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Fergus Mór. Il Romano di Dalriada
Fergus Mór. Il Romano di Dalriada
Fergus Mór. Il Romano di Dalriada
E-book638 pagine8 ore

Fergus Mór. Il Romano di Dalriada

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Info su questo ebook

451 d.C. - In una Britannia ormai abbandonata dall'impero Romano, un pugno di guerrieri combatte strenuamente
per difendere l'isola dalle crescenti invasioni dei popoli barbari venuti dal mare. Il figlio di uno di questi valorosi,
Fergus Mór, guarda a suo padre e ai suoi compagni come degli eroi invincibili, eredi di un popolo nobile e glorioso
da emulare. Ancora non sa che il suo destino sarà diverso e simile al tempo stesso. Un misterioso amuleto
ritrovato nei pressi di Gleva lo accompagnerà in un viaggio lunghissimo e tribolato, lontano dalla sua terra
natia, in cui conoscerà popoli e sovrani a lui ignoti. Ma nel quale, soprattutto, scoprirà le sue vere origini.
E il destino che per lui è stato deciso dai poteri più alti: riportare in vita un regno oscuro e ormai dimenticato.
Quello degli Scoti di Dalriada.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2021
ISBN9791220290197
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    Anteprima del libro

    Fergus Mór. Il Romano di Dalriada - Patrizio Corda

    FERGUS MÓR

    IL ROMANO DI DALRIADA

    Patrizio Corda

    A Giulia e a mia madre

    I

    Il nuovo mondo

    Dintorni di Caerwent, Gennaio 451 d.C.

    Una teoria di uomini si mosse stancamente all’orizzonte, attraversando le colline come un verme emerso dal proprio antro.

    L’aria gelida dell’inverno, resa densa e biancastra dalla foschia, si riempì di voci roche e malinconiche. Nenie antiche di secoli, forse millenni, lugubri ma capaci di esercitare un perverso fascino nell’animo di chi le udiva. Mentre percorrevano quei dolci pendii, resi luccicanti dalla brina e ornati da arbusti e antichi muri in pietra collassati, le sagome divennero più riconoscibili.

    Uomini simili a bestie, stretti l’uno all’altro dal cordame. Avanzavano a capo chino, le membra sferzate dal gelo e ricoperte di abrasioni e rozzi tatuaggi. Le loro chiome folte e crespe rese stoppose dal sangue ormai raggrumato. In loro era la mestizia figlia della sconfitta, ma anche un orgoglio capace di sopravvivere a qualsiasi umiliazione. Barbari .

    Da un colle poco lontano, e in posizione privilegiata, due uomini osservarono la scena compiaciuti ma per nulla appagati.

    «Cosa sono?» chiese Eugenio, riavviandosi i riccioli fulvi.

    L’altro, assai più alto e atletico, era il responsabile di quella vittoria effimera ma utile al morale dei Britanni.

    «Juti» rispose d’un fiato, sistemandosi l’elmo di bronzo.

    Pronunciò quel nome serrando le labbra sottili, un dettaglio consono al suo viso pallido e allungato, con gli occhi piccoli che guizzavano sotto una lunga capigliatura corvina.

    «Immagino siano solo una piccola parte di quanti ne sono sbarcati negli ultimi tempi» osservò Eugenio accarezzandosi stavolta la barba caprina.

    «Non sbagli. Questi non sono che l’avanguardia di Massimo».

    Eugenio annuì pensoso. Massimo . Quel nome ormai veniva invocato incessantemente, da diversi mesi.

    Valutò se proseguire la conversazione. Quando era così laconico, non era dato sapere cosa il loro capo supremo potesse fare.

    Nei suoi occhi era talvolta possibile scorgere un baratro senza fondo. Ciò nonostante, non riuscì a resistere alla curiosità.

    «…pensi sia davvero chi dice di essere? Il figlio di Onorio?»

    «Ah!» esclamò Owain con sprezzante ironia, adagiando le mani sui fianchi. «Davvero credi a una simile idiozia? Mi meraviglio di te. Quel Massimo, sempre che si chiami davvero così, non può certo essere il figlio di quel verme. E poi, da quant’è morto Onorio? Parliamo di decenni. Senza contare che questo brigante da quattro soldi va in giro a dire di voler riportare l’isola sotto la protezione di Roma. Una cosa che il suo supposto padre, con le sue azioni, ha smentito tempo fa».

    Eugenio fece nuovamente scorrere i grandi occhi castani su quant’era di fronte a loro. I soldati Britanni, riunitisi sotto Owain come lui, dileggiavano gli Juti ricoprendoli di sputi e colpendoli col piatto delle spade. Quei barbari sarebbero presto divenuti schiavi, obbligati a lavorare seminudi nei porti e nelle miniere. Ma prima avrebbero sfilato in ogni città come trofei, per mostrare alla gente che qualcuno intendeva ancora proteggere la loro amata isola.

    «Se solo fossimo di più» si lamentò Eugenio. «Se ogni potente locale si unisse a noi, offrendoci i propri eserciti personali, potremmo spazzare via questi selvaggi. Non trovi, Artorio?»

    Il solo udire quel nome fece scattare Owain, rendendolo un fascio di nervi dalla postura statuaria. Fulminò il suo sottoposto.

    «Quante volte ti ho detto di non chiamarmi a quel modo?»

    Consapevole di quel rimprovero innocuo in virtù della loro decennale amicizia, Eugenio si limitò a sospirare.

    «Il mio nome è Owain Ddantgwyn» ringhiò questi. «Sai bene che non accetto di essere chiamato diversamente».

    «Eppure, il tuo vero appellativo è un altro. Lucio Aurelio Artorio Casto . Dato il blasone della tua discendenza, dovresti esserne orgoglioso. Davvero, non capisco».

    «E nessuno ti ha mai chiesto di capire, Erc» replicò seccamente Owain rinfoderando la spada. «Perché questo, per contro, è il tuo nome Britannico. Potrei a mia volta interrogarmi sul perché ti ostini a utilizzare un insensato appellativo Latino».

    Eugenio sorrise. Quella discussione andava in scena per l’ennesima volta. E come sempre, nessuno avrebbe prevalso.

    Ripeté quasi a memoria la sua consueta giustificazione.

    «Non posso rinnegare il mio passato. Sono un Britanno, ma nelle mie vene scorre anche sangue Romano. E anche tu dovresti rammentarlo».

    «Roma è il passato» tagliò corto Owain. «E a quanto vedo, siamo impegnati a combatterlo. O forse speri ancora che l’impero che si sgretola davanti ai nostri occhi venga in nostro soccorso? Dubito tu sia così stolto».

    Era vero. Stando alle notizie che venivano dal resto del continente, quello dei Romani era un dominio ormai avviato verso la fine.

    Da decenni, ormai, le disperate suppliche dei Britanni venivano ignorate. Lotte intestine e continui sbarchi di pirati barbari e Iberni flagellavano l’isola. Problematiche che, dai tempi del gran rifiuto di Onorio, avevano dovuto risolvere da soli.

    Vanamente, fino all’ascesa dello stesso Owain. In lui, nella sua spada e nel suo spirito riponevano ogni speranza di pace e libertà.

    Ammettendo ciò, Eugenio tacque. Ma Owain non aveva finito.

    «Il mondo è cambiato. Almeno, per noi. E la separazione con quanto conoscevamo è ormai definitiva, ben più vasta del mare che i nostri avi solcarono. Ecco perché quel nome non m’appartiene. Rifletti, amico mio: se una donna rispettabile e onesta viene umiliata e abbandonata dal marito, dovrebbe forse continuare a portare il suo nome? O forse dovrebbe sforzarsi di ricominciare daccapo, recuperando la sua identità originaria? Io penso al futuro di tutti noi, Eugenio, e anche tu dovresti. Che avvenire desideri per i tuoi tre figli? Vuoi forse che continuino a vivere nell’incertezza, schiavi degli ennesimi predoni?»

    Quel cenno alla sua famiglia e alla costante insicurezza che affliggeva lui e ogni Britanno fece colpo su Eugenio.

    Pensò a come controbattere, ma dovette riconoscere che Owain aveva ragione. Egli aveva superato la languida nostalgia dei tempi andati, e si era risolto a combattere da sé e per sé.

    Ecco perché tutti l’avevano eletto come capo della resistenza.

    Prima ancora che potesse rispondere, però, fu attratto dalla crescente euforia dei soldati. Risollevando lo sguardo, vide che questi si erano fermati per consentire il passaggio a due uomini a cavallo. Erano in molti a vedere in quei giovani il futuro dell’isola.

    Eppure, non sarebbero potuti essere più diversi.

    Riotamo e Ambrosio Aureliano levarono le braccia per accogliere quelle sincere acclamazioni, mentre i destrieri affondavano le possenti zampe nell’erba umida. Come a volerli omaggiare a sua volta, il sole uscì timidamente allo scoperto squarciando le nubi.

    A loro modo, i generali di Owain incarnavano tutte le qualità di un uomo onorevole. Riotamo, una montagna di muscoli dai capelli rosso fuoco e lo sguardo fiammeggiante, pareva nato per la guerra.

    Non vi era un solo uomo in tutto l’esercito che fosse più valoroso, e delle volte incosciente, di lui. Forte di una fisicità quasi sovrumana, era presto asceso nella gerarchia militare ideata da Owain malgrado le sue umili origini. Confidava tanto nella sua resistenza da rifiutare spesso qualsiasi armatura o scudo.

    Ambrosio era invece l’opposto. Elegante e slanciato, dai tratti gentili e i fluenti capelli biondi, avrebbe potuto ricordare un antico magistrato Romano. E d’altronde, era quello il suo retaggio.

    A differenza del compagno, il suo sangue era nobile. Per generazioni la sua famiglia aveva vestito la porpora del Senato.

    Nonostante la sua buona educazione, aveva però scelto di combattere per la sua terra così da liberarla dagli invasori.

    Guardandoli orgoglioso, Eugenio convenne che malgrado l’epoca che vivevano e le giuste ragioni di Owain, anche loro avevano conservato i rispettivi nomi Romani. In una qualche maniera, erano rimasti legati come lui a quelle antiche radici.

    Si domandò che cosa ne pensasse il suo signore.

    Ebbe presto la risposta che cercava. La soddisfazione di Owain era smorzata da un velo ombroso calato sui suoi occhi.

    Forse anche lui ne era consapevole. Avrebbe potuto cambiare la Britannia, liberandola. Ma non avrebbe mai cancellato ciò che erano stati e che avevano imparato ad amare nei secoli precedenti.

    II

    L’ombra di un grande

    Aquae Sulis, Gennaio 451 d.C.

    In circostanze normali, avrebbe rifiutato di spostarsi utilizzando un carro. Per Owain, la relazione col proprio cavallo non era solo fatta di amore e affidabilità. Si trattava più di un rapporto simbiotico, visceralmente connesso alla sua identità.

    I Britanni erano sempre stati eccellenti cavalieri, e c’era qualcosa nell’attraversare a ritmo sincopato quelle vallate verdissime che lo faceva riconciliare con la sua essenza. Tuttavia aveva bisogno di un’intimità assoluta, della solitudine più oscura per riflettere.

    Quando il mezzo si arrestò, comprese però di dover scendere e uscire allo scoperto. Erano arrivati a destinazione.

    Gettandosi addosso il mantello, si guardò attorno. Le mura dell’insediamento di Aquae Sulis non sembravano voler nascondere lo stato d’abbandono in cui versava quella città un tempo florida e vivace. Diversi blocchi di pietra erano mancanti o in cattivo stato, e i rampicanti avevano fagocitato ampie porzioni della cinta difensiva. Il solo segno di vita erano i soldati che occupavano i ballatoi pericolanti sopra di lui. Arrivato alla porta, fu salutato da due guardie incaricate di proteggere l’ingresso.

    Dunque si avviò per la strada principale. Contemplò fugacemente lo sfacelo causato da anni di incuria. Molte lastre del suolo pubblico erano state divelte da predoni, e ovunque erano cumuli di detriti. Le mura degli edifici, maestosi e tristi, erano deturpate da lunghe crepe e chiazze d’umidità. A diverse statue erano state mozzate le mani e cavati gli occhi: un’altra di quelle sciocche pratiche Cristiane volte a scacciare i demoni adorati dai pagani.

    Seguito da uno sparuto drappello di armati, volse al vero cuore di Aquae Sulis. Il suo meraviglioso e celebre complesso termale.

    Solo allora si fermò, per verificarne lo stato.

    Un tempo, questo era stata un’attrazione nota in tutto l’impero. A seguito degli sbarchi dei pirati, tuttavia, i Britanni avevano abbandonato quella città troppo esposta e mal difesa, permettendo a vagabondi e briganti di depredarla. Ora, questa era uno dei punti che aveva scelto come quartier generale nell’area Meridionale dell’isola. In un silenzio assordante, ammirò la grande piscina vuota, circondata da colonnati Corinzi. I suoi splendidi mosaici erano occultati dalla mucillaggine, che emanava uno sgradevole odore. Di fronte a sé, trovò il raffinato frontone che raffigurava Nettuno. Owain girò attorno alla piscina, senza cambiare espressione, e gettò una fugace occhiata a quel volto di pietra.

    Lo guardò con studiata indifferenza, ma anche con la tacita riverenza che si tributava a una divinità, anche se solo supposta.

    Delle volte, si rammaricava di aver adibito una struttura così bella a momentaneo covo di ribelli, disponendone come voleva.

    Ma tant’era. Se non altro, si era trattenuto dal far sua proprietà anche l’adiacente tempio di Minerva. Si chiese quale artista avesse curato i minuziosi dettagli di quei colonnati che lo attorniavano.

    Per quanto lo evitasse, il passato della Britannia era ovunque.

    E inevitabilmente, finiva per intrecciarsi al presente che vivevano e al futuro che sognava. Il che lo riportò ai suoi pensieri iniziali.

    Eugenio, in fondo, aveva ragione.

    La sua discendenza era troppo nobile perché potesse cancellarne le tracce. Il suo nome era l’eredità di un uomo che, in Britannia, aveva ormai assunto contorni leggendari sopravvivendo anche alla morte. Lucio Artorio Casto .

    Questi, membro della gens Artoria, era stato prefetto della VI Legione Vincitrice, stanziata proprio in Britannia. La sua fulgida carriera militare era culminata nel servire sotto il governatore Ulpio Marcello. Ai tempi vestiva la porpora il degenerato Commodo, uno dei più sanguinosi imperatori mai esistiti.

    Proprio in quegli anni, Marcello e Artorio ottennero una grande vittoria contro i selvaggi Caledoni che avevano osato superare il Vallo di Adriano, consegnando all’augusto il titolo di Britannicus .

    In seguito lo stesso Artorio aveva ricoperto l’incarico di dux , ponendo tutte le legioni Britanniche sotto di sé.

    Negli anni successivi egli si era erto a nume tutelare dell’isola, difendendola dai barbari e ottenendo successi anche oltremare, in Armorica. La sua rettitudine, oltre che l’indiscutibile talento militare, gli era valsa l’amore di tutti i Britanni malgrado la lealtà verso quell’imperatore sadico e deviato.

    Tuttavia Owain aveva sempre disprezzato il suo antenato, quasi vergognandosi di ammettere la parentela che li legava. Artorio, pur di difendere l’onore dell’impero, aveva infestato l’isola con i suoi cavalieri Sarmati. Aveva usato barbari per combattere barbari, permettendo che il loro sangue bastardo si mescolasse a quello degli indigeni. Un affronto che, per i principi morali che osservava, era inaccettabile. Eppure il suo nome era ancora al centro di leggende, e si diceva che nei periodi di sventura la sua presenza potesse essere percepita. In lui era Roma, l’impero che mai avrebbe abbandonato i Britanni malgrado l’inettitudine dei Cesari.

    Eugenio aveva ragione. Ma si sbagliava se pensava che quell’utopia potesse realizzarsi. Erano ormai soli, chiamati a difendere quanto rimaneva del loro mondo. E forse a ricostruire da ciò che non sarebbe stato distrutto da nuove guerre e razzie.

    Owain si chiese se non fosse il solo ad aver compreso il cambiamento che stavano vivendo. Roma era ovunque, sì, ma in qualità di muto osservatore. Quei monumenti, pur magnifici, non erano che reliquie. Non avrebbero minimamente influito sulle loro vite, né li avrebbero protetti.

    Delle volte, non erano neppure i barbari ad essere il peggior nemico. I Britanni si erano dimostrati ben peggiori di Juti, Angli e Sassoni. La prova erano le tribolazioni a cui erano andati incontro, pur di liberare l'isola dalla tirannia del dispotico Vortigern. Un uomo talmente assetato di potere da commettere lo stesso errore di Artorio: sfruttare i pirati Sassoni per raggiungere i suoi scopi, facendone la sua milizia e permettendo loro di devastare raccolti e città. Con l’aiuto di qualche migliaio di ribelli, era riuscito anni prima ad assediare e conquistare Caerwent.

    Il tiranno era stato catturato e giustiziato. I barbari dispersi.

    Trovò ironico che proprio i suoi compagni, che l’avevano sorretto nell’impresa, continuassero a sperare nell’irrealizzabile.

    Era come se non volessero risvegliarsi da un sogno. Eppure, se fossero riusciti a unire l’intera comunità Britannica, avrebbero potuto liberare ogni costa e città. Nessuno, neppure quel Massimo che millantava un diritto alla porpora ma ricordava più il defunto Vortigern, avrebbe potuto fermarli.

    Quei bruti giunti dal mare, emersi come demoni dalla nebbia, si sarebbero guardati dall’avvicinare nuovamente i loro confini.

    Tutto ciò sarebbe stato possibile, ma solo a patto di vivere, pensare e agire come Britanni e null’altro. Come avevano fatto i loro avi prima di chinare ignominiosamente il capo davanti a Roma.

    Combattere in nome di un popolo vile e avviato all’estinzione non avrebbe certo giovato. Avessero ascoltato le sue parole, accolto il suo invito al recupero delle vere radici, forse si sarebbero potuti riscattare. Ma era troppa la divisione tra i suoi fratelli, ancora dilagante la brama di diventare piccoli despoti anziché condividere equamente quanto la loro terra aveva da offrire.

    Chissà che una vittoria contro Massimo non potesse riscuotere quelle coscienze sopite, e rendere giustizia agli antenati.

    Prima di scomparire in uno dei corridoi bui, Owain guardò ancora l’imponente sagoma delle terme attorno a lui. Uno stormo di uccelli attraversò il cielo nuvoloso e color cenere.

    Un giorno, avrebbe dovuto affrontare la verità. E accettare ciò che era, per quanto aspirasse a essere un uomo diverso.

    Roma era ovunque, con la sua fastosa decadenza.

    Non poteva rinnegarla, né fingere che non fosse mai esistita.

    Quando ne avrebbe riconosciuto l’antica dignità, facendo pace col suo stesso sangue, sarebbe riuscito nel suo intento.

    Dare vita a una nuova Britannia unita, lasciando che le reliquie rimanessero tali. Sospirò, e si avviò per il corridoio tenebroso.

    All’interno lo attendevano i suoi generali. Riotamo, Ambrosio Aureliano e soprattutto Eugenio.

    Questi aveva ragione. Lo ripeté a sé stesso per l’ultima volta.

    Ciò nonostante, non lo avrebbe mai ammesso in sua presenza.

    Di certo, non quel giorno.

    Avevano cose molto più importanti di cui discutere.

    III

    Il vento di Britannia

    Gleva, Gennaio 451 d.C.

    «Fergusius!»

    Il richiamo si spense nell’aria, tra i prati alti e rigogliosi fino ai colli percorsi da quanto rimaneva di antichi muretti a secco.

    Attirate dall’insolito eco, alcune capre tesero le orecchie cessando per un attimo di ruminare. Nessuno, tuttavia, rispose.

    «Fergusius!»

    Un altro tentativo inutile, la cui replica fu solo il lontano sibilare del vento. Seguirono delle imprecazioni, poi il nitrito di un cavallo.

    «Maledizione… Fergus! »

    Solo allora il bambino si voltò di scatto, scuotendo la chioma fulva.

    Smise di correre, con l’erba che gli arrivava quasi all’inguine e la piccola mano ancora tesa nel tentativo di ghermire quelle greggi che tanto lo affascinavano. Spalancando i grandi occhi castani, osservò i due cavalieri avvicinarsi. Poi sorrise, riconoscendoli.

    Non erano soldati – come avrebbe sperato – ma fu ugualmente felice di vedere i suoi fratelli mentre questi fermavano i destrieri.

    Loarn e Oengus lo affiancarono, uno per ciascun lato, scuotendo il capo. I cavalli presero immediatamente a brucare.

    Gleva era lontana, ma non troppo. Ciò nonostante, si erano immediatamente preoccupati nell’averlo perso di vista. Non c’era veramente verso di fermare il fratello minore, né di contenere la sua vivacità davanti alla natura selvaggia.

    Fergus aveva preso tutto del padre Erc. La corporatura tozza e robusta, l’ampio ovale del volto e la capigliatura. Ben diversi erano invece i fratelli, di cinque anni più grandi di lui che ne aveva sei.

    Questi avevano lunghi capelli biondicci, corpi snelli e slanciati e volti delicati che ricordavano quello della madre.

    Pur giovanissimi, erano già perfettamente capaci di cavalcare.

    Ammirando i possenti animali, Fergus si chiese se un giorno sarebbe stato bravo come loro. Non intuì l’imminente rimprovero.

    «È mai possibile che tu non risponda mai quando vieni chiamato?» gli abbaiò contro Oengus, fulminandolo con lo sguardo.

    «Non appena ci giriamo, scappi e rincorri qualsiasi bestia! Hai idea di cosa direbbe nostro padre se sparissi nel nulla?»

    Perplesso, il piccolo si grattò il capo.

    Non c’era nulla di male, a suo avviso, nell’immergersi nella natura.

    La città, con le sue cupe e fatiscenti dimore in pietra, lo intristiva.

    Si sentiva oppresso da quelle strade strette e dalla cinta muraria.

    Nessun bambino avrebbe dovuto vivere in un simile luogo, quando la loro isola offriva simili bellezze. Ogni cosa era degna d’ammirazione. Anche un semplice pascolo.

    Gli adulti non capivano.

    «Allora?» insistette Loarn. «Non pensi di doverti scusare? Eppure, hai sentito il tuo nome chiaramente».

    «Quello non è il mio vero nome» ripeté Fergus con voce più profonda del normale, nel tentativo di apparire serio.

    Fu accolto da una duplice risata, un misto di scherno e stanchezza.

    «E invece sì» rispose Oengus. «Ti chiami Fergusius».

    «Nostro padre non ha mai detto questo» si oppose il bambino stringendo i pugni.

    «Oh sì, invece!» lo dileggiò Oengus scendendo dal cavallo. «Sai bene cosa pensa. Per lui, siamo innanzitutto Romani. Romani di Britannia».

    «Perché allora voi non usate i nomi Latini?» li incalzò Fergus mentre avvampava.

    I due rimasero inizialmente colpiti da quella reazione, segno che malgrado l’età il bambino era decisamente sveglio.

    Poco dopo, però, si scambiarono uno sguardo complice e scrollarono le spalle. Le greggi, nel frattempo, si allontanarono.

    «Questo non è un affare che ti riguarda» lo riprese Loarn, con una severità che non ammetteva repliche. «Sono faccende da adulti. Tutto ciò che conta è che ti abbiamo finalmente ritrovato. E adesso vieni con noi. Dobbiamo ritornare in città prima che il sole scenda, se non vogliamo essere puniti. Sappi che la prossima volta non saremo così clementi, se dovessi disubbidire».

    A capo chino, Fergus fu obbligato a salire in sella con uno di loro.

    Improvvisamente le colline sembrarono irraggiungibili, i loro bei arbusti macchie infinitamente piccole. Per contro, l’avvilente profilo di Gleva parve andargli incontro con impazienza.

    In silenzio, Fergus pensò a quel fastidioso obbligo.

    Fergusius . Odiava quel nome, eppure era incredibilmente simile a quello che tanto amava udire, e che sentiva veramente suo.

    Perché?

    Poteva una parola custodire un significato tanto profondo, capace addirittura di definire un essere umano?

    Evidentemente sì.

    Ed era questo il problema.

    Lui si sentiva un Britanno a tutti gli effetti, un figlio dell’isola che li ospitava, quasi fosse sorto dalle radici degli alberi secolari sotto i quali amava ripararsi. Nella sua mente, era stato generato dalla terra stessa e non dai suoi genitori.

    Non gli piaceva l’idea di essere discendente di un popolo straniero.

    Non si sentiva tale, né vi sarebbe mai riuscito.

    Un pensiero audace a un’età tanto tenera, ma che per lui era una certezza tanto solida quanto la roccia immortale.

    Perché doveva sottostare alla volontà altrui? Cos’era più importante?

    L’imposizione paterna, o il suo desiderio di autodefinirsi e diventare ciò che sentiva di essere?

    Vivere un’esistenza vestendo panni non suoi sarebbe stato un insulto a quella terra generosa, eternamente verde, che li nutriva e si era presa cura anche dei loro avi.

    Guardando la vallata allontanarsi, si consolò con la sola manifestazione della natura che sentisse ancora vicina a sé.

    Quel soffio che poteva essere impetuoso ma anche gentile, e che aveva visto dare vita a milioni di fili d’erba facendoli danzare.

    Quella era la sua terra. La sua stessa essenza.

    Ed era quello il vento di Britannia, o forse di qualcosa di ancora più antico. Capace di smuovere, alla stessa maniera, la sua giovane anima dandole una forma.

    IV

    La maschera

    Portus Lemanis, Marzo 451 d.C.

    Issato su quelle potenti spalle, Massimo poté guardare meglio i volti dei suoi invincibili guerrieri. Nei loro occhi profondi e del colore del ghiaccio era un feroce entusiasmo, paragonabile a quello di un branco di lupi certo di poter banchettare sui corpi delle prede inermi. Questa era la convinzione che era riuscito a instillare in loro, e ora ne poteva finalmente raccogliere i frutti.

    Tra i loro ruggiti cavernosi, simili a gorgoglii animaleschi, udì una parola pronunciata in un Latino a malapena comprensibile.

    Imperatore.

    Incredulo, si lasciò deporre al suolo. Uno dei suoi sottoposti più rispettati, un uomo gigantesco dalla lunga barba cinerea, gli offrì quella che nelle loro intenzioni sarebbe stato un diadema. Era un rozzo cerchio di ferro, ma Massimo si finse onorato di quel dono e lo indossò senza indugiare. Subito dopo, un drappo purpureo gli fu gettato sulle spalle. Mentre allargava le braccia fu accolto da un nuovo boato, scandito dal battere delle spade sugli scudi.

    Dunque vi era riuscito. Il suo piano, a lungo parso irrealizzabile, era andato in porto. Il suo solo rammarico fu quello di non essere stato acclamato in una cornice più consona.

    Il forte di Portus Lemanis era ormai abbandonato da tempo, almeno da quando ogni legione imperiale era stata richiamata sul continente per poter fronteggiare l’avanzata dei i popoli barbari che stavano minacciando Roma. Quella costruzione imponente, composta da ben quattordici torri e realizzata con mattoni e blocchi di pietra, sembrava un gigante privato dei suoi poteri ancestrali. Costretto a languire immobile nel nulla, insidiato dalle piante selvatiche senza che nessuno se ne prendesse cura.

    Massimo, guardandosi attorno soddisfatto, disse a sé stesso che ne avrebbe preso possesso. Chi avrebbe mai potuto opporsi, davanti alle migliaia di selvaggi che era riuscito a portare dalla sua?

    Non s’illuse di poter essere realmente considerato un Cesare da costoro. Quello non era un titolo che potevano comprendere.

    Tutt’al più sarebbe stato visto come un signore della guerra, una guida alla quale anche i capi tribù si sarebbero piegati.

    Proprio così: capi tribù. Perché nessuno, tra le sue milizie, poteva essere lontanamente considerato Romano o Britanno.

    Contrariamente alla voce che aveva fatto circolare, era al comando di una incoerente e feroce accozzaglia di varie etnie barbariche.

    Juti, Sassoni e Angli. Tutti già presenti sull’isola e dediti a ruberie, stupri e massacri.

    Il solo ad avere qualche goccia di sangue Latino nelle proprie vene era lui. E forse, ciò aveva convinto i barbari che egli fosse degno di essere seguito ed ascoltato. Ma il suo status era ben lontano da quello di rampollo dimenticato, tantomeno discendente da un augusto. Non aveva neppure idea di che volto avesse Onorio, ma fin dall’infanzia ne aveva sentito parlare.

    In verità, Massimo non era neppure certo di avere origini Romane. Il suo aspetto, però, supportava quella teoria.

    Era di bell’aspetto, atletico e dal viso raffinato. La linea regolare della mandibola, gli occhi languidi e i ricci bruni lo facevano sembrare un antico patrizio. Se l’era sempre sentito dire, quando vagava di città in città cercando di procurarsi da mangiare.

    Aveva vissuto come un bastardo, senza una famiglia. Non aveva mai conosciuto i suoi genitori, ed era fuggito dall’orfanotrofio ch’era poco più che un bambino. Da quel giorno in poi, era sopravvissuto aggregandosi a svariate bande di briganti, imparando presto a guadagnare illegalmente e con velocità.

    Ciò l’aveva presto reso ricco, anche se inviso a centinaia di possidenti e allevatori. Una volta adulto, però, si era reso conto di desiderare di più. Arricchirsi alle spalle degli onesti, derubandoli delle greggi e dei pochi risparmi non era più abbastanza.

    Col passare del tempo, aveva compreso la ragione della sua inquietudine, cosa bramasse nell’oscurità del suo animo tormentato. Il potere, l’ebbrezza nel vedere i più deboli tremare al suo cospetto. Errando per le piane e le foreste incustodite, era stato colpito dall’illuminazione che aveva cambiato la sua vita.

    Già privo di un’identità propria, se n’era creata una del tutto nuova.

    Un azzardo, considerato chi millantava di essere. Ma proprio quell’esagerazione, convalidata dalle ricchezze accumulate nel tempo e nascoste per tutta l’isola, avevano attratto i barbari che infestavano le coste. Non meno dediti al nomadismo di lui.

    Era stato facile convincere i loro anziani a seguirlo, facendo credere di essere davvero il figlio legittimo di Onorio. Sotto di lui avrebbero ottenuto oro e terre, trovando l’agognata stabilità.

    Sorridendo mentre le truppe gli tributavano amore e rispetto, si scagionò da qualsiasi colpa. In fondo, anche i veri augusti avevano spesso finto pur di mantenere il trono.

    Chi avrebbe mai potuto disprezzarlo per quanto aveva fatto?

    Anche se fosse stato, era ormai abituato all’astio.

    Erano quelli i vantaggi dell’essere nati dal nulla e senza nulla.

    Sollevando i pugni chiusi, rifletté sulla prossima mossa da fare. I barbari gli erano ora fedeli: ma come avrebbero reagito i Britanni?

    Sarebbe riuscito a convincere anche questi, spacciandosi come discendente dell’imperatore che li aveva vilmente abbandonati?

    Si disse di sì. Proclamandosi avverso al pavido genitore, avrebbe affermato di voler riportare l’isola sotto la protezione imperiale.

    Quei bruti appresso a lui sarebbero stati presentati come ausiliari, giunti dal continente in risposta ai loro disperati appelli.

    Sì, poteva funzionare . Ancora una volta, avrebbe lucrato sulle storture del sistema e sullo stato di isolamento in cui versava l’isola. Nessuno, a dire il vero, sapeva con certezza se l’impero fosse ancora in piedi. La gente avrebbe creduto unicamente a ciò che vedeva. E lui avrebbe fatto in modo di essere ovunque.

    Nostalgia e disperazione sarebbero state i suoi più grandi alleati.

    Rise di gusto, per poi gridare di pura estasi.

    Il cielo terso sembrò volergli sorridere, benedicendo la sua ascesa.

    Era ricco, determinato e possedeva un esercito inarrestabile: sarebbe riuscito a far sua la Britannia. E l’avrebbe fatto come i Romani, quelli veri , avevano insegnato. Con la sottile arte dell’illusione, e restando fedele alla sua geniale messa in scena.

    V

    Fede e occulto

    Dintorni di Ratae, Maggio 451 d.C.

    I pochi passanti nel foro di Ratae, animato da qualche sparuto commerciante, si fermarono ad osservare quegli stranieri immobili di fronte alla statua di San Germano d’Auxerre.

    Ad attirarli era l’abbigliamento militare del solo adulto tra loro, presumibilmente il padre di quei due adolescenti e di quel bambino che si guardava attorno stranito e irritato, poco entusiasta di essere in quella città spoglia e rattrappita.

    Beandosi nell’essere al cospetto del santo, Eugenio sospirò profondamente. Poi si girò verso i figli.

    «Davanti a voi è un uomo dalla fede incrollabile, ma anche l’ultimo vero difensore della Britannia. Il solo che abbia raccolto il nostro disperato appello, in un’epoca in cui l’impero era già diventato sordo ai nostri richiami».

    Fergus osservò la statua. I grandi occhi di Germano sembravano contemplare l’infinito, qualcosa che i comuni mortali non avrebbero mai potuto ghermire neppure col pensiero. La sua mano destra, con l’indice puntato all’orizzonte, pareva voler indicare loro la via della salvezza. Si chiese se mai l’avrebbero trovata. Suo padre aveva parlato di un tempo lontano, ma in verità non erano passati molti anni dal suo ultimo approdo sull’isola.

    «L’opera di questo santo non fu solo militare, ma anche religiosa» riprese Eugenio parlando sottovoce. «Egli riorganizzò le sparute truppe della resistenza, facendo le veci del patrizio Flavio Ezio, e si impegnò a condannare la perniciosa eresia dei Pelagiani. Solo grazie a lui riuscimmo, pur temporaneamente, ad allontanare sia i barbari che i seguaci di quella malevola credenza».

    Loarn e Oengus ascoltarono in silenzio, lo sguardo fisso sul piedistallo dov’era adagiata la statua. Per contro, Fergus continuò a guardarsi attorno. I locali mormoravano tra loro, le labbra ermeticamente strette, chiedendosi l’un l’altro chi fossero quei visitatori. Si concentrò poi sugli edifici e la chiesa adiacente.

    Quelle costruzioni non superavano mai i due piani, e le travi di legno erano tornate a costituire la struttura portante di case e monumenti. L’antica architettura Romana, basata sulla fine lavorazione della pietra e dei mattoni, stava cedendo il passo a pratiche ben più antiche e grezze. Gli parve uno spettacolo modesto, per certi versi anche desolante.

    La statua era ben più imponente di qualsiasi cosa la circondasse.

    Dovette riconoscere che in essa c’era qualcosa di grande, eppure astratto e inafferrabile. Provò una moderata soggezione.

    «Non rimane più nessuno, nell’impero, interessato alle nostre sorti. Dopo Germano, nessuno è più giunto in nostra difesa. Non ci resta dunque che implorare la sua anima di proteggerci, dandoci la forza di opporci agli invasori» proclamò solennemente Eugenio abbassandosi e reggendosi su un ginocchio solo.

    Giunse le mani, poi impose con lo sguardo ai figli di fare altrettanto.

    Loarn e Oengus obbedirono senza fiatare.

    Fergus, però, preferì attendere ancora. Tentò di carpire la vera essenza di quell’uomo, sacrificatosi per salvare i Britanni anche nell’animo. Al contempo, li aveva sottratti alla schiavitù del corpo e della mente, scacciando i pirati e gli eretici.

    Tuttavia, quell’equilibrio era più fragile che mai. Anche se giovanissimo, Fergus sapeva che tutti loro erano sotto attacco.

    Sarebbe spettato a suo padre, al potente Owain e forse anche a loro, un giorno, ergersi a difensori della loro terra.

    Notando la sua esitazione, Eugenio lo fissò intensamente.

    « Fergusius » lo richiamò con voce profonda.

    Bastò quello a riportare il bambino alla realtà. Silenziosamente, si inginocchiò a sua volta soffocando il fastidio per essere chiamato a quel modo. Per quanto ancora avrebbe cercato di plasmarlo a suo piacimento? Perché non faceva altrettanto coi fratelli?

    Mormorò le fastidiose giaculatorie in lingua Latina che era stato costretto a imparare a memoria, talmente piano da far sì che si mescolassero a quelle dei familiari.

    Recitando le formule senza particolare attenzione, lasciò che il pensiero andasse a quanto avevano visto durante il viaggio che li aveva condotti a Ratae. In Germano e nella sua vita erano sicuramente nobiltà e un senso d’appartenenza reminiscente dell’antica dignità imperiale, ma lui era stato colpito da qualcos’altro. Una visione che l’aveva fatto fremere da capo a piedi, facendolo sentire attratto ad essa senza trovare una spiegazione.

    Il mattino precedente, attraversando un’area rurale tempestata di antiche rovine Romane, si erano imbattuti in una costruzione a lui del tutto sconosciuta. Circondati dalla verde prateria, Fergus aveva visto decine di blocchi di pietra disposti in modo da formare un cerchio. Questi, di un grigio argenteo, erano talmente grandi da far pensare che solo creature gigantesche avrebbero potuto smuoverli. A bocca aperta, Fergus li aveva ammirati mentre possenti e immortali si slanciavano contro il cielo plumbeo.

    Al centro del cerchio, poi, aveva notato una grande pietra piatta.

    I suoi occhi, discostandosi dalla realtà, avevano visto un fuoco dirompente e sacro ardere sulla sua superficie.

    Tutto ciò a cui aveva pensato, in quel momento silenzioso e solenne, erano stati i racconti che aveva sempre udito sui druidi, i misteriosi uomini ormai scomparsi che erano stati in grado di compiere magie, appellandosi ai defunti e agli spiriti che avevano generato la Britannia e ciascuno di loro.

    Solo gli aspri richiami del padre gli avevano impedito di entrare in quello che senz’altro era stato un templio eretto all’alba dei tempi.

    Ciò nonostante, aveva provato un’innegabile attrazione verso di esso. Aveva sentito che, per quanto antico, era quello ciò in cui credeva davvero. Un culto oscuro e lontano, nato quando la Britannia era stata dominata dagli elementi, e pochi eletti avevano interceduto presso di questi a nome di ogni uomo.

    Come tornando in sé, si ritrovò davanti al severo sguardo del santo.

    Chinando il capo, Fergus provò un forte imbarazzo e implorò il suo perdono. Aveva forse pensato cose sconvenienti in sua presenza.

    Tuttavia, realizzò di non sentirsi veramente in colpa.

    E in fondo, era legittimo che fosse così.

    Non si poteva provare colpa, nell’essere veramente sé stessi.

    VI

    Porpora ammaliatrice

    Anderida, Agosto 451 d.C.

    «Spero che questa umile cena sia di tuo gradimento, sacro augusto» farfugliò l’anziano decurione senza vergognarsi del suo tono untuoso. Massimo, per poco, non gli rise in faccia.

    Certo che gradisco, stupido vecchio.

    Negli occhi dei nobili di Anderida vide non solo deferenza, ma anche sollievo. In un certo senso, non avevano tutti i torti. Perché se solo avessero voluto, i suoi terribili barbari avrebbero potuto radere al suolo quella città indifesa in poche ore. E in tutta verità, quando quel mattino aveva chiesto di essere accolto, Massimo aveva considerato di doverla prendere con la forza. Seguito da oltre quattromila guerrieri, non avrebbe avuto alcun problema.

    Ma poi, il brivido che rende accettabile ogni folle scommessa l’aveva sedotto. Dove mai avrebbero creduto alla sua identità fittizia, se non in una città già in ginocchio e priva di una guarnizione che potesse proteggerla?

    Mentre addentava una coscia d’agnello arrostita con assai poca regalità, Massimo si chiese se non stesse sognando. Sentendo su di sé gli occhi della nobiltà locale, non provò vergogna per i suoi modi rozzi. I capi tribù al suo fianco, spacciati incredibilmente per valorosi generali Romani, non furono da meno.

    Incredibile. Quegli uomini colti, debitamente istruiti e ricoperti di fini tessuti e gioielli erano stati talmente stupidi da credere che fosse realmente il figlio di Onorio. Gli era bastato atteggiarsi un poco, sfoggiando la sua porpora e dei gioielli requisiti chissà dove per avere la loro completa attenzione.

    Una commistione di terrore e malinconia gli aveva permesso di entrare ad Anderida come un liberatore, guadagnandosi le acclamazioni della gente senza il minimo sforzo. Si diceva che la vittoria più dolce fosse quella ottenuta senza combattere.

    Si trattava di una grande verità.

    Afferrando malamente una brocca colma di vino, mandò giù il succulento boccone. Un pensiero gli fece quasi andare di traverso quel nettare. Guardò commiserante i suoi anfitrioni, che avevano approntato in tutta fretta una fastosa cena nel più lussuoso palazzo di Anderida. Non si erano neppure resi conto del suo accento.

    Il figlio di un Cesare avrebbe forse parlato a quel modo, con le dure inflessioni tipiche di un Britanno?

    Ah, quali prodigi poteva compiere la disperazione umana!

    Percepì attorno a sé rinnovata speranza, trepidazione, timore di irritarlo ma soprattutto una sincera fiducia. Vide addirittura alcuni aristocratici giungere le mani, nell’augurio che egli fosse soddisfatto del banchetto. Che non si preoccupassero. Lo era.

    Quando fu sazio, si tirò indietro soffocando la tentazione di battersi il ventre come un bruto. Meglio non farli rilassare troppo presto.

    Era giunto il momento di fare affari, e di avviare una negoziazione che – non c’era dubbio – sarebbe stata a senso unico.

    «Voglio ringraziarvi, nobili custodi di Anderida, per l’accoglienza e soprattutto per la fiducia» disse senza neppure pulirsi il muso. «L’augurio è che, seguendo il vostro esempio, tutti i Britanni di buona volontà mi accettino come legittimo augusto. Solo così potrò adoperarmi per voi, e liberarvi definitivamente».

    Sguardi luccicanti e devoti si adagiarono su di lui.

    Quei poveri stolti sapevano dell’impero quanto ne sapeva lui.

    Se gliel’avessero chiesto, non avrebbe saputo dire se Roma fosse caduta o meno, o se vi fosse ancora un vero imperatore.

    «Sì, Cesare» si affrettò a rispondere il decurione, ordinando a cenni che fossero servite nuove portate. «Abbiamo bisogno del tuo aiuto. Selvaggi come Juti, Pitti e Sassoni infestano le nostre coste. A lungo abbiamo implorato Roma di venirci in aiuto».

    Avessero saputo chi erano i valorosi seduti accanto a lui!

    Si erano appena portati il nemico in casa.

    «Capisco» annuì fingendo bonomia. «Ma per arruolare nuove forze sul posto, sarò costretto a richiedere un tributo. Spero possiate capire. Ogni soldato, per quanto volenteroso, è meritevole di una paga. Di quanto tempo avreste bisogno?»

    I nobili si guardarono l’un l’altro, senza obiettare. Tale era la loro esasperazione, che non si erano neppure accorti di essere alle prese con uno strozzino. Quell’oro sarebbe andato a lui, e solo in parte ai barbari dei quali si avvaleva. Il decurione si alzò in piedi.

    «Dacci tre giorni, Cesare» lo implorò sorridendo. «E stai pur certo che avrai tutto ciò di cui necessiti. Ovviamente, sarai nostro graditissimo ospite per quanto vorrai».

    Massimo annuì ancora. Non gli parve vero di essere riuscito a ricattarli così facilmente.

    «A tal proposito» riprese il vecchio, tormentandosi le mani ingioiellate. «Come dicevo, per anni abbiamo cercato di rimetterci in contatto con l’Italia. Da quando tuo padre, possa egli riposare in pace, ordinò il ritiro delle ultime legioni, nessuno ha più ascoltato il nostro lamento. Solo San Germano, quel sant’uomo, ebbe l’ardore di venire in nostro aiuto. Ahinoi, egli è spirato anni fa. Potremmo mai sperare nella tua intercessione, sacro augusto?»

    Quando si rese conto di quanto gli era stato chiesto, Massimo trasalì. Tutto era andato incredibilmente liscio sino a quel punto.

    Appunto, troppo.

    In una frazione di secondo, tutto minacciava di crollare. Se non avesse saputo garantire a quei Britanni un appoggio concreto, il rischio di essere smascherato per il brigante che era si sarebbe fatto amara realtà. Per guadagnare tempo, bevve una lunga e studiata sorsata di vino. Spalle al muro, fu costretto a ricorrere al suo istinto di sopravvivenza. Una qualità riservata a pochi eletti, e che lui aveva affinato in una vita di espedienti, ruberie e violenze.

    La soluzione giunse a lui improvvisa, colpendolo come un fulmine.

    Cancellando ogni paura e incertezza con una decisione tale che non esitò minimamente a esporla.

    «Sarò lieto d’intercedere per voi» disse d’un fiato. «Possiedo ancora molti contatti in Italia, grazie ai buoni uffici del mio defunto padre. Se portato da me, il vostro appello non sarà ignorato. Fate in modo di redigerlo nel modo più convincente possibile, e secondo i protocolli. Ma nel frattempo, dovremo comunque iniziare a combattere».

    I ringhi sommessi dei suoi colossali barbari chiusero quell’encomiabile via di fuga aperta a parole. Annuendo radiosi, gli aristocratici mormorarono parole d’assenso al decurione.

    Questi apparve prossimo alle lacrime, e corse a chiamare gli scribi.

    Massimo sorrise, cercando di contenere la gioia.

    Un’idea geniale. Quell’appello, che senz’altro avrebbe fatto menzione di lui, sarebbe stato tremendamente pericoloso. Una minaccia tale da richiedere misure estreme. Come una requisizione. Perché di questo si sarebbe trattato.

    Appropriatosi di quel messaggio, dopo aver finto di affidarlo a un suo messo, l’avrebbe fatto sparire. Nel frattempo, avrebbe ottenuto appoggio e nuovi finanziamenti in altre città. Infine, avrebbe annunciato tristemente la mancata risposta dall’Italia.

    Questo gli avrebbe permesso di ergersi a eroe e unico sostenitore degli sventurati Britanni. All’impero sarebbe spettata l’infamia, mentre lui avrebbe accresciuto le fila dei suoi leali sudditi.

    «Lunga vita al nostro Cesare, salvatore della Britannia!» esclamò un anziano dalla lunghissima barba ingiallita.

    «Lunga vita a Cesare! Ave! Ave!»

    Divertiti, i barbari si unirono al brindisi. Massimo, ora calatosi appieno nel ruolo di augusto illuminato e magnanimo, annuì socchiudendo gli occhi. Una vigorosa stretta, però, lo riscosse. Riaprendo gli occhi, trovò sotto di sé nientemeno che il decurione. Questi, accantonato ogni pudore, baciò un lembo di quella porpora rubata tra gli applausi dei presenti.

    Sgomento, Massimo dimenticò anche di essere stato chiamato augusto per tutto quel tempo. A sbalordirlo fu come le apparenze avessero conquistato tanto facilmente uomini pur avvezzi alla politica e tutt’altro che ignoranti.

    Quando l’atto di sottomissione fu finito, accarezzò appena il fine tessuto che lo ricopriva. Rifletté su quanto era accaduto.

    Forse non tutto il merito era stato suo.

    Perché quegli uomini non erano degli stolti, né degli illusi.

    Era stata la stessa porpora, l’emblema della dignità imperiale rediviva, a soggiogarli. Coprendosi la bocca, si disse che era così.

    Non l’avrebbe mai più svestita. Per nessuna ragione al mondo.

    VII

    Ordine supremo

    Dintorni di Anderida, Ottobre 451 d.C.

    «Sono quello che penso?»

    «…e cos’altro potrebbero essere?»

    Riotamo disse quelle parole a denti stretti, le mani serrate sulle briglie. Davanti a lui e Ambrosio Aureliano era la città di Anderida.

    Isolata nella prateria spazzata dal vento, apparentemente avvolta da una surreale quiete. Ad attrarli, però, era lo spettacolo poco lontano da essa. Una nube di polvere si era sollevata a Occidente, diretta presumibilmente verso le coste. Centinaia, o forse migliaia di uomini a cavallo stavano lasciando il perimetro cittadino, scandendo il loro passaggio con canti rauchi e sinistri.

    Barbari. Riconoscerli era ormai tristemente facile, per loro.

    I soldati Britanni alle spalle dei generali osservarono in silenzio, stretti l’un l’altro. Una tacita apprensione si sparse tra di essi, nella consapevolezza di potersi battere da un momento all’altro.

    Una cosa però colpì i due. Rispetto al solito, quei selvaggi non si erano lasciati dietro roghi o cumuli di cadaveri.

    Un comportamento fin troppo civile per i loro usi.

    Ambrosio si lisciò l’ispida barba chiara, poi socchiuse gli occhi.

    Avessero atteso ancora, si sarebbero fatti sfuggire l’opportunità di fermare i predoni. Ogni attimo perso avrebbe potuto fare la differenza. Eppure, sentì di dover rendere conto alla sua indole.

    Quella di un uomo nobile, più filantropo che combattente.

    «Non possiamo lasciarli andar via» mormorò.

    Non meno teso, Riotamo tacque mentre scrutava l’ignoto.

    Con la barba rossa e incolta rassomigliava a un antico signore del fuoco, una potenza arcaica capace di dominare gli elementi.

    Solo Dio sapeva quanto avrebbe voluto massacrare i barbari con le proprie mani. Uno dopo l’altro, sprofondando in un bagno di sangue e inebriandosi col dolce gusto della più sadica vendetta.

    Ma per quanto amasse la guerra, questa non poteva sempre essere l’unica soluzione. E come lui, anche Ambrosio lo sapeva.

    «Il tuo coraggio ti fa onore, amico mio» disse Riotamo. «Ma so bene cosa tu desideri davvero. Nondimeno, dobbiamo rispettare gli ordini di Owain. Egli è stato molto chiaro».

    Ambrosio chinò il capo, quasi divertito. Era raro che Riotamo riuscisse a sopraffare il suo ardore, scegliendo la ragionevolezza.

    «Proteggere e poi lottare» disse sommessamente.

    «Proprio così» confermò Riotamo, sfoggiando un sorriso sicuro di sé. «Prima prendiamoci cura dei Britanni, poi daremo una lezione a quei primitivi. So che sei un valoroso, quindi non hai nulla da dimostrare. E credo che anche Owain sarebbe d’accordo con me. Quindi ci divideremo i compiti. Io andrò appresso ai barbari, e tu ti sincererai che i cittadini di Anderida siano rimasti illesi. In tal caso, offrirai loro la nostra protezione.

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