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Operazione Bifrost
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E-book569 pagine7 ore

Operazione Bifrost

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Info su questo ebook

Un misterioso manufatto viaggia nei secoli attirando le attenzioni di una nuova agenzia europea per la preservazione dei beni storici (EAI) e un gruppo neonazista (FA). Gli eventi precipitano in un susseguirsi di colpi di scena e misteriose sette la cui origine si perde nell’antichità. Un viaggio fra storia e occulto che tiene col fiato sospeso il lettore dalla prima all’ultima pagina.

LinguaItaliano
Data di uscita19 nov 2015
ISBN9788868151430
Operazione Bifrost
Autore

Giampiero Saranga

Nato nel 1973, disegnatore tecnico in una grossa azienda piacentina, scrittore per passione ha realizzato la sua prima opera per il giornale locale piacentino Libertà: Una poesia dal titolo Il Tempo.In seguito ha lavorato su quello che è il primo vero romanzo Operazione Bifrost, un testo piuttosto impegnativo a cui ha dedicato tre anni.Fra i progetti futuri: il seguito del romanzo sovra citato il cui titolo sara Kairos; la partecipazione a un concorso letterario a Piacenza per la rivalutazione di una zona del centro storico; la scrittura di racconti e dialoghi per un’app turistica del piacentino il cui tema è il viaggio nel tempo rivivendo i più salienti passaggi storici della città; la realizzazione con un valente regista di episodi di un serial piacentino storico/fantasy chiamato Fette di salame i cui episodi sono visibili su YouTube.

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    Anteprima del libro

    Operazione Bifrost - Giampiero Saranga

    Operazione Bifrost

    romanzo

    Giampiero Saranga

    Published by Meligrana Editore on smashwords

    Copyright Meligrana Editore, 2015

    Copyright Giampiero Saranga, 2015

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868151430

    Autore Tavole e Disegno Copertina:

    Francesco Buzzi

    www.francescobuzzi.blogspot.it

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

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    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Giampiero Saranga

    Copertina

    Dedica

    OPERAZIONE BIFROST

    PROLOGO

    ENEA

    LA STATUA

    IL SEGRETO

    PRIMO GIORNO

    LA SCOPERTA

    SECONDO GIORNO

    LA SCELTA

    TERZO GIORNO

    I MANUFATTI

    DIARIO

    QUARTO GIORNO

    BIFROST HA INIZIO

    QUINTO GIORNO

    COMPLICAZIONI

    SESTO GIORNO

    VENDETTA

    SETTIMO GIORNO

    NUOVE PEDINE

    OTTAVO GIORNO

    LA FUGA

    NONO GIORNO

    RAGNAROCK

    DECIMO GIORNO

    DECISIINE VITALE

    UNDICESIMO GIORNO

    L’ASSEDIO

    TREDICESIMO GIORNO

    SANO E SALVO

    QUATTORDICESIMO GIORNO

    CAVALIERI

    QUINDICESIMO GIORNO

    L’ASSALTO

    ANNO DOMINI 453

    SEDICESIMO GIORNO

    LA RESA DEI CONTI

    CONCLUSIONE

    Altri ebook di Meligrana Editore

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

    Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di acquistare la propria copia.

    Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.

    Giampiero Saranga

    Nato nel 1973, disegnatore tecnico in una grossa azienda piacentina, scrittore per passione ha realizzato la sua prima opera per il giornale locale piacentino Libertà: Una poesia dal titolo Il Tempo.

    In seguito ha lavorato su quello che è il primo vero romanzo Operazione Bifrost, un testo piuttosto impegnativo a cui ha dedicato tre anni.

    Fra i progetti futuri: il seguito del romanzo sovra citato il cui titolo sara Kairos; la partecipazione a un concorso letterario a Piacenza per la rivalutazione di una zona del centro storico; la scrittura di racconti e dialoghi per un’app turistica del piacentino il cui tema è il viaggio nel tempo rivivendo i più salienti passaggi storici della città; la realizzazione con un valente regista di episodi di un serial piacentino storico/fantasy chiamato Fette di salame i cui episodi sono visibili su YouTube.

    Contattalo:

    sarangagiampiero@gmail.com

    Seguilo su:

    http://operazionebifrost.weebly.com/news.html

    A mia moglie,

    che mi è sempre stata accanto

    e mi ha spronato a realizzare sogno nel cassetto

    e ai miei figli,

    che sono l’amore della mia vita.

    Una menzione speciale per mio padre,

    morto prematuramente all’età di sessantacinque anni,

    grande uomo e fulgido esempio nella mia vita.

    PROLOGO

    Sconvolte intanto da confuso lutto, tutte le vie risuonavano di gridi e sempre più benché del padre mio Anchise lungi la casa sorga ed appartata e ovunque intorno d’alberi protetta, si distingue il frastuono e delle spade l’orribile fragore.

    Mi sveglio e subito in cima al tetto salgo e attento ascolto qual sulle messi a volte il crepitio va delle fiamme all’infuriar del vento; o rapido furor d’alpestre fiume sconvolge campi e rigogliose messi; e l’opere dei breci e delle foreste precipitoso investe; il rombo udendo stupisce ignaro il pastorel che ascolta dall’alto ciglio di scoscesa rupe.

    Allora ben manifesto mi fu il vero e dei greci m’apparvero le insidie!

    E intorno riguardando già crollata vedo l’ampia dimora di Deifobo caduta al suolo all’infuriar del fuoco; e già il vicino ulegone brucia: ampio il mar di Sigeo di fiamme splende; ovunque sorge e si propaga intorno clamor di voci e strepito di trombe.

    Allora l’armi afferro e quale sia nell’armarmi il disegno io stesso ignoro; ma in cuore anelo di comporre schiere per la battaglia e correre con gli altri sull’alta rocca: spronano la mente ira e furore e sdegno e sol ricordo che un nobile morir la vita onora.

    ENEA

    O mille vote fortunati coloro che, lottando innanzi agli occhi dei padri loro, ebbero in sorte un giorno di morir, sotto l’alte mura d’Ilio.

    Virgilio, Eneide

    Per sette notti e sei giorni, Ilio bruciò; arse la rocca maestosa e il palazzo del re Priamo.

    Giorni terribili in cui la città oppose una coraggiosa resistenza prima di capitolare.

    I greci, dopo la loro furbesca entrata in città avevano dato sfogo ai loro istinti animaleschi, mettendo a ferro e fuoco tutte le abitazioni e saccheggiandone il contenuto e ponendo fine alla loro protratta castità con le donne troiane.

    Tutto giungeva alle orecchie e agli occhi dei guerrieri sotto assedio e fra questi, il valoroso Enea.

    Egli si sentiva lacerare dentro, come se la città avesse corpo e anima e invocasse il suo aiuto.

    Enea, infatti, neppure nel giorno della presunta vittoria sugli odiati greci aveva offuscato la mente con il vino.

    Così nel dormiveglia si era accorto del pericolo sopravvenuto e dall’alto della sua abitazione ne aveva veduto la cruda realtà.

    «Con l’inganno siete penetrati nelle nostre mura, quale viltà, certo opera d’Ulisse, l’indiscusso signore della menzogna».

    Detto ciò Il guerriero urlò preso da furore e chiamò a se i servi. «Presto a me la spada che possa macchiarla del sangue nemico».

    Poco dopo Enea raggiungeva le strade e subito si apriva un varco nella mischia; ma più l’eroe mieteva vittime più i greci rinverdivano le loro file; sembravano non cessare mai.

    Enea fu costretto ad indietreggiare, raggiungendo infine un suo fedele soldato, tale Antinone.

    Quest’ultimo sembrava attendere con ansia il suo superiore.

    «Mio signore, ho radunato degli uomini, siamo pronti a seguirti, ti prego fuggi e conducici in un luogo ove la stirpe achea non possa raggiungerci».

    L’eroe sentita la supplica non credette alle proprie orecchie: «Che discorso è mai il tuo non sono un vigliacco né tanto meno voglio che lo siano i miei uomini, preferisco combattere e morire per la patria che fuggire con la coda fra le gambe».

    Antinone scosse la testa in segno di diniego: «Enea, mi hai mal giudicato. Io voglio che tu parta, perché le nostra stirpe non cessi di esistere, perché un giorno possa compiersi la nostra vendetta; a che servirebbe il nostro sacrificio se la memoria di Ilio venisse cancellata, pensa alle beffe dei vincitori di ritorno in Grecia». Il condottiero troiano rifletté, per quanto si può riflettere sentendo pianti e lamenti, come se l’Ade si fosse riversato interamente sulla terra.

    «Hai ragione, bisogna salvare chi ancora può farlo, vai appronta le navi per la partenza, io ti raggiungerò più tardi, devo prima portare il mio aiuto a palazzo».

    Antinone non riuscì a reclamare, le altisonanti parole del guerriero furono accompagnate da un imperioso cenno della mano che non lasciava adito a recriminazioni.

    Il fedele soldato se ne andò rabbrividendo in cuor suo, ma non per le sorti di Enea, ma per l’orrenda fine che avrebbero fatto i greci lungo la sua strada!

    Infatti, il figlio d’Anchise proseguì la sua marcia inarrestabile, falciando ogni ostacolo e congiungendosi ben presto a un numero sempre maggiore di compatrioti, pronti a proteggere il loro re.

    Il palazzo di Priamo li attendeva con le sue difese approntate in tutta fretta, per arginare la carica nemica che presto si rivelò poderosa, perché guidata dal terribile figlio di Achille, ancora carico d’ira per la morte del padre.

    Dall’alto dei tetti, i troiani cominciarono un fitto lancio di pietre e armi in un gesto guidato dalla disperazione, ma a peggiorare la situazione sopravvenne l’abbattimento della porta principale.

    Come un’onda inarrestabile, uno sciame di guerrieri si spinse entro le barriere; già una montagna di cadaveri ricopriva il pavimento ma nuove forze ne scavalcavano i corpi e proseguivano l’azione.

    La lotta ormai era senza quartiere viso a viso, spalla a spalla, le lame delle spade cozzavano con suoni fragorosi, mentre nelle stanze si poteva udire la risata delle parche.

    Pezzi di corpi e il sangue ormai ovunque rappreso formavano un grottesco mosaico che faceva scivolare gli uomini, disarticolandone i movimenti.

    Enea circondato da tale putiferio si sentiva stranamente solo, svuotato dalla perdita di cari amici, che spesso lo supplicavano morenti di essere passati a fil di spada per evitare inutili sofferenze; poi d’un tratto l’eroe si ricordò del re.

    Egli abbandonò il campo e corse verso i piani alti, in direzione delle stanze reali.

    Lì, come nel resto del maestoso edificio, il passaggio del nemico era visibile, non c’era un minuto da perdere, anche perché Enea aveva uno strano presentimento per nulla rassicurante.

    L’ingresso della sala regia aumentò i sospetti; fra molteplici cadaveri vi era un elmo con alcune gocce di sangue.

    L’eroe si fermò a controllare e nel frattempo fu raggiunto da suoi fedelissimi.

    «Ti abbiamo visto correre su per le scale, è successo qualcosa di grave ad aggiungersi alle nostre sventure?».

    «Temo di sì» rispose Enea. «Questo finimento appartiene a Polite il figlio del re, temo il peggio».

    Il discorso volgeva al termine, quando una fioca voce attirò l’attenzione dell’eroe.

    Essa proveniva dall’interno della sala.

    «Enea, sei tu, ho sperato che giungessero i soccorsi e infine gli dei mi hanno ascoltato».

    «Soldato, vedo che facevi parte della guardia personale del nostro re, dimmi che cosa è accaduto, dove è Priamo?».

    Per un attimo il ferito cercò di raccogliere le forze, l’eroe troiano fu costretto ad asciugargli un rivolo di sangue che gli usciva dalla bocca.

    «Tutto è perduto, non siamo riusciti a fermare i greci, Pirro è arrivato fin qui e la sua furia devastatrice si è abbattuta senza pietà.

    Anchise è comunque ancora vivo, lo abbiamo fatto allontanare, a quest’ora avrà raggiunto il cortile interno per rifugiarsi vicino al piccolo altare».

    L’eroe non ascoltò oltre, l’idea che il figlio del Pelide fosse poco distante lo faceva rabbrividire. «Non è come suo padre che era sì una testa calda, ma sapeva anche cos’era l’onore.

    Pirro è solamente un macellaio privo di ogni scrupolo».

    Enea corse, corse a perdifiato finché non fu a destinazione; lì da uomo accorto che era, non si fece prendere dalla cieca rabbia, ma cercò riparo per osservare senza essere visto; in lui vi era la speranza che nessuno non avrebbe mai osato uccidere il proprio nemico davanti ad un luogo consacrato agli dei.

    I suoi occhi avvezzi ad ogni genere di crudeltà non furono, però pronti a ciò che videro.

    Priamo e la moglie Ecuba erano soli, impietriti nel vedere il loro figlio più piccolo entrare nel cortile sanguinante, colpito a morte dal figlio del Pelide.

    La scena che seguì fu raccapricciante, Priamo cominciò a insultare il suo nemico, seppur sentendosi in condizioni di netta inferiorità.

    Il suo sfogo sembrò solamente far divertire Pirro che non esitò a mozzargli la testa.

    Tutto ciò fece impietrire Enea che si sentiva diviso tra l’agire e il rimanere in disparte; fu l’ultima soluzione a prendere il sopravvento, lo attendevano la moglie e il padre e tutte le persone che contavano su di lui per fuggire.

    Così ci racconta la leggenda e di come Enea pose in salvo la statua della dea Atena; ma se tutto ciò in realtà fosse vero?

    LA STATUA

    Roma

    452 d.C.

    Le orde di Attila si erano accampate vicino Roma, pronte ad un cenno del loro capo per lanciarsi sulla città e distruggere il cuore del loro più acerrimo nemico.

    Il loro viaggio si era dimostrato irto di difficoltà.

    Essi erano partiti in mezzo milione, attraversando e soggiogando la Russia meridionale e il bacino del Danubio per poi compiere scorrerie in Tracia e in Grecia, terrorizzando l’impero romano d’oriente.

    Nessuno li riusciva a fermare, tanto meno i romani ormai spettro della gloria passata.

    Le conquiste avevano scaldato gli animi e fu cosa facile per Attila convincere le sue truppe ad attraversare il Reno per dirigersi nelle Gallie.

    Lì giunse però la cocente delusione, perché i Visigoti, padroni di quelle terre, si erano alleati con il generale Ezio, capo delle legioni romane.

    Per quell’anno i progetti di conquista furono accantonati, ma l’anno dopo Attila attaccò l’Italia, attraversando le Alpi Giulie riuscendo ad aggirare i suoi nemici a Ravenna.

    Tutto ciò era impresso nella memoria di Teodorico, fedele comandante del re, la cui spada lo aveva servito in mille battaglie e che ora dalla cima di una altura osservava i suoi uomini intenti a esercitarsi.

    Teodorico era un uomo che incuteva rispetto, bastava la sua sola presenza seppur ora lontana dall’accampamento per ottenere disciplina.

    Il Gigante, così veniva soprannominato per la sua altezza inusuale a quei tempi di uno e ottanta, aveva il volto pieno di cicatrici riportate negli scontri che a malapena riusciva a coprire con una folta chioma di capelli neri e una barba ispida. Il suo sguardo era vigile, attento ed era dotato di un forte istinto che lo aveva salvato in più di un’occasione; e che ora gli diceva che qualcosa non stava andando per il verso giusto.

    «Eridan, vedo che i preparativi per un imminente attacco procedono bene, ma Odoacre dov’è? L’ho mandato a cercare cibo e non è ancora tornato».

    Eridan, uomo meno corpulento del suo superiore risultava però essere un feroce guerriero e un valido aiutante .

    «Mio signore tutto procede come previsto, i soldati hanno montato le tende e si sono allenati, ho formato anche un drappello per fare la guardia durante la notte ormai prossima. Odoacre invece è partito con venti uomini, ma non è ancora tornato, mi dispiace di quest’inconveniente, appronterò una spedizione di ricerca».

    «No lascia stare, non sei responsabile di quell’inetto, partirò personalmente e quando lo avrò trovato rimpiangerà di essere nato!».

    Nel frattempo a chilometri di distanza un gruppo di Unni avanzava nelle campagne romane.

    «Odoacre, sei sicuro che nessuno ci colpevolizzerà per il nostro ritardo, sono ore che avanziamo, Teodorico sarà su tutte le furie...».

    «Basta con i piagnistei soldato, non voglio più sentire quel nome e poi devi avere più paura di me, perché se qualcuno non mi ubbidisce lo passerò a fil di spada! Voglio dimostrare ad Attila quanto valgo, tornerò con prigionieri e tesori e farò fare una pessima figura a Teodorico, quella femminuccia ha le ore contate».

    «Signore, signore» la voce giungeva da un soldato che correva trafelato di ritorno da una avanscoperta.

    «Ho una gradita sorpresa per te; stavamo cercando come hai ordinato del cibo e dell’acqua, quando ci siamo imbattuti in una casa occupata da due vecchi contadini. Non volevano consegnarci le loro derrate, poi una buona serie di bastonate li hanno convinti. Uno di loro, il marito cadendo a terra ha incominciato a delirare, parlava di un tempio, ho capito la parola, perché l’ho sentita pronunciare, mentre compievamo i nostri saccheggi, quindi ho deciso di venirlo a riferire subito».

    Odoacre comprese immediatamente l’importanza di quelle parole, era l’occasione che attendeva da tempo.

    Portami dal vecchio, voglio che ci conduca nel luogo sacro.

    Gli Unni ripresero quindi la loro marcia, lasciando solo alcuni guerrieri a coprire le spalle; ben presto il manipolo raggiunse la capanna e da lì seguendo il prigioniero, percorse una strada che si fece sempre più ripida e aspra, finché non si restrinse per effetto dei colli circostanti fino al punto che a cavallo si poteva passare solo uno per volta. In mezzo a quelle pareti di nuda roccia e muschi, l’aria era umida e fresca e la luce solare filtrava debolmente donando alle cose forme assai sinistre.

    «Stiamo per raggiungere l’inferno mio signore, sento la presenza degli spiriti, ci puniranno».

    «Zitto Iorio, la tua codardia è insopportabile, un’altra parola e ti strapperò la lingua così soffrirai di più».

    L’alterco servì per calmare gli animi ma Odoacre sapeva che la sua autorità non sarebbe durata a lungo, bisognava arrivare al tempio.

    Inoltre quelle gole potevano essere facilmente infestate da briganti, più pericolosi di qualunque spirito.

    «Siamo quasi giunti comandante, sembra che per il romano manchi poco».

    Così era, infatti la comitiva raggiunse uno spiazzo erboso estremamente piccolo che faceva da preambolo all’entrata di una grotta, lì il prigioniero si inginocchiò iniziando una serie di invocazioni.

    Odoacre non vi badò, scese prestamente da cavallo non curante nemmeno dei suoi uomini.

    «Voglio una torcia e alla svelta mi servirà per penetrare nell’apertura».

    «Ma mio signore, non è prudente lasci che l’esploriamo noi, bastano due uomini e faremo presto ne sono certo».

    «Basta!» disse Odoacre. «Mi sono stancato della vostra disubbidienza, fate ciò che vi ho chiesto ed approntate un campo per la notte, dovremo restare, le ore di luce scarseggiano».

    Il comandante unno si sentiva sempre più nervoso, il sospetto che i suoi uomini lo potessero tradire lo aveva portato a tenerli lontano dal tempio.

    Mezz’ora dopo il fuoco era pronto e con lui il momento di iniziare l’esplorazione.

    Odoacre chiamò a se Iorio, uomo petulante, ma estremamente fedele.

    «Ascoltami, ho una missione da affidarti, prendi con te un altro guerriero, raggiungete gli altri che abbiamo lasciato indietro, sorvegliali e se non mi vedi tornare entro domani, torna con loro a cercarmi».

    Iorio fu entusiasta, lo stare in quel luogo sacro non gli piaceva, l’aveva fatto capire durante il viaggio, per lui l’ordine del suo comandante era un favore concessogli, avrebbe fatto di tutto per mantenere la parola data e il suo superiore lo sapeva.

    «Certo mio signore, consideralo già fatto».

    Odoacre, attese la partenza dei cavalieri, poi più tranquillo si diresse verso la grotta.

    L’entrata era coperta di arbusti, l’unno ne dovette recidere alcuni per farsi strada e il suo lavoro portò alla luce un’ iscrizione.

    Sembrava greco, ma il guerriero barbaro non sapeva tradurne il significato e neppure i suoi uomini; poco importava, chi avesse eretto quel luogo, l’importante era ciò che conteneva; così l’unno entrò e la sua sorpresa fu grande, quando si accorse che solo pochi gradini scolpiti lo dividevano da una stanza ricavata nella roccia.

    Odoacre si aspettava di scendere nelle profondità della terra per trovare un ricco bottino ma ora dinnanzi aveva solamente quattro solide pareti che facevano da protezione ad una statua in pietra posta su un piedistallo.

    A nulla valse una ricerca approfondita, non vi erano passaggi segreti ben celati all’occhio del profanatore.

    «Maledizione! Ho disubbidito agli ordini lasciando anche i miei uomini senza custodia, per essere beffato da un vecchio contadino e il suo stramaledetto idolo».

    Odoacre continuando fra sé le sue imprecazioni, prese l’idolo e lo gettò con veemenza in terra, mandandolo in frantumi. Che stai facendo? Ti ritrovo qui a giocare, quando invece ti ho affidato un compito, lo sapevo che eri una spina nel fianco, un buono a nulla.

    La voce che tuonò fece rabbrividire il guerriero; Teodorico era davanti a lui, con la sua scorta.

    «Ah, sei tu? Dovevo immaginarlo, hai organizzato tu questa messa in scena, quanto hai dato al vecchio per convincerlo?».

    «Taci!». Rispose Teodorico che non era disposto a perdere tempo. «Non aggravare la tua situazione, fai come ti dico, esci da qua senza protestare. Il tuo comportamento sarà giudicato dai capi tribù e riceverai il castigo meritato, sempre che tu non voglia risolvere la questione ora, ma ricordati che non sono magnanimo con chi mi disubbidisce».

    Odoacre, fece calare il silenzio fra i presenti, mentre decideva il da farsi, poi con fare rassegnato si apprestò a tornare all’aperto, seguito dagli altri soldati; in lui non vi era più traccia della sua aria baldanzosa.

    Nel luogo sacro rimase solamente un Teodorico pensieroso e inquieto che cominciò a passeggiare lungamente, attendendo che i suoi nervi si scaricassero.

    Nessuno in quei momenti osava avvicinarlo, neppure il più fidato fra gli amici, ma questa volta Nicodemo, letterato e poeta al soldo d’Attila infranse la regola.

    Troppa era la curiosità per quel vecchio manufatto ora in franto; egli aveva letto senza problemi l’iscrizione sull’entrata e ne era rimasto affascinato.

    «Qui inizia la conoscenza e il sapere umano».

    «Greco, greco antico, non certo di quest’epoca, chissà chi mai ha raggiunto questi luoghi un tempo inospitali e per quale motivo; devo assolutamente scoprirlo».

    Così egli era entrato e noncurante si era lanciato in un’attenta analisi dell’idolo.

    «Questa figura di donna, deve rappresentare sicuramente Atena, lo dimostrano lo scettro e lo scudo nelle sue mani, peccato che un oggetto così prezioso sia stato rovinato; ma un momento sembra contenere qualcosa».

    In effetti, da ciò che restava del busto, appariva un lembo di carta che attirò l’attenzione del ricercatore, ma qualcuno ne fermò le intenzioni.

    «Nicodemo! Come osi disturbarmi, il mio spirito è inquieto e non amo le distrazioni!».

    Nicodemo aveva completamente scordato di essere in presenza di Teodorico, solo ora si rendeva conto del pericolo che stava correndo.

    «Mio signore, scusate la mia impudenza, ma come amante della storia, non potevo lasciarmi sfuggire il ritrovamento di qualcosa di così antico».

    Il comandante unno sembrò accettare le scuse, forse non essendo il suo interlocutore un soldato, la sua aggressività si era allentata.

    «Spero che in futuro ti sia chiaro il mio pensiero e che tu non mi contraddica. Mi hai detto che questo gingillo è antico, non sarà anche prezioso, non vorrei che la tua curiosità derivi dal ricavare un profitto, Attila ne sarebbe dispiaciuto».

    «Assolutamente no» rispose Nicodemo. «Respingo ogni accusa, ho visto più e più volte le punizioni da voi inflitte e non ci tengo ad esserne il protagonista. Vi chiedo solamente di poter analizzare la pietra per verificarne la provenienza».

    «Sta bene» rispose Teodorico. «Raccogli pure ciò che vuoi, non ho altro da dirti».

    IL SEGRETO

    Frederick Heiler arrivò a Berlino a notte inoltrata; ciò gli risparmiò di vedere la città, vanto e capitale del Terzo Reich, caduta in ginocchio, preda del nemico ormai alle porte.

    Qua e là lungo le strade, nere figure curve sotto il peso degli stenti, vagavano in cerca di cibo e riparo non curanti delle sorde e spaventose esplosioni provenienti dalla provincia.

    Ma in fondo Frederick li capiva, anche lui viveva una situazione disperata, egli aveva visto il crollo de suoi ideali, sconfitti sul campo di battaglia; gli vennero in mente le parole del Feder maresciallo Von Kluge quando Parigi cadeva preda del nemico: «Che il destino sia più forte della sua volontà e del suo genio è evidentemente scritto nei decreti della Provvidenza. Lei mio Fuhrer, ha condotto una lotta, grande e onorevole. È un riconoscimento questo che la storia non potrà negarle. Si mostri quindi a tal punto grande, ora da sapere porre fine dal momento in cui più è necessario ad una lotta senza speranze».

    «Bastardo di un codardo» sibilò a bassa voce Frederick «Un leader va seguito non solo quando ha successo ed abbandonarlo poi alla prima occasione quando fallisce. La sconfitta non deve essere assolutamente contemplata, non possiamo cedere ai bolscevichi e al resto degli occidentali».

    Questi pensieri fluivano impetuosi nell’ufficiale, mentre la macchina oltrepassava la porta di Brandeburgo dominata dalla maestosa quadriga, immettendosi così nell’Unterdenliden a poca distanza dal palazzo del Reichestag.

    Per un attimo Frederick abbandonò il suo stato pessimistico e ritornò con la mente alla prima volta in cui aveva visitato quella meravigliosa città.

    Si rivide un ragazzino in una parata militare (13 marzo 1938), lui come tanti altri, erano giunti a Berlino per la gran cerimonia in onore della vittoria sull’Austria, prima fra le conquiste dell’impero tedesco.

    Frederick ricordava il discorso fatto dal Fuhrer e la carica carismatica che teneva inchiodato e in silenzio migliaia di persone, infiammandole di orgoglio.

    Proprio quel giorno Frederick, decise che avrebbe fatto di tutto per conoscere Hitler, per potergli dimostrare quanto credeva in lui e nella Germania.

    Negli anni seguenti ci fu l’invasione della Cecoslovacchia, della Polonia, della Finlandia... e con il passare del tempo anche Frederick aumentò il suo prestigio, fino ad assumere una carica tanto elevata da renderlo quasi indipendente nelle sue decisioni; facendogli ottenere quello che voleva.

    Intanto la macchina svoltò nella Wilhelm strasse e si fermò di fronte al Neue Reichskanzlei, ovvero la nuova cancelleria, sede del governo.

    Un autista della SS aprì la portiera sul retro della vettura dell’ufficiale scese con lentezza cercando di rammentare la disposizione del palazzo; dopodiché a passo lento per via della semioscurità che regnava attorno, salì la rampa di scale, raggiungendo il picchetto di guardia.

    «Fermo nessuno può entrare, ordini del nostro Fuhrer e non farò eccezioni per nessuno».

    Frederick non si scompose; egli pensò che in un altro momento avrebbe ammirato la determinazione dell’uomo che aveva di fronte e la sua cieca obbedienza, ma ora queste doti risultavano alquanto seccanti e fastidiose.

    «Senti ragazzo non mi va di discutere, ma se non mi lasci entrare ora, sarò costretto a prenderti a calci nel sedere fino a quando non avrai imparato un po’ di rispetto».

    Klaus all’età di ventuno anni era entrato nelle SS dopo un addestramento duro e faticoso che gli aveva procurato un lavoro importante di sorvegliante alla cancelleria, nell’arco della sua esperienza militare, aveva avuto a che fare con un nugolo di ufficiali saccenti pronti a minacciarlo, ma nessuno gli aveva mai provocato timore come l’uomo che lo fronteggiava; non era tanto lo scontro fisico che preoccupava la guardia.

    Klaus era più robusto e ampio di spalle dello sconosciuto ma era il volto di quest’ultimo così fermo, privo di emozioni, di un freddo grigio, come la lama di un pugnale che lo inquietava.

    Non c’erano dubbi, quell’ufficiale ricordava più un sicario che un graduato e non avrebbe esitato a uccidere.

    Prima che succedesse l’irreparabile, accadde un fatto vera mente sorprendente, la porta della cancelleria si aprì e ne uscì Goebbels sorridente, con l’aria di chi rincontra un vecchio amico.

    «Frederick sei qui finalmente, è passato tanto tempo dal nostro ultimo incontro, ma vedo che non sei invecchiato poi tanto e che la guerra sembra averti fatto bene».

    «Forse hai ragione ma non parliamo di me, vorrei sapere per quale motivo sono stato sollevato dal mio incarico e trasportato di forza a Berlino».

    Il volto di Goebbels, prima raggiante, si oscurò e con un cenno della mano indicò al suo compagno di seguirlo all’interno.

    Più di una volta nella sua vita, Klaus si domandò quale fu la causa di tale incontro e soprattutto chi era l’uomo sconosciuto, ma così importante nel terzo Reich.

    Quando i due ufficiali, furono lontani da orecchie indiscrete, il braccio destro di Hitler riprese a parlare: «Come tu sai già la nostra situazione peggiora di giorno in giorno, per colpa di ufficiali inetti e vigliacchi, le città tedesche cadono sotto i bombardamenti alleati; è un miracolo se tu sei riuscito a passare illeso».

    «Non dovevi preoccuparti per me, il Fuhrer, mi aveva già trasferito sul suolo tedesco, avevo alcuni affari da sbrigargli». Goebbels sapeva quali potevano esseri gli affari e seppur conosceva Frederick da anni ed era a conoscenza del suo lavoro, rabbrividì all’idea di quell’uomo in azione.

    «Ora mentre i Russi avanzano ad Oriente e gli alleati ad Occidente io sono stato nominato difensore di Berlino e con Borman condivido la più alta carica del paese; ma non dureremo a lungo. Adolf lo sa ed è disperato, sembra aver perso la sua vitalità di un tempo, oggi è rimasto chiuso nel bunker a leggere i dispacci, ma ha detto che voleva assolutamente vederti».

    La nuova cancelleria, grande mausoleo, simbolo di alterigia, con i suoi cameroni dalle grosse lastre di porfido e marmo; le pesanti porte ed i suoi fatiscenti candelabri, nascondeva a 5 metri sottoterra un grande rifugio.

    L’accesso era raggiungibile per mezzo di scale che scende vano fino alla cucina dei domestici; proprio lì si apriva un lungo e stretto pianerottolo circondato da tre paratie ermetiche all’aria e all’acqua.

    La terza conduceva al vero e proprio bunker, che era diviso in due parti.

    La prima, comprendeva dodici stanze disposte lungo un corridoio centrale e utilizzate come ripostiglio e alloggio della servitù; superata quest’ultima, attraverso una stretta scala a chiocciola, si raggiungeva il secondo troncone della costruzione, il rifugio personale del Fuhrer.

    Frederick, accompagnato dal suo superiore, penetrò nel cuore di quel polmone di cemento, dopo aver superato molteplici posti di guardia.

    Si aprì davanti a loro un ennesimo corridoio che fungeva da accesso per i bagni, il telefono d’emergenza e l’impianto di riscaldamento e ventilazione udibile dal ronzio del macchinario in funzione; più Frederick si addentrava in quell’intrico sotterraneo, più gli tornava alla mente l’egizia vastità delle sale della nuova Cancelleria che dovevano ospitare il grande governo nazista, ed essere simbolo dell’onnipotente forza tedesca ed ora fungevano solo da paravento, da scudo alla piccola corte di fedeli del regime.

    Com’era potuto accadere tutto ciò, cos’era andato storto nei piani di conquista?

    C’era ancora qualcosa che poteva salvare la situazione, perché Hitler voleva vederlo?

    Erano molti gli interrogativi ancora privi di risposta.

    «Frederick, dobbiamo attendere un attimo, la sala delle conferenze non è ancora vuota, andiamo nel mio ufficio». L’ufficio di Goebbels si trovava di fronte all’alloggio privato del Fuhrer e risultava essere angusto come tutto il resto.

    I due uomini cominciarono a conversare, ricordando i vecchi tempi, in cui si erano conosciuti, ma il loro tono era distaccato, freddo, impersonale, sembrava essere passato troppo tempo dal loro ultimo incontro.

    Gli avvenimenti si erano susseguiti con un tale ritmo che avevano travolto le loro menti come un fiume in piena.

    Frederick si sentiva a disagio; non era tagliato per colloquiare con la gente, da bambino aveva vissuto nella Foresta nera in un piccolo villaggio ed il suo più grande divertimento era quello di percorrere gli stretti sentieri fra il sottobosco, per cercare un posto isolato per godersi appieno la magia del silenzio e della tranquillità.

    Fu così, che con grande gioia egli accolse l’entrata nell’ufficio di una delle guardie, recante un messaggio.

    «La riunione è finita, il Fuhrer può vederti, ma ti riceverà nelle sue stanze ove nessuno vi potrà disturbare».

    I due uomini uscirono dallo studio e Goebbels bussò delicatamente alla porta degli alloggi.

    La voce che rispose sembrava stanca e provata, mai Frederick aveva sentito Hitler cosi afflitto.

    «Benvenuti, vi stavo aspettando con ansia, ho cercato di disbrigare le mie faccende velocemente, ma arrivano dispacci in continuazione e se non me ne interesso chissà cosa combinano ancora quegli incapaci della Wermacht e delle Waffen-SS. Goebbels, ti prego, lasciaci soli per un attimo, devo parlare in privato con Frederick».

    Quando l’ufficiale se ne fu andato, il Fuhrer, prese una bottiglia di vino e, versatone un po’ in due bicchieri, ne porse uno al suo interlocutore.

    «Goebbels è un ottimo ufficiale e so che non mi deluderà mai, ma ciò che ti sto per dire non dovrà mai uscire da questa stanza».

    Seguì un attimo di silenzio che parve interminabile, poi il discorso riprese.

    «Quando iniziammo la nostra campagna di conquista, cercai di far avviare alcuni progetti segretissimi di cui solo una ristretta cerchia ne fosse a conoscenza.

    Ne completai soltanto due, il primo il più grandioso, fu la nascita di un super soldato potenziato con i migliori ritrovati tecnici e biologici; per far questo ci fu una spietata selezione per il miglior candidato ed alla fine non rimasi che tu l’unico superstite ai test.

    Un giovane, ma con una forza distruttiva inimmaginabile per un essere umano. La tua vita passata fu cancellata, per tutti fosti conosciuto come l’indemoniato! La tua prima prova sul campo avvenne in Belgio, ricordi le loro terribili postazioni? Superata la prova, tu fosti il mio strumento di morte, un agente privo di scrupoli e alle mie dirette dipendenze. Da allora non mi hai mai deluso, le tue gesta mi hanno riempito d’orgoglio come un padre per il proprio figlio».

    Frederick apprezzò le parole del suo mentore, era la prima volta che il Fuhrer si lasciava andare a sentimentalismi; ma quando vide il discorso interrompersi così bruscamente in lui prevalse la curiosità.

    «Mio comandante, mi ha parlato di due progetti, se io sono il primo qual è l’altra arma in nostro possesso? Perché di questo spero si tratti, per la salvezza del Reich».

    Hitler, che aveva volutamente inserito una pausa per aumentare la tensione, sorrise e riprese a parlare con passione.

    «Vedo che ho solleticato le tue fantasie, erroneamente tu hai pensato a un’arma ma non è una nuova scoperta scientifica, è bensì una scoperta archeologica d’inestimabile valore, qualcosa che avrebbe potuto rendermi ricco e padrone del mondo».

    Frederick vide il dittatore adagiarsi pesantemente su un sofà, come privo d’ogni energia.

    «Vedi caro amico, la chiave del mistero mi è stata rubata da Himmler e da come ho notato la mia richiesta di mandarti a perquisire i suoi effetti personali non ha avuto buon fine».

    Il soldato tacque era la prima volta che falliva una missione, ma aveva dovuto attraversare le linee nemiche per raggiungere il traditore e nella sua stanza non aveva trovato il pacchetto che gli era stato richiesto.

    «Non sentirti in colpa mio guerriero, sei l’unico uomo che non mi abbia mai deluso; hai rischiato la vita arrivando nel cuore delle forze alleate, ma dimmi almeno, il traditore è morto come ti avevo chiesto?».

    «Certamente mio Fuhrer, l’ho torturato a lungo per carpire il nascondiglio dell’oggetto ma visto che recalcitrava l’ho avvelenato guardandolo morire agonizzante».

    «Bene» rispose Hitler «almeno sono stato vendicato, mi piacerebbe tanto conoscere i dettagli, ma mi rimane poco tempo Frederick.

    Ho deciso di ammazzarmi, non sopporterei di terminare la mia vita vedendo i bolscevichi entrare nella nostra capitale, ma ti prego ora ti darò un fascicolo, porta a compimento il progetto (Bifrost)».

    PRIMO GIORNO

    LA SCOPERTA

    Germania Meridionale

    50 Km da Stoccarda.

    L’una di notte, la strada era deserta, solo una solitaria vettura osava avventurarsi nel cuore della notte.

    Al volante François Orlando, noto archeologo francese e insegnante all’Università di Berlino.

    Egli era stato svegliato a tarda ora da un amico di vecchia data, Smith August, anche lui famoso studioso, che con fare concitato lo aveva pregato di raggiungerlo a Knittlingen.

    Knittlingen, fondato nel IX secolo, è un grazioso villaggio dalle antiche strade selciate affiancate da case dai tetti rossi e spioventi e si diceva fosse il luogo di nascita di Faust; quel Faust tanto citato nelle fantasie popolari e nel libro di Johann Spies.

    Per François erano solo sciocchezze prive di veridicità ma Smith le studiava con profonda attenzione; ed è per questo che egli aveva abbandonato il mondo accademico per ritirarsi in quel piccolo abitato e gestirne il modesto museo.

    Erano passati due anni dal suo volontario esilio e ora sembrava che i suoi sforzi fossero stati pagati.

    François raggiunse finalmente il centro di Knittlingen e si accorse di quanto fosse un posto ameno e desolato.

    Nessuno girava per le strade, quanta differenza dalla dinamica Berlino con i suoi forti contrasti e da Parigi ove François era nato.

    Nemmeno un giro della piazza portò il francese a carpire delle informazioni, la sala del biliardo di fronte alla Rathaus era chiusa e così pure il bar, non restò che ritornare alla macchina ripassando per la piazza.

    Nel centro di quest’ultima si erge la statua bronzea del Faust e lo studioso si soffermò incuriosito a leggere una targa posta alla base: Lui volle scandagliare tutti i segreti del cielo e della terra.

    Magari m’indicasse la via giusta da seguire o resterò qua tutta la notte disse scherzosamente fra sé e sé François.

    «Dottor Orlando è lei?».

    La voce giunse alquanto inaspettata e causò il trasalimento del francese.

    Non si spaventi la prego, sono Yorg, l’assistente del dottor Smith, mi ha pregato di raggiungerla, perché temeva per il suo pessimo orientamento».

    Davanti al professore c’era un uomo dall’aspetto nordico, con un vestito elegante e fatto su misura che ricordava più un modello che un ricercatore.

    François dopo lo spavento per quell’apparizione improvvisata rise divertito. «E così quel vecchio brontolone ti ha detto questo e chissà quanto altro ancora, intanto che mi accompagni sarà meglio che mi racconti ogni cosa».

    Fu così che egli scoprì da Yorg, come Smith avesse trovato in una casa al di fuori del villaggio un’antica botola nel pavimento, recante strani simboli runici e che calatosi all’interno fosse stato partecipe di una scoperta sensazionale.

    «Che cosa avete trovato di così speciale?».

    «Mi dispiace professore, ma mi è stato detto di non dirle nulla fino al suo arrivo e sarà fra pochi minuti». Passò un quarto d’ora e finalmente apparve una vecchia abitazione abbandonata ormai da decenni; l’aspetto ne dava testimonianza, ma intorno ad essa ferveva un’intensa attività.

    Qua e là si notavano tende con fuochi da campo accesi e un via vai di figure intente a lavorare.

    La macchina giunta a destinazione, si fermò in uno spiazzo ghiaioso ed un uomo si fece loro incontro.

    «Caro François, per fortuna sei giunto a destinazione, ho tante cose da raccontarti, ma prima dimmi tua moglie come sta? Sono passati tanti anni dall’ultima volta che l’ho vista».

    Smith aveva l’ aspetto di uno stregone dei libri di Harry Potter.

    Portava folti baffi e barba striati di bianco e spessi occhiali calati su un volto sottile e rugoso.

    I capelli erano folti e tenuti raccolti da un piccolo codino, mentre il vestito che indossava era un cappotto vetusto lungo come una vestaglia e di un colore bluastro.

    «Sei il solito chiacchierone vecchio crucco» ribadì François. «La mia consorte sta meravigliosamente bene, eppure ho la netta sensazione che non è per una rimpatriata che sono qui.

    Ti conosco bene quanto tu conosci me, sei sempre stato teatrale per lasciare il tuo pubblico con

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