tenere a bada i francesi attirando al contempo gli italiani nell’orbita politica della Germania, magari stipulando un’alleanza, che fu effettivamente conclusa il 20 maggio del 1882 con l’ulteriore inclusione dell’Austria.
L’offerta nascondeva, però, un pericolo: quello, cioè, di provocare il deflagrare di un nuovo conflitto europeo in quanto, se pure la Francia si era dichiarata indifferente alla Tunisia, essa aveva comunque tenuto a sottolineare che non ne avrebbe mai tollerato l’invasione da parte di terzi.
La questione si risolse da sola subito dopo la conclusione del Congresso grazie a un accordo stretto tra Francia e Inghilterra col quale le due nazioni si videro assegnate rispettivamente la Tunisia e l’isola di Cipro, situata a sole 220 miglia dal Canale di Suez e nodo strategico di primo piano lungo le rotte per l’India.
Si stabilì, inoltre, di assegnare all’Italia l’allora provincia ottomana di Tripolitania onde evitare possibili nostre reazioni per la perdita di Tunisi. Non se ne fece tuttavia nulla, ma fu proprio questo episodio a dare inizio alle nostre rivendicazioni sulla regione.
Il successivo coinvolgimento italiano nella guerra d’Abissinia segnò un decisivo spartiacque nella storia delle ambizioni nazionali in Africa poiché i due disastri di Amba Alagi e di Adua non furono solo la causa della caduta di Crispi ma produssero altresì l’effetto di coalizzare tutte le forze politiche contro altre imprese di analoga natura.
La fine del governo crispino fu infatti preceduta da accesi interventi con il quali diversi membri del Parlamento condannarono i frutti della campagna militare definendola, nelle parole del deputato Imbriani, una spedizione fatta per distogliere gli italiani dalle preoccupazioni interne, contraria allo Statuto, iniqua e immorale
; Felice Cavallotti rincarò la dose parlando di sogni di un’ambizione malata
mentre Di Rudinì, capo della Destra, si diceva contrario alla prosecuzione della spedizione per porre fine alla quale venne presentata, nel maggio 1897, un’apposita petizione.
L’appello fu ripetuto anche da Achille Bizzoni nelle pagine del Secolo
e dall’Opinione
, concorde nel ritenere sarebbe stato sufficiente tenere la sola Massaua abbandonando tutto il resto.
In breve, il governo fu costretto a cedere, dando il via al ripiegamento con un drastico taglio alle spese militari per il biennio 1898-99, ridotte di 7.600.000 rispetto ai 17 milioni iniziali.
Fu solo il primo passo verso un radicale rivolgimento dell’indirizzo sino ad allora seguito.
Adua si era difatti trasformata nel sinonimo di una politica malaccorta, avventurosa ed eccessivamente aggressiva che doveva essere sostituita da un più attento impiego della diplomazia e dalla ricerca di una posizione equilibrata all’interno dello scacchiere europeo.
Un cambiamento di tale portata comportò dure sfide per coloro che nel successivo decennio si avvicendarono alla guida del Paese, cominciando dal marchese Antonio Starabba Di Rudinì, Neopresidente del Consiglio.
Non fidandosi del parere di chi gli assicurava un rapido e stavolta vittorioso ritorno in Etiopia, egli preferì affidarsi al consiglio di militari esperti che gli prospettarono senza mezzi termini i rischi che avrebbe comportato l’allestimento di un nuovo corpo di spedizione, composto di almeno 150.000 effettivi per una spesa di un miliardo e mezzo di lire, il tutto connesso all’eventualità di sguarnire le nostre difese sia lungo il confine eritreo sia in patria, cosa poco raccomandabile specie in previsione di possibili ripercussioni internazionali.
Di Rudinì optò quindi per una energica politica di liquidazione del passato, una vera azione di raccoglimento che prevedeva in primo luogo un riavvicinamento alla Francia (pur senza porre fine alla Triplice Alleanza) nonché un’attenta tutela degli interessi e del prestigio italiani, compatibilmente con le nostre effettive possibilità.
In questa scelta Di Rudinì poté contare sul sostegno di uomini quali Giovanni Giolitti, che già in un suo intervento alla Camera nel 1897 aveva indicato quali cause della sciagurata politica estera crispina …la sproporzione tra il fine che si vuol raggiungere, ed i mezzi che si vogliono adoperare
.
E in termini non troppo dissimili si era espresso anche il deputato meridionale Giustino Fortunato quando aveva affermato che le recenti sconfitte coloniali altro non erano che il frutto di …opinioni nervose, nate da sentimento e da ignoranza, da vecchio abito di rettorica, che ci ha reso noncuranti della conoscenza precisa de’ fatti e sempre più proclivi a non proporzionare mai i fini a’ mezzi disponibili…L’Italia, ove non ripieghi amorosa e gelosa su sé stessa, è perduta.
Le nostre menti più aperte e realistiche avevano dunque ben capito che l’Italia era priva dei numeri necessari per lanciarsi in imprese simile a quelle che l’avevano messa quasi in ginocchio e che solo Stati dotati di ben altri mezzi e risorse potevano affrontare.
Inoltre, le condizioni interne del Paese non permettevano, come ampiamente spiegato da Emilio Gentile, di poter contare su …quell’unità di forze e di intenti e una solida base di forze economiche e militari che erano indispensabili per una politica imperialistica non velleitaria.
Mentre, infatti, le altre nazioni europee andavano consolidando la loro potenza e si assisteva all’ascesa di nuove forze rappresentate dagli Stati Uniti e dal Giappone, all’Italia non restava altra scelta se non quella di difendere prestigio e interessi di modesta natura portando avanti una politica quanto mai moderata.
Certamente, al pari di quanto sostiene lo storico Raffaele Ciasca, si trattò della fine ingloriosa di tante speranze, sebbene ciò non vada a demerito degli uomini che ebbero il coraggio di troncare con polemiche, tentazioni di rivalsa e irresponsabili suggerimenti il cui effetto sarebbe stato quello di aggravare la crisi già in atto e di gettare una nazione già provata in pasto a fallimenti ancor più tragici di quelli appena consumatisi.
Di fatto, da quel momento, il ricordo di Adua, al pari di quello lasciato da Custoza e Lissa, andò sempre più assumendo i connotati di un’autentica umiliazione nazionale, temperata solo dall’orgoglio che il sacrificio e l’eroismo mostrati dai nostri soldati furono capaci suscitare in un’opinione pubblica quanto mai disorientata e soprattutto in coloro i quali non avevano rinunciato a credere in una nostra affermazione fuori dei confini nazionali.
Toccò dunque ai nuovi Ministri degli Esteri, succedutisi dopo la caduta di Crispi, il compito di governare tali cambiamenti.
Significativo fu, in questa ottica, il ritorno sulla scena di Emilio Visconti Venosta, che già in passato (per la precisione dal 1869 al 1876) si era trovato a capo del Dicastero degli Esteri.
Richiamato nel 1896 dal nuovo capo del governo, marchese Di Rudinì, appariva come l’uomo più adatto a prendere in mano le redini della svolta impressa alle relazioni internazionali.
Contrario sin dall’inizio all’alleanza con la Germania – a suo dire affatto necessaria agli interessi italiani – concentrò anzitutto i suoi sforzi sul pieno ristabilimento di rapporti cordiali con la Francia.
L’atteggiamento ostile mostrato infatti da Crispi aveva prodotto in questo ambito solo danni. I primi cauti tentativi di disgelo si andarono dispiegando lungo tutto il 1896 attraverso una delicata attività diplomatica, i cui primi frutti si concretizzarono nella firma della Convenzione di Settembre, siglata anche con lo scopo di sancire gli interessi italiani in Tunisia.
Successivamente, si arrivò alla conclusione dell’annosa guerra doganale italo-tunisina e alla stipula, il 21 novembre 1898, di vantaggiosi accordi commerciali fra i due Paesi.
In un secondo momento ancora, venne avviata una serie di trattative tese a definire la questione, rimasta in sospeso, della Tripolitania e della Cirenaica. L’origine di questi colloqui sta, difatti, nella volontà di ottenere garanzie in vista di una possibile penetrazione italiana in un’area dell’Africa che, fino ad allora, era rimasta estranea a influenze straniere, secondo anche quanto stabilito dagli accordi anglo-francesi del 21 marzo 1899,