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Il segreto di Sibrium
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E-book584 pagine8 ore

Il segreto di Sibrium

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Info su questo ebook

Nel 773 d.C., dopo secoli di rapporti contrastati, tra Longobardi e Franchi è giunta l’ora della resa dei conti: re Desiderio e il figlio Adelchi si trovano a fronteggiare l’astro nascente di Carlo, chiamato in Italia da Papa Adriano a difendere i territori della Chiesa.
Dopo il fallimento della diplomazia, e prima che la parola passi alle armi, è il tempo degli intrighi e delle spie. Liutgardo, il giovane gastaldo di Sibrium, è incaricato di compiere una delicata missione, che lo porterà lontano dalla sua fortezza, all’interno della quale si cela un segreto, in grado di stravolgere la sua vita e forse le sorti della guerra.
L’odio, il rancore e il desiderio di vendetta, retaggio di popoli da poco usciti da una lunga barbarie, si mescolano a intensi sentimenti d’amicizia, d’amore, di fedeltà e di senso dell’onore, sullo sfondo dell’angosciosa attesa di uno scontro finale.
 
LinguaItaliano
Data di uscita10 feb 2020
ISBN9788832144383
Il segreto di Sibrium

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    Anteprima del libro

    Il segreto di Sibrium - Alessandro Cuccuru

    stagioni.

    PROLOGO

    Ponte sul fiume Livenza, domenica 3 marzo 776 d.C.

    Eccolo, è lui.

    Ancora non riesco a scorgere il luccichio della sua corona da battaglia, ma distinguo bene lo stendardo con il titolo infame che quel bastardo, usurpatore figlio di usurpatori, ci ha fatto ricamare sopra con il suo bel filo dorato. Da questa distanza non posso leggerlo, ma so benissimo cosa c'è scritto:

    Gratia Dei Rex Francorum et Langobardorum .

    Maledetto!

    Non mi dà fastidio il fatto che si sia attribuito da solo il diritto di comandare sulla mia gente: da sempre re e imperatori sconfiggono o sono sconfitti, e i popoli che li seguono devono sottomettersi a nuovi capi. No, ciò che davvero mi offende è quel Gratia Dei. Per tramite di chi costui ha appreso di avere la benedizione dell'Eterno? Forse in virtù dell'intercessione di quell'altro bugiardo di Adriano, degno compare delle sue losche trame?

    Cosa non darei per infilargli quel prezioso pezzo di stoffa giù per la gola, insieme a tutta l'asta che lo regge!

    Ma guardalo lì, circondato dai suoi dodici valorosi paladini: non permette a nessuno di avvicinarlo a meno di tre passi di distanza! Anche questa volta si godrà lo spettacolo del sangue da una posizione sicura, ben al di là del doppio della gittata di una freccia.

    Non è certo il tipo di re che condivide i rischi, le fatiche o il cibo con i propri soldati. No, lui mangia sempre come un maiale, fregandosene se i suoi soldati hanno la pancia piena o meno, e chissà quanto deve essergli costato attraversare le montagne d'inverno per tornare qui a punire questi pochi ribelli traditori. Perché è proprio così che ci ha definito: ribelli traditori.

    E perché mai? Solo perché abbiamo deciso di dire basta ai suoi soprusi e alle sue angherie? Solo perché ci arroghiamo il diritto di continuare a vivere da uomini liberi su una terra che ci appartiene ormai da più di due secoli? Una terra che noi abbiamo contribuito a far rinascere e che nel contempo ha reso noi uomini migliori di quanto i suoi Franchi potranno mai diventare?

    Ribelli traditori...

    Eppure ci teme.

    Sì, quell’ arga [¹] ha paura di noi.

    Se così non fosse, non avrebbe lasciato perdere i Sassoni, per precipitarsi in fretta e furia a chiudere i conti qui, dove ha stabilito debba espandersi il suo nuovo regno.

    Maledetto!

    Giuro su san Michele Arcangelo che gliela farò pagare!

    Sì, gliela farò pagare anche per quello che ha fatto a lei , alla nostra principessa, alla mia principessa. L'ha disonorata, perché era consapevole che di fronte a quella donna tutto il suo potere, tutte le sue ricchezze, tutti i suoi castelli valevano meno dello sterco di una capra appestata.

    Non mi importa quanti guerrieri ci saranno a difenderlo o quanto sarà spesso il metallo della sua corazza: prima che cali il sole, la mia lancia assaggerà il suo sangue o questa terra sarà bagnata dal mio.

    Questa terra, dove tutto è cominciato e dove tutto, nel bene o nel male, oggi finirà. Qui, davanti a questo ponte, sulle rive di questo fiume, che segna i confini di quella che fu la culla del nostro regno, si deciderà il destino finale dei discendenti di Alboino: allora combattemmo per conquistare, oggi combattiamo per non essere conquistati.

    Mentre accarezzo la bruna criniera del mio stallone, osservo i cavalieri schierati accanto a me, cercando di intuirne i pensieri. Alla mia sinistra, intravedo la sagoma di Idelprando, duca di Spoleto; alla fine si è pentito per essersi inchinato troppo in fretta di fronte al Papa e oggi è qui per espiare le sue colpe: non appena gli arcieri, dopo aver scagliato i loro dardi, si ritireranno oltre il ponte, i suoi uomini saranno i primi ad affrontare la carica dei temibili catafratti nemici.

    Il mio cavallo è irrequieto, forse avverte la mia impazienza, e a un tratto scarta contro quello del compagno alla mia destra, facendomi sbattere contro il suo scudo. Mi scuso con lui, mentre tiro le briglie, ma non ce n'è bisogno, forse non se n'è neanche accorto: dai suoi occhi capisco che pure lui freme dalla voglia di entrare in battaglia.

    Il mio sguardo corre più in là a cercare colui che oggi ci guida: Rotgaudo, l'anziano duca del Friuli, che ha smesso la veste di monaco per tornare a indossare l'armatura.

    Eccolo, è proprio lì, al centro del nostro schieramento, davanti a tutti gli altri, nonostante i suoi quasi sessant’anni. Si dice che più s’invecchia, più aumenti la paura di morire. È una regola che non vale per chi è in pace con la propria coscienza, è una regola che di sicuro non vale per il nostro condottiero.

    Osservalo, Carlo, osservalo bene, tu che pretendi di farti chiamare re dei Franchi e dei Longobardi: è così che si guida un esercito, è così che si guida un popolo!

    Qualcuno ha già cominciato a chiamarti Magnus, ma solo chi si espone in prima persona, chi vince restando capace di mostrare rispetto per gli sconfitti è davvero grande: tu con noi hai solo finto di averne.

    I nostri nemici di ieri, invece, sono spesso divenuti gli alleati di oggi. Non mi credi? Guarda tra i nostri ranghi, allora: pensi che siamo tutti Longobardi qui? Ti sbagli: gli Italici sono tanti quanti siamo noi e oggi combattono perché lo vogliono, non perché glielo abbiamo ordinato.

    Combattono perché preferiscono noi a te, Carlo.

    Anche noi, quando giungemmo qui dalla Pannonia, eravamo crudeli e spietati nei confronti di chi abitava queste terre; ma la nostra era fame vera, non solo fame di ricchezze e di potere, com'è oggi la tua. E soprattutto noi non pretendevamo di definire noi stessi uno strumento di Dio, quale tu hai la presunzione di essere, anche se poi non ti fai certo scrupolo di combattere nel giorno dedicato a Lui.

    Sei così sicuro di te, sei così convinto di sconfiggerci, che non ti sei nemmeno preoccupato che oggi i tuoi uomini avranno il sole negli occhi. Ci hai lasciato perfino la facoltà di scegliere il campo di battaglia: un errore che uno stratega degno di questo nome non avrebbe mai commesso.

    Ma tu non sei un vero stratega.

    Tu, degno figlio di tuo padre, ottieni le tue vittorie con le spie, i complotti, gli omicidi e i raggiri, prima che con le armi. E il bello è che spesso, troppo spesso, ci hai costretto a giocare la partita nel tuo stesso modo, con i tuoi stessi mezzi.

    Oggi però le cose andranno diversamente.

    Oggi saranno solo le armi a decidere.

    Non è più tempo d’inganni, parola mia.

    Parola di Liutgardo.

    I

    Sibrium, lunedì 26 aprile 773 (tre anni prima), ora quarta

    Appoggiate con le spalle alle colonne che reggevano l'arco sotto il torrione principale della fortezza, le due guardie si resero conto solo all'ultimo momento dell'arrivo del loro superiore e cercarono di darsi una postura più marziale, raddrizzando le lance. L'uomo se ne accorse e regalò a entrambi un bonario sguardo di rimprovero. Non disse nulla e passò oltre, attraversando in fretta il ponte sul fossato, diretto verso le case del borgo.

    In un'altra occasione a quei due sarebbe toccata una bella ramanzina, forse anche una punizione, ma non era il caso di essere rigidi quella volta. Non esisteva un pericolo imminente e il giorno in cui il nemico davvero si fosse presentato davanti a quelle mura, avrebbe voluto dire che tutto era perduto e che il regno era ormai finito.

    Per sempre.

    Di due cose infatti era certo. La battaglia si sarebbe combattuta altrove. E sarebbe stata l'ultima. Da troppi decenni, per non dire da secoli, i rapporti con loro erano ambigui: prima nemici, poi alleati, poi di nuovo nemici, poi di nuovo alleati. Due popoli che in ogni caso non si erano mai fidati l’uno dell’altro.

    Basta.

    I prossimi mesi sarebbero stati cruciali per stabilire una volta per tutte chi aveva il diritto di vivere e comandare su quelle terre.

    Mentre camminava immerso in questi pensieri, le due sentinelle alle sue spalle, ormai certe che non potesse più sentirle, si davano la colpa a vicenda.

    «Ehi, Gumperto, accidenti a te!» sbottò il più anziano, «non potevi avvisarmi che stava arrivando il gastaldo [²] ?»

    «E perché allora non hai avvisato tu me, Adelardo? Va bene che sei vecchio, ma se ti mettono ancora di guardia, vuol dire che la tua vista funziona!»

    Il veterano gli fece un gestaccio con la mano e sputò a terra.

    «Vecchio io? Sarei in grado di batterti anche con un braccio legato dietro la schiena! Tu non hai mai combattuto una guerra vera e il giorno in cui ti dovesse capitare, spero proprio di non averti vicino: te la faresti addosso dalla paura e a me toccherebbe sopportare la puzza del tuo piscio!»

    Il giovane non rispose, limitandosi a scrollare le spalle, ma Adelardo aveva ancora voglia di sfogarsi.

    «Comunque in questo momento preferirei stare su un campo di battaglia, piuttosto che impalato qui sotto questo torrione. Proprio non capisco che ci stiamo a fare. Le due ante del portone di giorno restano spalancate e c'è sempre un andirivieni di gente, che sembra di essere nella capitale nei giorni di fiera. Ci passano perfino i carri, avanti e indietro, su questo cazzo di ponte!»

    Come se avesse sentito le sue parole, proprio in quel momento un barroccio a due ruote, trainato da un mulo e in uscita dal castrum, si fermò a pochi passi da loro. L' aldio [³] che era alla guida attese paziente un cenno di assenso. L'anziano guerriero annuì con un grugnito: non c'era nulla da controllare, perché il conducente aveva già provveduto a consegnare il suo carico di fieno per i cavalli della guarnigione. Il veicolo transitò lento sul ponte, facendo scricchiolare le tavole al suo passaggio.

    Adelardo, anche per vincere la noia, continuò il dialogo col compagno dal punto in cui era stato interrotto.

    «A proposito di Ticinum [⁴] , l'hai mai vista tu, la nostra capitale?»

    Gumperto scosse il capo.

    «No? Davvero? Non ci sei mai stato? Non sai cosa ti perdi, amico mio! È splendida, sai, è proprio splendida. Non solo il palazzo del re, le chiese, ma tutto il resto, le case, le strade, i vicoli: tutto è bellissimo. E le mura... Dovresti vederle, quelle mura. Sono altissime, molto più di queste, e massicce: nessuno sarà mai in grado di conquistarle.»

    «Già, noi siamo bravissimi, quando si tratta di rifugiarci dietro le mura» lo interruppe il giovane.

    L'anziano lo guardò torvo, stringendo con rabbia l'asta della lancia: un conto era offendere lui, un conto il popolo al quale entrambi appartenevano.

    «Che intendi dire, ragazzo?»

    «Nulla, solo che fino a oggi loro in campo aperto ce l'hanno sempre suonate.»

    «Se ti riferisci alle vittorie di Pipino, le ha ottenute con l'inganno: mentre ci tendeva una mano, nell'altra nascondeva la spada, quell'arga! Stavolta le cose andranno in modo diverso, vedrai.»

    «Ah sì? E cosa te lo fa pensare? Cosa ti fa credere che il figlio sarà migliore del padre? Mi pare che si stia comportando anche peggio di lui. Con la nostra principessa, per esempio...»

    No, questo era davvero troppo!

    Adelardo appoggiò la lancia alla parete e fece tre passi avanti in direzione del compagno, serrando la destra sull'impugnatura dello scramasax [⁵] che cingeva al fianco e portandosi proprio al centro del passo carraio:

    «Zitto!» gli intimò, agitandogli l'indice della sinistra sotto il naso. «Zitto, se non vuoi che ti tagli quella maledetta linguaccia. Non osare più parlare della nostra principessa senza esserti prima sciacquato la bocca con l'aceto, hai capito?»

    Gumperto annuì con un impercettibile movimento della testa. Non si aspettava una reazione del genere dal commilitone, solo per aver tirato in ballo una vicenda che ormai da mesi era sulla bocca di tutti. Quella ferita però bruciava ancora all'onore dei Longobardi e forse a quello di Adelardo in modo particolare.

    «Scusami, amico. Io stimavo la figlia di Desiderio quanto la stimavi tu: non volevo offenderne la memoria.»

    L'altro intanto aveva ripreso la propria posizione e la propria lancia, in silenzio.

    Il giovane cercò in qualche modo di rimediare alle sue frasi precedenti:

    «Hai ragione tu: vedrai che questa volta gliela faremo vedere noi, ai Franchi. Questa volta non ci faremo trovare impreparati. Se Carlo passerà le Alpi, troverà una degna accoglienza e magari anche una degna sepoltura!»

    Adelardo non rispose: non aveva più nulla da dire a quello stronzetto e rimase muto fino alla fine del loro turno di guardia.

    Ignaro di questo scambio di vedute, il gastaldo nel frattempo aveva quasi raggiunto la propria meta e, dopo essersi fermato a salutare alcuni arimanni [⁶] a cavallo, di rientro da un pattugliamento nella zona, stava percorrendo a passo spedito la piccola salita che portava alla chiesetta edificata fuori dalle mura, all'estremità settentrionale del pagus [⁷] .

    Si trattava di un piccolo edificio con pianta a croce, costruito con pietre, mattoni e altri materiali di recupero, con l'unico ingresso rivolto a ponente e l'abside a levante.

    Non aveva mai capito perché al nonno, quando tanti anni prima aveva deciso di svestire l'armatura per indossare l'abito monacale, fosse venuta la balzana idea di tirar su quell'affare: all'interno del castrum esisteva già una basilica a tre navate, più che sufficiente a ospitare tutti i fedeli della zona. All'epoca lui era ancora un bambino e si era divertito un mondo a veder crescere, giorno dopo giorno, le strutture di quella che lui pensava fosse una casa, dove era convinto sarebbe andato ad abitare con tutta la famiglia. Si ricordava benissimo di quando era stato posato l'architrave principale del tetto e di quanti uomini, di quanta fatica era stata necessaria, per posizionare quel gigantesco tronco di castagno a un'altezza che allora gli pareva esagerata.

    Quello che adesso invece davvero gli pareva esagerato era tutto quello spreco di risorse e di energie: la sua gente avrebbe dovuto preoccuparsi di ben altre questioni, se voleva continuare a esistere; ma questo al nonno non l'avrebbe più ripetuto. In passato avevano spesso discusso della questione, scoprendosi sempre su sponde opposte e non riuscendo mai a trovare un punto d'accordo. E poi quel giorno non toccava a lui parlare, quel giorno era lì per ascoltare. Il vecchio, subito dopo la messa del giorno prima, gli aveva detto che doveva rivelargli delle cose importanti, molto importanti, aveva specificato.

    Non appena varcato l'ingresso, le narici del gastaldo furono invase dall'odore della calce fresca, usata per intonacare l'abside di fronte a lui. In realtà si trattava solo di un primo leggero strato superficiale, giusto per dare una sporcata a sassi e mattoni e consentire al pittore bizantino incaricato delle decorazioni di eseguire i suoi primi schizzi sulla parete ricurva. Solo in una fase successiva, quando sarebbe giunta l'ora di realizzare gli affreschi finali, sarebbe stato steso l'intonaco definitivo.

    Proprio in quel momento l'artista era al lavoro sulla parte destra dell'abside, ritto in piedi su un trabattello di legno alto cinque o sei piedi, e stava disegnando con un pezzo di coccio appuntito quello che aveva tutta l'aria di essere un mulo, o un asino, o forse un cavallo: ancora non era possibile stabilirlo. Ciò che invece il funzionario regio, da esperto cavaliere qual era, capì all'istante fu che in quel disegno c'era qualcosa che non andava.

    Stava per aprir bocca e dire la sua, quando il nonno gli venne incontro a braccia spalancate:

    «Liutgardo, figliolo: finalmente sei qui!»

    « Finalmente? Mi hai detto solo ieri di passare a trovarti e manca ancora molto al meridio. Cosa pensavi? Che sarai venuto qui al canto del gallo? Ho anche altre faccende da sbrigare, io!» gli disse sorridendo e abbracciandolo a sua volta.

    «Hai ragione, hai ragione. È che noi vecchi dormiamo pochissimo e ci alziamo prestissimo e mi sembra di essere in piedi da non so quanto tempo... ma vieni» e indicò una panca vicina all'ingresso, lontana dalle orecchie del pittore greco, «andiamo a sederci e raccontami un po' come vanno le cose.»

    «Io raccontarti? Mi pareva che tu dovessi dire qualcosa a me. Qualcosa di importante, anzi di molto importante, mi hai detto.»

    «Sì, sì, ma questo non significa che pure tu non possa parlarmi un po' di te. In fondo sei tu oggi quello che conta, sei tu il braccio destro di Desiderio!»

    Aveva pronunciato le ultime parole senza nascondere il proprio orgoglio, battendogli forte una mano sulla coscia, dopo essersi accomodato alla sua sinistra sulla panca. Liutgardo osservò i suoi occhi lucidi, dello stesso azzurro intenso che brillava nei propri, e poggiò con dolcezza la mano sulle nocche nodose del vecchio.

    «Andiamo, Rodeperto» l'aveva sempre chiamato col suo nome, perché al padre di suo padre non era mai piaciuta la parola nonno, «Desiderio non ha alcun bisogno di un braccio destro, perché ha già suo figlio Adelchi e per questo motivo ha deciso di associarlo al trono: noi non abbiamo un re e un principe, ma due re, lo sai. Comunque, quel braccio destro non potrei essere io: ci sono uomini più importanti e più valorosi di me nel regno.»

    «Più importanti? Forse. Più valorosi? Non credo. In ogni caso tu sei il gastaldo più giovane di tutta la Langobardia Maior [⁸] e per me anche il più in gamba.»

    «Solo per il fatto che comando Sibrium?»

    «Non solo perché lo comandi, ma soprattutto per come lo comandi. E poi la tua autorità non si limita alla fortezza: tu hai la giurisdizione su tutto il territorio che ci circonda, che è vastissimo.»

    «Non poi così vasto» replicò il nipote «e comunque non così importante come poteva essere un tempo. Ormai le strade che presidiamo hanno perso gran parte del loro valore strategico e credo che presto altri arimanni se ne andranno altrove a cercar fortuna, come hanno già fatto molti dei loro compagni.»

    I due rimasero in silenzio a lungo, pensando a come le cose cambino in fretta e quasi mai nel modo in cui uno si aspetta. Nella chiesetta si udiva solo il raschiare del pezzo di coccio del pittore sulla parete dell'abside.

    Fu Rodeperto a riprendere il discorso.

    «Mi hanno detto che il re ti ha convocato a Ticinum.»

    Liutgardo sgranò gli occhi.

    «Veramente la notizia doveva restare riservata, ma immagino che tu, nonostante non ti allontani mai da queste quattro mura, abbia orecchie ovunque. Sì, sono stato convocato, ma se mi hai fatto venire qui per chiedermi di cosa vorrà parlarmi Desiderio, hai sprecato il tuo tempo: non lo so neppure io.»

    «No, non è di questo; ma ho come il presentimento che vorrà affidarti una missione importante e, se ho ragione, vorrei che tu fossi messo al corrente di alcune cose che riguardano il tuo passato. Credo di aver aspettato troppo a dirtele e ora ho paura che, se tu stessi via per molto tempo, potrei non avere più l'occasione di farlo...»

    «Ma cosa dici, Rodeperto? Tu camperai ancora cent'anni!»

    «Mi sento ancora un leone nell'animo, caro figliolo; ma il mio fisico comincia ad accusare il peso di tutte le battaglie, e non mi riferisco solo a quelle di lancia e spada, oltre che di tutte le privazioni al quale l'ho sottoposto: sento che sta per arrivare il momento di restituirlo al Padreterno.»

    «Non prima di aver visto la fine di quegli affreschi, però!» gli disse il nipote per rincuorarlo, indicando dritto di fronte a loro.

    «Ah, certo! Non prima.»

    «A proposito del pittore» gli bisbigliò all'orecchio Liutgardo, «mi pare proprio che quel cavallo...»

    «Lascia stare il cavallo, che poi è un asino» lo interruppe Rodeperto con un tono divenuto d'improvviso autoritario, «e ascolta quanto ho da dirti.»

    Il gastaldo sollevò entrambe le mani in segno di resa.

    «Sono tutto orecchi!»

    II

    Sibrium, torre orientale, ora quinta

    Le tre monache attraversarono in silenzio e a passo veloce la corte, dirette al loro alloggio, che sorgeva a ridosso della cripta, dove durante il giorno trascorrevano la maggior parte del tempo in preghiera.

    La loro dimora era costituita da due piccoli locali, appena rischiarati da un paio di finestrelle, rivolte a settentrione e collocate in alto, sotto un solido tetto di legno impeciato, al centro del quale un piccolo foro consentiva l'uscita del fumo. Addossata alla parete occidentale, all'esterno, era stata scavata anche una latrina, nascosta alla vista da una griglia di vimini, affinché le donne non fossero costrette a servirsi di quella destinata ai soldati, rendendo ancor più difficile quella già problematica convivenza.

    Si trattava di una sistemazione provvisoria, tirata su in tutta fretta solo pochi mesi prima, quando il terzetto aveva fatto il suo inatteso ingresso nella parte bassa del castrum, scortato dal gastaldo di Br ixia [⁹] , Rachimundo, e dai suoi uomini.

    A differenza del collega e amico Liutgardo, costui non reggeva le sorti di quella judicaria [¹⁰] , dove invece comandava un duca: adempiva però a funzioni di controllo per conto di Desiderio, del quale aveva l'incondizionata fiducia. Era dunque ovvio che per quella delicata missione, portata a termine alla fine dell'autunno precedente, il sovrano si fosse rivolto proprio a lui.

    Prima di richiudersi la porta alle spalle, l'ultima delle monache, la più giovane, lanciò da sotto il cappuccio della propria tunica una fugace occhiata al decano [¹¹] , che la fissava dalla sua postazione, proprio sopra il passo carraio. Non appena sparì dalla vista, l'uomo scosse il capo: quella faccenda proprio non riusciva a digerirla e tanto meno poteva accettare gli sviluppi ai quali avrebbe condotto. Il suo gesto non sfuggì alla sentinella al suo fianco, che gliene chiese spiegazione:

    «Qualcosa non va, Valperto?»

    «Sì. Tutto» rispose secco l'ufficiale.

    La guardia non fece altre domande, consapevole che il superiore prima o poi avrebbe continuato a parlare di sua iniziativa, se non altro per dar sfogo alle proprie preoccupazioni.

    E così accadde:

    «Tutto non va, ragazzo. Prima ci ordinano di costruire quel cavolo di alloggio, senza darci spiegazioni. Poi arrivano qui quelle tre, sempre senza che nessuno ce ne sveli il motivo. Ma dico: va bene che sono monache, ma sono pur sempre donne, qui, in mezzo a una ventina di soldati! Ordine del re!, mi ha detto il gastaldo. E va bene dico io, sia fatta la sua volontà. Ma per quanto tempo? Non si sa, la sua risposta. Hai capito? Non si sa. E se non lo sa lui, figuriamoci se posso saperlo io! Ma non è tutto...»

    «Perché? Cos'altro ci sarebbe?»

    «Te lo dico senza girarci intorno: pare che presto dovremo sloggiare da questo posto. Le monache potrebbero essere solo la prima avanguardia di un nutrito gruppo di consorelle. La grande torre e i nostri alloggi saranno la sede di un nuovo convento, caro mio, come se già non ce ne fossero abbastanza, di chiese e di conventi, disseminati per tutto il regno in lungo e in largo!»

    La sentinella si scostò i lunghi capelli biondi dall'orecchio sinistro, credendo di non aver capito bene:

    «Che cosa? Un convento? Qui? E chi presidierà la strada lì sotto, chi controllerà il ponte sul fiume al posto nostro?»

    Valperto si levò l'elmo, grattandosi il capo: il sole di fine aprile cominciava a scaldare più del dovuto. Poi rivolse uno sguardo di comprensione al proprio subalterno.

    «Beh, è inutile negarlo: la strada che viene da Comum in questi ultimi anni è molto meno battuta di quanto non fosse un tempo. Sì, è vero, passano ancora parecchi mercanti con la loro roba; ma è piuttosto difficile che ancora ci marceranno sopra degli eserciti. La minaccia, lo sappiamo bene, ormai ce la dobbiamo aspettare da un'altra parte» disse indicandogli l’occidente con un cenno della testa.

    «I Franchi?»

    «E chi altri, se no?»

    «Ma allora dovremo abbandonare anche la parte superiore del castrum...»

    «No, quella non credo proprio. Quella rimarrà sempre troppo importante, per lasciarla a qualcun altro. Però guarda bene le mura che ci uniscono a lei: non vedi come sono malridotte? In alcuni punti sono già crollate per quasi metà della loro altezza originaria! Come potremmo difendere dei manufatti in quello stato? E per rimetterli in sesto ci vorrebbe troppo tempo, troppi uomini e anche troppo denaro.»

    La guardia restò in silenzio, facendo scorrere il proprio sguardo, prima sul lato sinistro e poi su quello destro, lungo il ripido pendio che conduceva alla parte alta della fortezza. Sì, quei due strani serpenti di pietra somigliavano sempre meno a delle mura.

    «Credimi» proseguì il decano, «neppure a me piace l'idea di dovermene andare: dopo tutti gli anni passati qui, sono affezionato a ogni singolo sasso con cui è stato costruito questo posto; ma non siamo noi a poter prendere decisioni: quelle spettano ai nostri capi e a volte nemmeno a loro. Già, ragazzo, neppure loro, così forti e così potenti, sono padroni del proprio destino, che è sempre nelle mani di Dio. E sai che ti dico? Forse fanno bene quelle tre femmine a pregarlo dalla mattina alla sera, perché è da Lui che tutto dipende.»

    Non disse altro. Si rimise l'elmo, voltandosi a guardare in silenzio il fiume che scorreva impetuoso nella valle ormai verde, gonfiato dalle abbondanti piogge primaverili. Lo scrosciare continuo delle sue acque copriva quasi del tutto il canto degli uccelli e lo stormire delle fronde degli alberi, agitate da un vento leggero.

    Regnava il silenzio, intanto, nei due locali delle monache.

    Il primo, quello più a ovest, dove si apriva l'unico ingresso, era destinato alle incombenze quotidiane, come lavarsi, mangiare, leggere e scrivere. Il cibo però veniva quasi sempre cotto all'esterno, da parte dei soldati del presidio, e al limite riscaldato su un focolare addossato alla parete nord, che d'inverno aveva anche la funzione di intiepidire un po' l'ambiente. Per riscaldare invece il secondo locale, comunicante con il primo attraverso un'angusta apertura ad arco priva di porta, al centro era stato collocato un braciere di bronzo, che veniva utilizzato di rado, perché qui le donne dormivano e basta, coperte d'inverno da pesanti coltri di pelliccia. Due letti erano appoggiati al muro lungo il fianco, a destra e a sinistra dell'ingresso. Il terzo si trovava per conto proprio, addossato alla parete opposta e nascosto da una spessa tenda scura, appesa alle travi del tetto, che tagliava in due l'ambiente.

    Non appena la giovane monaca ebbe chiuso l'uscio alle proprie spalle, le altre due, dopo essersi inchinate, le andarono incontro per aiutarla a spogliarsi, ma lei le bloccò con un perentorio gesto della mano.

    «Non è necessario, sorelle: posso fare da sola.»

    La più anziana delle due provò a protestare.

    «Ma, Erm...»

    Non riuscì a terminare la parola, perché la giovane le aveva chiuso le labbra con l'indice della mano destra.

    «Non pronunciare quel nome: la donna che lo possedeva è morta, non esiste più! Abituati a chiamarmi con il nuovo nome che io stessa mi sono scelta: Giulia.»

    «Ma è un nome latino!»

    «È comunque un nome regale» intervenne la terza monaca, nel tentativo di alleggerire la tensione che si stava creando, beccandosi un'occhiataccia di rimprovero da parte dell'anziana, che mal sopportava la superiore erudizione delle altre due.

    La giovane stroncò sul nascere un possibile battibecco tra le compagne, invitandole a sedersi su una delle due panche che erano sistemate lungo un tavolaccio di legno, posto al centro della stanza. Lei fece per sedersi a sua volta dall'altra parte, ma alla fine preferì rimanere in piedi, continuando a esprimere ad alta voce le proprie riflessioni.

    «È un altro nome, punto e basta. Non è necessario che conosciate le ragioni per cui l'ho scelto; ma soprattutto non è il caso che cominciate a discutere tra di voi se sia un nome adatto a me , oppure no. Oltre a Rachimundo, a mia sorella Anselperga e a mio padre, siete le uniche due persone al mondo a conoscere la mia vera identità, e come loro avete giurato sui Vangeli, oltre che sui vostri avi, di portare questo segreto con voi nella tomba: confido che saprete tener fede a tale giuramento. Nemmeno mia madre, le mie sorelle di sangue e il mio adorato fratello sanno che sono viva e che sono qui. Ogni giorno piangono la mia morte e il dolore che provano non è neppure la metà di quello che provo io, al pensiero che non potrò mai più rivedere nessuno di loro.»

    Da una manica della tunica estrasse una pezzuola di lino, per asciugarsi le lacrime che stavano cominciando a rigarle il viso. Le compagne si alzarono per confortarla, ma lei, che nel frattempo si era portata dall'altro lato del tavolo, le fermò, mettendo a entrambe una mano sulla spalla, per costringerle a rimanere sedute.

    Terminò di asciugarsi le gote e riprese.

    «Fino a oggi, a causa dell'inverno, siamo quasi sempre state per conto nostro, chiuse tra queste quattro mura, e perciò non c'era bisogno che vi facessi una raccomandazione del genere. Ma da ora in poi, ovunque ci troviamo, sia sole sia in pubblico, voi mi tratterete come una di voi, come una vostra pari... Anzi, che dico? Mi tratterete come l'ultima arrivata, perché è proprio quello che sono: l'ultima arrivata. Toccheranno a me le incombenze più gravose e i lavori più umili, esattamente come accade in tutte le altre vostre comunità.»

    Di nuovo la più anziana provò ad opporsi.

    «Ma voi non avete fatto voto di castità come noi, e poi voi restate sempre...»

    E di nuovo la giovane la interruppe.

    «Basta con questo voi!» l'apostrofò in modo brusco. La sua voce però tornò subito al tono gentile che le era consueto: «Ma non capisci, Gumperga, che non puoi comportarti con me in modo diverso qui, rispetto a quando siamo fuori, in mezzo ad altre persone? È solo questione di tempo: prima o poi finiresti con il fare confusione, finiresti col tradirti, col tradire me.»

    Le carezzò con dolcezza il capo e poi si rivolse all'altra:

    «Vale anche per te, Ranigunda. D'ora in poi, niente più voi e niente più inchini, nemmeno quando siamo sole, intesi?»

    La monaca annuì silenziosa.

    La giovane andò a sedersi davanti al tavolo, sulla panca opposta a quella in cui stavano le due donne, fissandole con i suoi grandi occhi verde smeraldo. Sul viso, anche con la poca luce che filtrava dall'alto, erano ben visibili i dolorosi segni di una breve ma difficile esistenza, travolta dal peso di responsabilità troppo gravose. Si tirò indietro il cappuccio, scoprendo i corti capelli color rame, tagliati in modo così disordinato, che perfino l'ultimo dei servi si sarebbe vergognato a mostrarsi in giro conciato in quel modo: le coprivano appena le orecchie e le lasciavano libera una fronte pallida come la luna d'inverno.

    Per un tempo che parve interminabile nessuna di loro aprì bocca, poi fu sempre lei a riprendere il discorso.

    «Riguardo al voto di castità di cui parlavi prima, Gumperga, hai ragione: io non l'ho fatto, ma puoi star tranquilla che nessuna mano d'uomo toccherà mai più la mia pelle. Mai più. Non sono una monaca come voi, questo è vero, e nemmeno intendo diventarlo. Ho troppo rispetto per chi compie una scelta come la vostra, per potermi mettere al suo livello. La mia fede si è smarrita lungo la dolorosa strada che ho dovuto affrontare; però una cosa ve la posso garantire: ho deciso di condurre la vostra stessa vita e sono sicura che sarò in grado di farlo. Tutto il resto del mondo crede che io non esista più, io stessa credo di non esistere più. Infatti oggi qui, davanti a voi, esiste solo Giulia. L'altro nome dovete cancellarlo per sempre, dalla vostra bocca, dalla vostra mente, perfino dai vostri sogni. Non ve lo posso ordinare, perché non ho più alcuna autorità per farlo; quindi ve lo chiedo dal profondo del cuore: scordatevi per sempre di quella che ero.»

    Calò ancora un lungo silenzio.

    Alla fine pensò Ranigunda a togliere tutte e tre dall'imbarazzo, alzandosi di scatto dalla panca:

    «Bene, Giulia» le disse con un largo sorriso, venutole fuori da chissà dove, «visto che sei la più giovane, toccherebbe a te andare a vedere quale disgustoso intruglio i nostri cari soldatini ci hanno preparato oggi per pranzo... ma dato che a tutte le novità, compresa questa, ci vuole un po' di tempo ad abituarsi, lascia che per stavolta ci vada ancora io. Sei d'accordo?»

    La sua istintiva e naturale allegria era contagiosa e Giulia annuì, cercando a fatica di ricambiare il sorriso, mentre Gumperga si alzò a sua volta, ma senza proferir verbo, alla ricerca di uno strofinaccio per pulire il tavolo su cui avrebbero pranzato.

    Mentre camminava a passi lenti avanti e indietro lungo il percorso di guardia sopra le mura, lungo il tragitto che univa il passo carraio al torrione, Valperto notò Ranigunda chiudere la porta dell'alloggio delle monache e dirigersi verso le cucine, proprio sotto di lui.

    Gettò uno sguardo al sole e stabilì che ormai non dovesse mancare molto a mezzogiorno, anche se il suo stomaco sembrava non essersene accorto. Pure lui, come la monaca, era curioso di sapere cosa avrebbero mangiato per pranzo, ma senza preoccuparsi più di tanto: di qualunque porcheria si fosse trattato, un mezzo boccale di vino lo avrebbe aiutato a inghiottirla.

    III

    Alpi Graie, ottanta miglia da Augusta Praetoria, ora quinta

    I due cavalli procedevano a passo lento, affaticati dalla lunga salita, affrontata per raggiungere il valico e cominciata ben prima del sorgere del sole. Gli uomini che li montavano avevano deciso di percorrere al buio le prime e meno pericolose miglia del loro viaggio, per esser certi di arrivare alla vetta prima di qualsiasi altro viandante, pellegrino o mercante che fosse. Si trattava in realtà di una precauzione piuttosto inutile, visto che erano ben pochi i temerari che decidevano di avventurarsi fin lassù, senza la protezione di una consistente scorta armata, che tra l'altro non sempre riusciva a garantire un'adeguata difesa dagli assalti dei copeigorz [¹²] .

    D'un tratto la strada che percorrevano divenne piana e dopo neanche mezzo miglio il cavaliere che era in testa alzò il braccio, facendo segno all'altro di fermarsi. Nonostante l'indolenzimento dovuto a parecchie ore in sella, le sue cosce muscolose e bene allenate gli consentirono di balzare a terra con agilità. Il suo compagno invece, ben più impacciato e corpulento, ci mise parecchio prima di smontare, tenendosi sempre abbracciato al collo dell'animale, per non rischiare di cadere, e scomodando coi propri dolorosi lamenti diversi santi del paradiso.

    Non appena si sentì abbastanza stabile sulle gambe, gettò un'occhiata intorno a sé, per cercare di capire in quale strano posto fosse stato fissato l'appuntamento. Strizzò gli occhi più volte, per tentare di abituare la vista ai fastidiosi riflessi della neve che ancora ricopriva i fianchi delle montagne intorno a lui e buona parte della piccola valle in cui erano giunti; fino a quel momento, per non stancarli, li aveva sempre tenuti bassi, fissi sulla criniera del suo destriero, fidandosi che questi avrebbe diligentemente seguito la coda di quello davanti a lui.

    Quando riuscì a mettere a fuoco parte del paesaggio, rimase basito: «In che razza di posto mi hai portato, Runfrido? Cosa diavolo sono quelle pietre disposte in cerchio? Cosa vogliono dire?»

    Il primo cavaliere aggrottò la fronte.

    «Vedo che non smentisci la fama di ignoranza che precede il tuo popolo, Gelderico: se osservi bene, quello non è un cerchio, ma un'ellisse» rispose seguendo col dito il disegno tracciato dalle rocce.

    «D'accordo, quando avrò bisogno di lezioni di geometria da parte tua, sarà mia cura fartelo sapere. Per il momento ti pago per un altro genere di servigi, uno dei quali è quello di informarmi sui luoghi in cui mi conduci.»

    Runfrido scrollò le spalle e, prima di parlare, bevve un sorso d'acqua dalla borraccia che teneva appesa alla sella.

    «Rispondo alla prima delle tue domande. Il posto dove ci troviamo, in teoria, segna il confine tra quello che è il regno del tuo padrone» gli disse sottolineando con malcelato disprezzo la parola «e i possedimenti di quell’imbecille di burgundo al quale li avete incautamente affidati e al quale io, sempre in teoria, dovrei obbedienza.»

    «Ah sì?» lo interruppe l'altro beffardo. «E allora a chi obbedisci? Chi ti comanda?»

    «Ce l'hai davanti» rispose secco, fissandolo dritto negli occhi. Poi proseguì: «Per quando riguarda invece la tua seconda domanda, quelle pietre si chiamano c romlech. Sono qui dalla notte dei tempi, prima ancora che i Romani sconfiggessero i Galli. È probabile che siano stati proprio questi ultimi a disporli in quel modo. Riguardo al tuo ultimo quesito, relativo al loro significato, non so risponderti. Nessuno può farlo.»

    Gelderico sputò a terra.

    «Non c'è bisogno. Mi rispondo da solo: robaccia da pagani! Mi chiedo perché i Romani non li abbiano fatti a pezzi...»

    Runfrido gli si avvicinò a un palmo dal naso.

    «Te lo dico io, il perché» disse aspro. «Perché loro rispettavano tutte le religioni, comprese quelle dei vinti. Non muovevano guerre con lo scopo, anzi la scusa, di convertire altri popoli, come invece usa fare il tuo padrone» concluse, calcando di nuovo l'ultima parola.

    L'uomo non replicò, pur sapendo che la persona che aveva di fronte avrebbe dovuto tributargli una maggior deferenza: al momento opportuno gli avrebbe fatto pagare la sua arroganza; ma per quella volta preferì cambiare discorso.

    «E la più grande delle altre, lì proprio al centro... Ha un nome pure lei?» gli domandò.

    «Sì, quello è un dolmen» gli rispose il suo accompagnatore con fare distratto, mentre conduceva, tirandola per le briglie, la propria cavalcatura ad abbeverarsi a una pozza d'acqua, a una ventina di passi da dove si trovavano: «Piano!» raccomandò all'animale, «Dev'essere gelata: potrebbe farti male, se la butti giù troppo in fretta.»

    Gelderico lo imitò, trascinando il suo cavallo accanto all'altro. Quando si trovò di fianco alla sua guida, pose la domanda che più gli stava a cuore:

    «Arriveranno?»

    Runfrido si guardò intorno per qualche istante, come se volesse ammirare il paesaggio, poi abbassò il capo a fissare il piccolo specchio d'acqua ai suoi piedi, dove nitido si rifletteva il cielo azzurro, solcato a tratti da nuvole, più bianche della neve che li circondava.

    «Forse sono già qui» rispose quasi sottovoce, senza alzare la testa.

    «Già qui? Com'è possibile? Io non vedo nessuno intorno, e non c'è nemmeno un albero dove potersi nascondere!»

    «Loro non hanno bisogno di alberi...»

    Il gracchiare di un corvo echeggiò alla loro sinistra e alla loro destra udirono in risposta il verso di un altro uccello che non riuscirono a identificare.

    Gelderico rabbrividì, ma non per il freddo: sotto la pelliccia, da quando il sole si era alzato oltre la cima dei monti, aveva cominciato a sudare. Sudava, sì, ma allo stesso tempo sentiva freddo, senza riuscire a spiegarsene la ragione.

    «Come hai fatto ad avvisarli?» chiese, cercando di vincere l'ansia di quella snervante attesa.

    «Non sono affari tuoi. Li ho avvertiti e puoi star sicuro che verranno, perché, nonostante la vita che fanno e come si guadagnano da vivere, è gente che mantiene sempre la parola. Sul fatto che poi tu riesca a convincerli... Beh, quello è un altro discorso. E sono proprio curioso di vedere come te la caverai: se non ti trovano simpatico, può anche darsi che decidano di farti la pelle.»

    «In quel caso tu non vedresti più il tuo denaro» rispose pronto l'altro in un sussulto d'orgoglio, aggiungendo: «Non temi che possano prendere anche la tua, di pelle?»

    «No, non credo proprio. Ho fatto loro diversi favori, in passato. E poi te l'ho detto: è gente che rispetta i patti, mica come voi Franchi, mica come Carlo.»

    «In tema di rispetto dei patti anche voi Longobardi non siete in grado di dare lezioni. Avevate promesso di restituire al Papa le terre che gli avevate tolto, ma poi non lo avete fatto. Se aveste mantenuto fede ai patti, non saremmo arrivati a questo punto...»

    «Io non sono longobardo! Mia madre lo era, ma ha deciso di unirsi a un italico e perciò ha perso ogni diritto e ogni proprietà. Io non appartengo a nessun popolo, non obbedisco ad alcun sovrano. Io devo obbedienza solo a me stesso, solo a Runfrido!» gli ringhiò in faccia, battendosi forte il pugno sul petto.

    Il franco non ebbe modo di ribattere perché alle sue spalle udì la neve scricchiolare sotto i passi di una mezza dozzina di uomini, che sembravano sbucati da sottoterra e li stavano circondando, lasciando loro come unica possibile via di fuga la pozza d'acqua a cui si stavano abbeverando le bestie. L'istinto lo fece voltare verso la sella del cavallo alla sua sinistra, dove era fissata la sua spada, e poi di nuovo verso il suo compagno di viaggio, il cui sguardo fulminante gli fece capire che era un'ipotesi da non prendere in considerazione. Si girò allora piano verso i nuovi arrivati, cercando di ostentare calma e sicurezza.

    Li osservò con attenzione. Anche se non si trattava di soldati, parevano indossare tutti la stessa uniforme, costituita da pellicce di lupo e gambali in pelle di daino. I calzari invece erano rivestiti da quella che sembrava lana di capra, stretta da legacci di cuoio incrociati. Pure nel viso si somigliavano, quasi fossero membri della stessa famiglia: occhi scuri, barba e capelli neri, che non dovevano vedere un rasoio e una cesoia da moltissimo tempo. Non sembravano portare armi: se le avevano, dovevano essere ben nascoste sotto gli indumenti.

    Quello più anziano, con qualche striatura d'argento intorno alle tempie, che aveva tutta l'aria di essere il capo, si avvicinò a Runfrido e, dopo averlo squadrato a lungo in silenzio, lo abbracciò, battendogli con forza una mano sulla schiena. Poi, indicando con la testa Gelderico, gli domandò:

    «È lui?»

    «Sì, è lui.»

    Toccò al franco essere studiato da capo a piedi, ma con molta più attenzione e curiosità di quella che era toccata all'altro. Dall'esito di quell'esame visivo dipendevano molte più cose di quelle che si sarebbero stabilite con i successivi colloqui... sempre che si arrivasse ai colloqui.

    Gelderico ne era consapevole e perciò aveva ripreso a sudare copiosamente sotto la pelliccia, ma per sua fortuna il viso restava asciutto. Dopo un tempo che

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