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Figli di Tenebra: Lothar Basler 3
Figli di Tenebra: Lothar Basler 3
Figli di Tenebra: Lothar Basler 3
E-book938 pagine14 ore

Figli di Tenebra: Lothar Basler 3

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Info su questo ebook

ROMANZO (792 pagine) - FANTASY - Il capitolo finale della Trilogia di Lothar Basler. Attraversando una terra devastata e disperata Lothar affronterà nello scontro finale sia il suo nemico che i suoi demoni interiori.

La fine è vicina, lo sa. Ma nessun dolore gli sarà risparmiato nell'ultimo tratto del viaggio. Non a lui, non ai suoi compagni. L'obiettivo è ancora Kurt Darheim, quasi all'apice della potenza, ormai padrone della forza corruttrice che in un'epoca remota ha rischiato di annientare il mondo. Bisogna raggiungerlo, quindi, e in fretta: al destino non si può sfuggire, è necessario assecondarlo, è necessario costruirlo. Mentre nel mondo l'estate muore, Lothar e la sua compagnia penetrano terre malate, regolate da leggi insondabili e popolale dai figli di un atto di violenza sulla natura stessa: esseri né vivi né defunti in eterna putrescenza, dominati da un'intera casta di vampiri, che li corroderanno nell'anima e nel corpo. Lì, nella Gehenna, dove la sofferenza diventa disperazione e follia, l'odio e l'amore daranno a Lothar la forza, il Potere gli metterà in mano gli strumenti, i ricordi e le perdite saranno la ragione per lottare ancora... Fino a quando tornerà a sorgere la luna di sangue.

Appassionato di tecnologia, di letteratura e del mondo fantasy, Marco Davide ha esordito come scrittore nel 2007 con "La lama del dolore", il primo volume della Trilogia di Lothar Basler (edita da Armando Curcio Editore), a cui sono seguiti nel 2008 la seconda parte, "Il sangue della terra", e nel 2009 il volume finale "Figli di tenebra" (vincitore nel 2010 del Premio Cittadella). Nel 2010 pubblica il racconto "Si vis pacem para bellum" all'interno dell'antologia "Stirpe angelica" (edita da Edizioni della Sera). In occasione dei Giochi Olimpici 2012 pubblica il racconto "L'emozione nell'attimo" inserito nell'antologia "Londra 2012"(edita da Pulp Edizioni). Nel 2016 la Trilogia di Lothar Basler viene ripubblicata da Delos Digital in edizione elettronica.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mar 2016
ISBN9788865305881
Figli di Tenebra: Lothar Basler 3

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    Anteprima del libro

    Figli di Tenebra - Marco Davide

    9788865305829

    A mia madre, che m’ha trasmesso l’amore per la parola scritta,

    a mio padre, che l’ha visto crescere.

    Odio e amo. Forse mi chiedi come io faccia.

    Non lo so, ma sento che accade, e mi tortura.

    Gaio Valerio Catullo

    Mappa

    Ombre

    Tenebre.

    Il buio riempie il corridoio. Il silenzio avvolge l’aria immota nel suo abbraccio. Materializzatasi come dal nulla, una figura giunge a perturbare la stasi, scivola senza produrre alcun suono, senza che il silenzio si ritiri. Pare avanzare su un soffice tappeto di bruma oscura. Fende la tenebra senza fretta, ombra più densa di quelle che la lambiscono e paiono averla generata. L’oscurità si scinde al suo passaggio, vortica pigra sulle sue forme, si sfilaccia in drappi che aderiscono al corpo prima di rifondersi, alle sue spalle, con l’aria stagnante. La figura procede fino all’arco acuto al termine del corridoio, lo attraversa, s’immerge in una sala. Lì la tenebra è diluita da un raggio di luce carpito da una finestra prossima al soffitto.

    La luna occhieggia incompleta da un cielo orfano di stelle. Il suo bagliore perlaceo sbiadisce in una tinta cinerea – il colore d’un teschio dissotterrato – quando filtra attraverso i vetri per sfumare l’anima nera della sala.

    Una seconda figura siede su uno scranno avviluppato nelle tenebre, immobile come una statua. L’ombra entrata nella sala si ferma a fissarla per alcuni, lunghi istanti.

    – Sei ogni notte più splendida, Lucretia. – La sua voce è un sussurro frusciante che s’insinua tra le maglie del silenzio. – Sublime.

    Sul fronte opposto della sala, la figura seduta si muove impercettibilmente; accenna un inchino in omaggio alla lusinga.

    – Sublime – ripete l’altro tra sé, attorcigliandosi la parola sulla lingua per assaporarne il gusto. Leva il viso verso il fuso etereo di luce che scende dalla finestra, e per la prima volta l’oscurità si attenua sui suoi tratti. Due briciole di rubino si accendono sul volto e osserva la mezzaluna panciuta incastonata nel firmamento buio. I suoi lineamenti offuscati si distendono, le labbra sottili si schiudono. A simiglianza della luna nel cielo, sotto le braci degli occhi sorge una falce di denti bianchissimi su cui spiccano i canini acuminati. Il sorriso riflette la luce smorta per qualche istante prima di richiudersi. Anche gli occhi baluginano, poi si spengono. La figura intera si fa sempre più indistinguibile: lentamente pare liquefarsi nella tenebra muta.

    Tutto ciò che resta è ombra.

    PARTE PRIMA

    L’Ordalia

    Capitolo I

    1

    – Qui, Mutio! Qui!

    Simone udì il richiamo di Thorval, ma non vi badò. Sollevò invece lo sguardo in direzione dell’uomo con l’uniforme porpora di Caeres. Gli veniva incontro con le labbra tirate sui denti gialli, tutto inzaccherato. Mutio tese il corpo in avanti, pronto all’azione. Aspettò che il soldato gli fosse addosso, che allungasse prepotente la gamba verso le sue caviglie. Solo allora si mosse. Fintò a sinistra e scartò repentino nella direzione opposta, scostando col piede la palla foderata di cuoio prima che impattasse la suola dello stivale avversario. Il soldato abboccò, non fece in tempo a stupirsi che Mutio era già alle sue spalle a correre veloce dietro la palla.

    – Qui, Mutio! – urlò di nuovo Thorval.

    Lui alzò gli occhi senza fermarsi. Vide il Nordico che correva a una decina di passi da lui. Un giovane dai capelli lunghi e neri gli stava addosso e lo strattonava. Thorval cercò di spingerlo via e quasi lo mandò a ruzzolare nel fango. Fissò Mutio senza smettere di correre, in attesa di ricevere la palla.

    Mutio escluse subito l’ipotesi. Vedeva ormai vicini i due pali conficcati per terra. Troppo vicini.

    Pestò con foga sul terreno scivoloso. Percorse una manciata di metri senza che nessuno lo ostacolasse. Quando tornò a sollevare lo sguardo, la porta era lì che lo aspettava. Si inchiodò d’improvviso: fletté all’indietro la gamba sinistra e, allorché la rilasciò, il collo del suo piede colpì con forza la palla, che ancora rotolava. La vescica avvolta nel cuoio compì una traiettoria tesa nell’aria, diretta verso una delle pertiche di legno. Era ormai sul punto di oltrepassarla quando un braccio enorme si levò a colpirla. La palla sbatté all’altezza del polso. Rimbalzò via, sul lato esterno del palo.

    Mutio si piegò sullo stomaco e masticò un’imprecazione a denti stretti. Raddrizzò la schiena per scoccare un’occhiataccia al gigantesco figuro in mezzo alla porta, che aveva ancora il braccio destro teso verso il palo.

    Ogre.

    La creatura lo gratificò di un feroce ghigno di scherno. L’Alteano sputò a terra. Si era opposto con tutte le forze quando i soldati imperiali avevano proposto di far giocare un ogre mercenario a difesa della propria porta, nel ruolo che l’Alteano era abituato a definire di custode. Lo sguardo torvo dell’ogre in questione, condito da un paio di minacce bofonchiate dai suoi tre metri e passa d’altezza, lo avevano però zittito.

    – Facciamo una pausa – propose Nevio alle sue spalle.

    Nevio era il mercenario Alteano cui era venuto in mente di organizzare la partita di palla-mischia. Aveva coinvolto con entusiasmo sia Mutio che Thorval nella squadra di soldati della propria bandiera da opporre a una compagine imperiale. Il tempo di conformare le proprie regole a quelle degli avversari stranieri, e le pertiche delle porte erano state piantate. Nell’espressione afflitta di Nevio non restava traccia dell’arroganza ostentata all’inizio della gara. Ansimava con una mano sul fianco e tirava in continuazione su con il naso, da cui colava un rigagnolo di sangue.

    Mutio si portò ai bordi del campo. Si asciugò la fronte sudata con l’avambraccio e ripensò stizzito all’intervento con cui l’ogre gli aveva impedito di mettere a segno il punto. Thorval lo avvicinò detergendosi il viso con uno straccio. Guardò Simone negli occhi ma non disse niente; si limitò a superarlo per lasciarsi cadere sull’erba. Mutio scosse la testa. Thorval era un ottimo corridore, discretamente veloce e instancabile. Era anche agile e di sicuro efficace quando si trattava di contrastare fisicamente l’avversario. Ma con la palla ci sapeva fare poco.

    Gli manca la pratica, pensò mentre si massaggiava il costato colpito da una gomitata.

    Il Nordico afferrò la ghirba ai bordi del campo e se la portò alla bocca per bere. Ne impugnò l’estremità con la mano destra, ma dovette aiutarsi con l’altra per sollevarsela sulla testa. Mutio vide con chiarezza la brutta cicatrice che gli deturpava il polso sinistro. Ormai da qualche settimana Thorval si era tolto le bende dalla ferita. Le dita si erano ristabilite dalla paresi dei primi giorni per giungere a flettersi pressoché del tutto. Ma i tendini recisi dalla roncola nemica non sarebbero tornati a saldarsi, per cui la mano sinistra di Thorval sarebbe sempre rimasta a mezzo servizio.

    Anche Mutio si sedette a terra. Si puntellò con le braccia dietro la schiena e sollevò il viso accaldato godendosi il venticello fresco che spirava dalle pianure.

    2

    Erano trascorse sette settimane da quando le Legioni dei Principati avevano espugnato Rhon. Era stato allora che la guerra si era virtualmente conclusa. L’ormai ex capitale della Repubblica e i difensori che per essa si erano battuti avevano pagato un prezzo oltremodo salato alla furia degli invasori. La maggior parte delle truppe radunate dal Senato per proteggere la città era stata massacrata negli scontri che ne avevano arrossato le strade, quando, grazie al voltafaccia dei Tanzali, prima alleati e poi traditori della Repubblica, le Legioni e le armate di Caeres avevano fatto irruzione all’interno della cinta muraria. I superstiti erano stati costretti a deporre le armi e inchinarsi ai vincitori. Solo una manciata di reparti militari era riuscita a sfuggire alla carneficina sparpagliandosi per la pianura. Alcuni soldati erano andati a ingrossare le bande di partigiani che nelle campagne impegnavano ancora le milizie imperiali in scorribande e piccole scaramucce; altri avevano preferito imboscarsi in attesa di condizioni più favorevoli. I barbari avevano ripiegato in tutta fretta verso le dimore ancestrali nelle Grandi Praterie; i Tanzali che non avevano preso parte al meschino tradimento architettato dal loro condottiero Mosheet avevano trovato riparo a sud, oltre i confini dei propri domini.

    Caeres aveva disposto che il governo provvisorio di Rhon fosse affidato agli alti gradi dell’esercito, almeno finché non si fossero realizzate le condizioni per istituire una nuova autorità civile. Le Legioni dei Principati, poco interessate a chi dovesse occuparsi della faccenda, si erano dedicate agli ultimi ostacoli che si frapponevano alla definitiva cessazione delle ostilità.

    Lord Etienne d’Averar, Primo Generale di Saëgata e comandante in capo della Prima Legione, aveva stanziato le sue tre divisioni a custodia della città. Le forze partigiane erano troppo malmesse sia dal punto di vista numerico che da quello organizzativo per costituire un serio pericolo: si limitavano ad agire nelle campagne disturbando l’esercito con imboscate sempre più fiacche. I legati di Caeres avevano in progetto di reprimerle una volta per tutte, per il momento tuttavia bisognava restituire nuovo ordine alla capitale in macerie della Repubblica decaduta.

    A circa dieci giorni dalla presa di Rhon, lord Dieter Von Keller aveva invece messo la Seconda Legione in marcia in direzione sud. Diecimila riservisti lo attendevano ai margini dei boschi attorno a Isoaile. Il Primo Generale di Kaisersburg si era incaricato di espugnare la città, consorella di Rhon fin dagli albori della Repubblica. Nondimeno, durante l’assedio della capitale, Isoaile aveva scelto di recludersi, spaventata dal diffondersi della peste e dall’implacabilità degli invasori. Non una sola goccia di sangue finì per essere versata tra le strade di Isoaile. Prostrata dalla stessa epidemia cui invano aveva provato a scampare, impossibilitata a opporre una resistenza quantomeno dignitosa alle truppe nemiche, Isoaile aveva offerto a Dieter Von Keller la propria resa incondizionata prima ancora che la Seconda Legione cominciasse a montare i propri macchinari d’assedio.

    Anche Rhon piangeva i suoi figli uccisi dalla peste. Il morbo aveva anticipato l’assedio strisciando subdolo tra le case e aveva raggiunto la massima diffusione nelle tre settimane successive alla caduta delle mura. Più di un quarto degli abitanti scampati ai massacri dei saccheggi aveva riempito le fosse comuni scavate in tutta fretta all’esterno del perimetro urbano. Ora i tentacoli dell’epidemia avevano allentato la presa. Si rititavano satolli dalla città, lasciandosi dietro una lunga scia di morte.

    Mutio aveva visto le strade riempirsi di cadaveri e al contempo aveva sentito, giorno dopo giorno, i postumi della malattia che quasi lo aveva ucciso due mesi addietro sparire per sempre dal suo corpo. La debolezza si era lentamente attenuata e le energie erano tornate a sostenerlo appieno. Dei giorni di sofferenza trascorsi tra le ombre del lazzaretto nella basilica di Senar non rimaneva che il ricordo annebbiato del buio e dei lamenti dei moribondi. Un ricordo che riviveva negli sguardi allucinati dei derelitti che incrociava lungo le vie di Rhon. La Repubblica era passata tra mille sofferenze, affogata nel suo stesso sangue dalla brutalità del nemico e dalla volontà nefasta del fato: Caeres tornava a piantare le sue insegne su un suolo dilaniato. L’Impero si trovava al cospetto di lunghi mesi, forse anni, di ricostruzione per poter restituire piena vita alla provincia riconquistata.

    A Simone non restava che aspettare. Dopo i primi giorni convulsi seguiti alla presa di Rhon, aveva ottenuto il permesso di piantare la tenda al seguito della Quarta Bandiera della Prima Divisione, nella quale era arruolato Thorval, acquartierata fuori della cinta muraria. Lui, Rugni e Moonz si erano così trasferiti ai margini dell’accampamento dei mercenari, dove avevano potuto godere della compagnia del giovane Nordico. In realtà, il mezz’orchetto era più spesso assente che presente. Vagabondava per la maggior parte del tempo in città o nei boschi che la circondavano. La terribile confusione che in quei giorni regnava a Rhon lo rendeva praticamente invisibile agli occhi di chi aveva fin troppi pensieri per dedicargli attenzione: il caos imperante gli permetteva di girovagare in assoluta tranquillità. Inoltre, per le strade si potevano incontrare diversi orchetti, orchi per dirla alla maniera degli imperiali. Moonz, dopotutto, era meno peggio degli altri.

    Una sera si era presentato alla tenda accompagnato da un grosso gatto selvatico.

    – E quello da dove spunta? – gli aveva chiesto Mutio osservando il felino che si strusciava indolente contro un polpaccio di Moonz, fissandoli con gli occhi gialli e verdi.

    – Unghialunga – aveva borbottato il mezz’orchetto.

    – Unghiaché? – era sbottato Simone.

    – Unghialunga. Si chiama Unghialunga. L’ho trovato nel bosco.

    L’Alteano si era avvicinato al gatto, incuriosito. L’animale aveva una pelliccia lunga e arruffata, di un colore bruno sbiadito. In alcuni tratti, sulle zampe e sul muso, i peli si facevano dorati. Striature nere lo segnavano qua e là come increspature. Mutio aveva fatto per allungare una mano per accarezzargli il dorso, ma il gatto si era inarcato sulle zampe posteriori e gli aveva soffiato contro. Aveva sgranato gli occhi brillanti e snudato gli artigli. Simone si era ritirato a sua volta, per nulla ansioso di farsi cavare un occhio da una zampata.

    – Socievole, eh? – aveva commentato.

    – Per me è giusto buono da fare arrosto. – Rugni aveva sghignazzato in modo inquietante facendo cenno al gatto di avvicinarsi al falò del bivacco. – Vieni, bello, vieni qua che ti diamo un’abbrustolita.

    Moonz aveva pericolosamente assottigliato gli occhi sputando parole incomprensibili all’indirizzo del nano. Si era allontanato nell’ombra, e Unghialunga lo aveva seguito. Rugni intanto si sganasciava dalle risate battendosi una mano su un ginocchio.

    Da quel giorno Mutio aveva quasi sempre visto il mezz’orchetto in compagnia del gatto. In certe occasioni, Moonz giungeva addirittura a coccolarlo, con un atteggiamento che lasciava l’Alteano un poco perplesso. Ma solo un poco.

    3

    Simone bevve alla stessa ghirba alla quale si era dissetato Thorval. Si lasciò piovere dell’acqua sulla testa per rinfrescarla. Volse gli occhi a occidente, all’imponente massiccio montuoso che seppelliva l’orizzonte al di là delle mura e degli edifici di Rhon. Lo chiamavano la Muraglia, una dorsale maestosa di picchi frastagliati. Le cime erano incappucciate da neve che il sole, non riuscendo a scioglierla, accendeva di luce dorata. A Mutio facevano tornare in mente le vette della Cordigliera che molto tempo prima aveva valicato per abbandonare la terra natia e rifarsi una vita nelle contrade dei Principati.

    Lì è il futuro, pensò, ma…

    Deviò lo sguardo verso nord-est, dove la Piana di Ascalon andava a morire, alle pendici delle prime colline in lontananza. Un senso di ansia gli montò nel cuore.

    – Vi siete riposati abbastanza? – una voce gracchiante lo distolse dalle sue riflessioni. Un soldato con la divisa imperiale lo fissava dall’alto, mani sui fianchi e sfera di cuoio schiacciata sotto la pianta del piede. – Vi resta fiato per un’altra strapazzata?

    Un secondo soldato ridacchiò alle sue spalle, un Tanzalo dalla pelle scura e i baffi neri. Alcuni del suo popolo combattevano come mercenari nelle file imperiali, interessati più all’oro e al bottino che alle alleanze stipulate dai propri governanti. Fatta eccezione per l’ogre – custode –, era lui l’avversario che fino a quel momento aveva messo maggiormente in difficoltà la squadra di Mutio.

    L’imperiale colpì la palla con l’interno del piede scagliandola verso Simone, che si stava alzando da terra con una dura replica sulla punta della lingua. Colto di sorpresa, allungò una gamba per bloccare la palla, ma quella gli sbatté contro il ginocchio e rimbalzò via.

    – Ach! – sibilò il Tanzalo. Ammiccò derisorio nella sua direzione.

    Mutio trotterellò dietro alla palla col cipiglio di chi non vede l’ora di ricacciare in gola sorrisetti sarcastici, ogre o non ogre. Immerso nei suoi propositi di rivalsa, seguì la sfera senza toglierle gli occhi di dosso. Non si accorse quindi che era finita tra le zampe anteriori di un cavallo fino a che non gli fu quasi addosso.

    – Un intervento un po’ goffo – disse una voce. – Ritengo tu possa fare di meglio.

    Mutio alzò gli occhi, abbastanza attento da cogliere l’insolenza dissimulata dal tono cortese, ma non tanto da riconoscere la voce. Puntò lo sguardo sull’uomo in arcione, con la replica appena ingoiata di nuovo pronta sulle labbra.

    – Ma tu che vu… Ah… – fu tutto quello che gli uscì dalla bocca.

    – Buona giornata a te, Mutio – lo salutò il cavaliere. Si tolse il cappello infarinato di polvere e se lo portò al petto abbozzando un inchino. – Non avevo intenzione di offenderti, chiedo venia. La tua faccia è imporporata dalla collera.

    Mutio fece forza sulla mascella finché gli angoli della bocca spalancata si sollevarono a formare un sorriso sghembo.

    – Lothar! – riuscì finalmente a esclamare.

    Il cavaliere si calcò il cappello ad ampie falde sulla testa.

    – Per servirti – gli sorrise.

    – Ho cavalcato in gran fretta percorrendo quasi trecento chilometri in quattro giorni. – Lothar spezzò la pagnotta e se ne infilò un tozzo in bocca; subito dopo strappò un morso di formaggio di capra. Divorò il boccone trangugiando birra da un orcio per aiutarsi a inghiottire il cibo. – Dalle colline di Bruja a Rhon, fame e sete sono state mie compagne fedeli. – Addentò di nuovo il formaggio.

    Mutio non faticava a credere alle parole di Lothar. Vedeva la polvere sulla pesante cappa nera ammucchiata assieme a guanti e cappello. Gli alti stivali erano imbrattati di terra e la pelle del viso era striata di lercio sudore. La voracità con cui aveva aggredito il cibo e la birra attestava gli stenti patiti.

    – Trecento chilometri in quattro giorni! – esclamò Thorval. – Hai cavalcato veloce come il vento!

    – Ha galoppato ventre a terra. – Lothar accennò con il mento al cavallo impastoiato nei pressi.

    Simone esaminò con attenzione il suo viso accaldato. Aveva l’impressione che fosse un poco invecchiato. La carnagione pallida, appena abbronzata sulle guance e sulla fronte, sembrava più segnata. Tra i capelli castani, legati con un laccio di cuoio, si vedeva qualche filo grigio che l’Alteano non ricordava di avere mai notato. Nel complesso, il volto pareva più scarno e spigoloso. Una sola cosa non sembrava affatto cambiata: la luce in fondo agli occhi verdi, che anzi era più viva che mai.

    – C’è dunque così tanta fretta? – domandò l’Alteano. – E perché sei venuto da solo?

    Lothar finì di scolare la birra prima di ribattere.

    – La risposta alla prima domanda è: sì, il tempo stringe. E sono venuto qui da solo perché altri urgenti compiti attendono i Fratelli della Luce. – Fece una pausa per squadrare i compagni prima di aggiungere: – È ora di andare, il Re Demonio ha cominciato a sgranchisi le membra nei suoi domini occidentali.

    Mutio sospirò. Eccoli al punto che tutti loro sapevano sarebbe giunto. Con ogni probabilità, l’avevano persino atteso con una punta di trepidazione. Non seppe decifrare l’emozione che gli faceva battere forte il cuore.

    – Partiremo subito?

    Lothar non rispose immediatamente. Incrociò le braccia al petto e si passò la lingua sulle labbra, come valutando la replica da offrire. Infine si decise.

    – Partirò subito. Io. Preferirei che voi non mi seguiste.

    – Cosa? – sbottò Mutio incredulo.

    Rugni si accostò a Lothar, le sopracciglia aggrottate.

    – Che stai vaneggiando?

    Anche Thorval scosse la testa.

    – Ti abbiamo atteso per quasi due mesi. Perché ora dici questo?

    Lothar chinò il capo sul grembo, poi lo risollevò di scatto.

    – Non impedirò a nessuno di voi di seguirmi, tuttavia il viaggio che sono in procinto d’intraprendere non ha nulla a che vedere con quello che abbiamo condiviso da Lum fin qui. Abbiamo affrontato molte insidie, è vero, abbiamo rischiato infinite volte. Rischiato grosso, spesso. Ma ora… – esitò, – …ora è tutto molto, davvero molto più pericoloso. Valicherò le montagne della Muraglia e attraverserò il deserto fino a raggiungere le terre maledette, ancora più a occidente. La mia meta è la dimora del Re Demonio… – Pronunciò le ultime parole calando inconsciamente di tono. – L’inferno sulla terra.

    Un silenzio pesante scese sulla compagnia riunita.

    – Quanto la fai tetra! – esclamò Rugni nel tentativo di allentare l’improvvisa tensione.

    Il tentativo fallì.

    Lothar inspirò una lunga boccata d’aria.

    – Non voglio che vi sentiate in dovere di seguirmi. – Levò una mano a bloccare sul nascere l’intervento di Mutio. – Stavolta il pericolo è enorme, più di quanto voi possiate lontanamente immaginare. La mia, – guardò cupo l’Alteano negli occhi, – è una missione quasi disperata. Se è vero che il Destino mi ha scelto per affrontarla, allora vi assicuro che è stato avaro nelle possibilità che mi ha concesso. Non voglio coinvolgervi in una causa tanto rischiosa. Avete tutto da perdere e niente da guadagnare. Io sono il Figlio del Potere, io dovrò contrastare l’entità in cui Kurt Darheim s’è incarnato. Io – un lampo si accese e si spense nei suoi occhi, – sono colui che cerca vendetta.

    – Non avevamo nulla da guadagnare neppure seguendoti da questa parte dell’oceano – obiettò Simone duro. – Per quello che mi riguarda, già diversi mesi fa ho messo sul tavolo tutta la posta di cui disponevo, e non ho intenzione di abbandonare la partita a metà.

    – Non sai quello che dici, Mutio – ribatté Lothar con stanca insistenza. – Ora l’azzardo è massimo. Hai tutte le probabilità a sfavore in questo finale di partita. Puoi perdere, e puoi perdere nel peggiore dei modi.

    Le labbra di Mutio si compressero fino a sbiancare. Un crampo gli mosse la mascella.

    – Sarò con te, Lothar, fino alla fine della partita. Arrivato a questo punto, m’impongo di non avere altra scelta.

    – Mutio ha ragione, – intervenne Thorval – se gli dèi hanno scelto te come campione, io credo anche che abbiano scelto noi come tuoi gregari.

    Rugni annuì con sussiego sporgendo il labbro inferiore.

    Lothar si guardò attorno. Mutio, Thorval e Rugni lo squadravano con sguardo deciso, al limite della minaccia. Moonz lo scrutava un poco più lontano. Unghialunga gli girava tra i piedi con movimenti languidi, disinteressato alla diatriba. Sospirò.

    – È questa la vostra ultima parola? Sappiate che… – Rinunciò a concludere. – Partiremo domani stesso. Il tempo scorre rapido, e tanta è la strada da percorrere.

    Mutio credette di scorgere l’ombra di un sorriso spianare le labbra di Lothar. Sorrise a sua volta.

    – E noi la percorreremo.

    – Così va meglio! – Rugni sogghignò. – Pensavo di dover crepare di noia tra le macerie di questa città. – Picchiettò il terreno con il manico di Karaka.

    – Anche tu verrai? E l’esercito? – chiese Lothar a Thorval.

    – La guerra è finita, checché se ne possa dire. La Legione piantonerà la città e i dintorni ancora per settimane in attesa di rimettere in piedi una parvenza di autorità civile. Le battaglie si sono concluse, e io sono un guerriero, la mia spada non è fatta per arrugginire nel fodero.

    – Sei pur sempre un coscritto al soldo della Legione – gli fece notare Lothar.

    – Ma sono anche un coscritto che dispone di speciali raccomandazioni – sottolineò l’altro. – Parlerò con il Primo Generale e gli chiederò licenza di congedarmi, assieme al compenso che mi spetta come mercenario.

    – Verrò anch’io a fare visita a Etienne d’Averar, lo voglio salutare prima di partire.

    – È davvero necessaria tanta fretta? – chiese Simone alzandosi in piedi e proiettando la sua ombra su Lothar. – Perché né Mighal né gli altri confratelli ci accompagneranno? Immagino che la loro presenza sarebbe molto preziosa. Credevo… –

    – Ho passato quasi due mesi a seguire gli insegnamenti di Mighal e dei Fratelli della Luce riuniti nel monastero sulle colline. Ho appreso tante lezioni in pochi giorni, sebbene la loro intenzione fosse di addestrarmi ancora più a fondo. Purtroppo il tempo si è rivelato più avaro di quanto loro avessero previsto. Di giorno in giorno, la presenza del Re Demonio si è fatta più intensa, giungendo a noi dai recessi dei suoi domini oscuri. A un certo punto i Fratelli hanno avvertito che il suo potere aveva raggiunto livelli allarmanti. Io stesso l’ho sentito. – Si morse inconsapevolmente il labbro inferiore, i suoi occhi vagarono per un attimo sull’orcio tra le gambe. – Non c’è più tempo. Kurt Darheim va distrutto ora, prima che sia troppo tardi. Questo è compito mio. Mighal radunerà i Fratelli e li guiderà a oriente della Muraglia, preparandoli a quello che potrebbe succedere.

    – Ovvero? – Mutio soffocò un tremito nella voce, conosceva la risposta.

    – Dovranno essere pronti ad affrontare il mio eventuale fallimento, a costituire un ultimo, disperato argine alla completa resurrezione del Re Demonio.

    – M-ma… – balbettò Simone. – Ma Mighal disse che se non si fosse riusciti ad annientare Kurt prima che tornasse ad acquisire completamente gli antichi poteri di Ephraim Blaake, nessuno lo avrebbe più potuto fermare.

    Lothar sorrise senza allegria.

    – Se io fallirò, probabilmente tutto sarà perduto, ma loro lotteranno comunque. Fa parte della loro vocazione.

    Mutio barcollò per un improvviso giramento di testa. La piena consapevolezza delle responsabilità che lui stesso, seguendo Lothar, finiva con l’addossarsi lo sfiorò per la prima volta e quasi lo sopraffece. Quasi. Anche lui sceglieva di seguire la sua – vocazione – . Forse quello era il termine adatto a qualificare la pazzia che lo aveva trascinato via da Lum. Non aiutava molto a spiegarla – se davvero si può spiegare la pazzia – ma almeno gli attribuiva un nome. Vocazione. Bizzarra e inopportuna, ma vocazione.

    Un drappello di soldati marciò vicino alla loro tenda. Una nuvola di polvere sollevata dallo sbattere cadenzato degli stivali prese a turbinare attorno alle armature lucenti e allo stendardo grigio e ocra che raffigurava la testa di un lupo ringhiante. I Lupi Grigi di Kaisersburg.

    Mutio ne seguì l’avanzata smarrito nei suoi pensieri fino a che non scomparvero nel cuore dell’accampamento.

    – …domattina, il più presto possibile, dopo aver fatto scorta di provviste – stava dicendo Lothar a Thorval. – Parleremo anche di questo con Etienne. Non credo ci negherà un aiuto.

    – Lothar! – chiamò all’improvviso Simone. Lothar si voltò nella sua direzione. – Prima di cominciare a pianificare il viaggio avrei una domanda da farti.

    Lothar nascose la propria perplessità.

    – Ti ascolto.

    Mutio si infilò le mani nelle tasche dei calzoni e dischiuse le labbra in un sorriso obliquo.

    – Di’ un po’, come te la cavi con una palla tra i piedi?

    4

    Simone ricevette la palla da Nevio. La bloccò con il petto e se la lasciò cadere tra i piedi. Si girò lesto, pronto a schivare l’assalto di un paio di avversari, ma si avvide di non avere nessuno nelle immediate vicinanze. Un uomo correva in tutta fretta nella sua direzione, lui però disponeva di spazio per avanzare. Colpì la palla senza troppa forza e partì. Tagliò in obliquo per il centro del campo, raggiunse uno dei confini laterali, si affrettò a guadagnare più terreno possibile prima che l’avversario che lo puntava giungesse a contrastarlo.

    Quel mattino Mutio si era destato a denti stretti a causa dell’intorpidimento alla coscia destra, quello che a periodi tornava a tormentargli la vecchia ferita da freccia inflittagli dalla Polizia di lord Helmut Von König a Lum. Le fitte si erano intensificate durante la partita contro i soldati imperiali e gli avevano impedito di giocare al meglio delle sue possibilità. In quel momento tuttavia il dolore era un’ombra appena percepita dal cervello. L’entusiasmo pervadeva come un balsamo ogni fibra del suo corpo, e lui si sentiva ringiovanito di dieci anni. La sua mente era tornata a quando, bambino, correva per le bancarelle del mercato portuale di Amor con una palla di stracci cuciti tra i piedi, schivando agile avventori e venditori insieme alla frotta di giovani amici, sfuggendo alle mani e alle imprecazioni di quelli che si vedevano rovesciare per incidente casse di pesce o gerle di frutta.

    Colse un movimento alla sua destra con la coda dell’occhio. L’avversario lo aveva raggiunto e si preparava a intralciarlo. Accelerò per superare gli ultimi metri liberi e si inchiodò bruscamente che l’altro gli era vicinissimo. Lo attese immobile e, quando questi compì l’ultima falcata prima di piombargli addosso, lui colpì forte la palla con il piatto del piede. La sfera passò tra le gambe dell’imperiale esterrefatto mentre Mutio si scansava per evitare di essere travolto. La palla di cuoio rotolò lontano dal limitare del campo, verso la porta avversaria, e cambiò repentinamente traiettoria allorché, sopraggiunto a tutta velocità dalla direzione opposta, Lothar la agganciò con un piede e se la trascinò dietro senza fermarsi.

    Mutio sorrise tra sé, soddisfatto per aver intuito la mossa del compagno. Seguì la sua corsa mantenendosi defilato, nel caso avesse bisogno di aiuto. Due soli uomini sbarravano la strada a Lothar: il giovane imperiale dai capelli neri e il Tanzalo mercenario. Lothar puntò diritto verso il primo senza cercare di aggirarlo. Quello non si fece pregare e gli corse incontro deciso a fermarlo. Lothar avanzò come se neanche lo vedesse fino a che non gli fu praticamente addosso. Solo allora rallentò: le sue grosse spalle si incurvarono, le ginocchia si piegarono. Eseguendo il movimento con rapidità sorprendente, fermò la palla sotto la suola dello stivale sinistro e, colpendola di lato con il tacco, la tolse dalla traiettoria della punta del piede dell’altro, che tentava di calciarla via. Piroettò fino a scivolargli alle spalle. Il giovane ringhiò innervosito dall’apparente facilità con cui era stato eluso. Attaccò ancora nel tentativo di uncinare con il piede sia la palla sia la caviglia dell’altro. Le gambe di Lothar saettarono veloci, i piedi compirono un doppio giro attorno alla palla, quasi accarezzandone la superficie. Scartò all’improvviso, e questa volta la finta sbilanciò l’avversario. L’imperiale arrancò per mantenere l’equilibrio e quando ci riuscì provò a lanciarsi all’inseguimento di Lothar, che intanto lo aveva sorpassato.

    Mutio seguì ammirato l’azione del compagno e per l’ennesima volta non poté fare a meno di stupirsi di come un fisico tanto massiccio potesse muoversi con tale sveltezza e agilità. Lothar, nonostante l’impiccio della palla tra i piedi, seminò il giovane soldato distanziandolo di una dozzina di metri. Subito però il secondo avversario, il Tanzalo dalla pelle scura, gli si parò dinanzi. Questa volta Lothar deviò la corsa con un’accelerazione improvvisa per provare a superarlo in velocità. Il mercenario dimostrò subito di essere altrettanto rapido e gli si appiccicò alle costole. Lothar evitò i suoi tentativi di scippargli la palla spintonandolo con veemenza. Il Tanzalo cercava di spingerlo verso il bordo laterale del campo, decentrandolo rispetto alla porta. Lothar, consapevole della mossa, provò ad aumentare la velocità della corsa nonostante avesse già percorso quasi metà della lunghezza del campo. Il mercenario si vide superato quando ormai era sicuro di poter arrestare l’avanzata di Lothar: gli artigliò allora la camicia nel mezzo della schiena con tanta violenza da tirargliela fuori delle brache. Lothar perse l’equilibrio e barcollò. L’altro, vedendolo in difficoltà, tirò con forza ancora maggiore.

    – Dalla qua!

    Mutio sopraggiunse di corsa. Lothar vacillò sulle ginocchia piegate, ma non cadde. Allontanò con un calcio la palla e assestò una gomitata al fegato del mercenario. La bocca del Tanzalo si raggricciò in un cerchietto umido tra i baffi neri. L’uomo mollò la presa sulla camicia e si rattrappì sullo stomaco. La sua corsa perse vigore ma non si interruppe. Allora Lothar gli premette una mano sul viso e lo spinse via. Il mercenario rotolò nel fango senza neppure il fiato per gridare.

    Lothar recuperò la palla e si fermò un attimo per guardarsi attorno. Simone si appropinquava alla sua sinistra e nessun avversario sembrava abbastanza vicino da poterlo impensierire. Recuperò ossigeno ansimando prima di lanciarsi nelle ultime falcate che lo separavano dalla porta. Raggiunse una distanza buona per provare il tiro ma non si arrestò. Proseguì a testa bassa, con i capelli sudati che svolazzavano. Un’ombra enorme lo ingoiò nel momento in cui l’ogre si stagliò ghignante su di lui. Lothar era dotato di una muscolatura considerevole ed era ben più alto della maggior parte degli uomini, eppure il suo capo arrivava a malapena al petto gigantesco della creatura. Visti appaiati facevano pensare a un padre nerboruto con il figlioletto segalino; l’ogre dava l’impressione di potergli spezzare la schiena a mani nude.

    Mutio rallentò senza rendersene conto, di colpo preoccupato per il compagno. L’ogre spalancò le braccia a croce, come pronto a calarle sull’omuncolo intenzionato a superarlo. Lothar si fermò appena prima di arrivare a portata della sua mano. Caricò il tiro, ma da quella distanza la palla avrebbe con ogni probabilità finito per rimbalzare sul corpo dell’ogre. Il piede calò violento, ma una frazione di secondo prima di impattare la palla si bloccò. L’ogre, che si era piegato sulle gambe pronto a ricevere il tiro, rilassò di riflesso i muscoli delle cosce. Ondeggiò come un ubriaco divaricando la mascella sporgente in un’espressione di stolido sbigottimento. Lothar finse di muoversi a destra e scartò fulmineo dalla parte opposta trascinando la palla con l’interno del piede. La creatura, poderosa nel fisico ma lenta di riflessi, abboccò alla mossa e scivolò sul terreno viscido. Crollò con un tonfo sulle terga. Lothar la aggirò e si preparò a depositare la palla tra i due pali incustoditi. Tuttavia commise un errore di valutazione: l’ogre si torse e allungò un braccio per impedirgli di tirare. Il pugno arrivò a colpirgli di striscio il braccio destro, ma tanto bastò a scaraventarlo per terra. Piombando sulle ginocchia, Lothar provò a colpire alla disperata la palla ferma un paio di metri al di qua del solco scavato tra le pertiche di legno. Il suo piede centrò in malo modo la sfera, che si impennò nella direzione sbagliata.

    – È mia! – ringhiò Mutio mentre si scagliava contro la porta con un sorriso di avida pregustazione allargato sotto il naso. Spiccò un balzo fino alla palla che roteava in aria, i gomiti spinti dietro la schiena e la testa inclinata di lato. Rilasciò i muscoli del collo e la colpì con quanta più forza poté con un angolo della fronte. La palla superò lo spazio tra i pali e rotolò sull’erba sparuta. Simone ricadde giù e, sotto lo slancio del salto, giunse quasi a toccare terra con le ginocchia. Caracollò in modo sgraziato, ma evitò di finire con la faccia nel fango.

    – Punto! – ruggì con le braccia al cielo. Si voltò a mostrare un pugno orgoglioso ai compagni di squadra, che accorrevano esultanti. Solo dopo una manciata di secondi di ebbro trionfo smise di gongolare e si ricordò di Lothar.

    L’uomo si rimetteva in piedi a fatica. Si reggeva il gomito destro. Il fango sul viso esaltava ancor più la sua smorfia sofferente.

    – Una spanna più vicino, – Lothar sputò terra insieme alle parole, – e mi frantumava il braccio.

    – Punto.

    Mutio protese il pugno verso di lui. Le labbra di Lothar si contorsero in un mezzo sorriso sofferente.

    – Mi devi un favore, Alteano.

    – Anche due. – Simone ammiccò raggiante. – Anche due, compare.

    Capitolo II

    1

    Cominciarono a risalire le prime colline a metà del secondo giorno dacché avevano lasciato Rhon.

    Marciarono con un buon ritmo sotto un sole vigoroso, per nulla impensierito dai cirri alla deriva nel cielo turchese. Le colline erano verdi, lussureggianti, ma andavano inesorabilmente spogliandosi man mano che si trasformavano in montagne. L’andatura subì un vistoso rallentamento quando la strada si fece più impervia.

    La compagnia viaggiava con un cavallo e un mulo al seguito, entrambi carichi di bagagli; il primo era il destriero con cui Lothar era giunto a Rhon, l’altro un dono di Etienne d’Averar ricevuto alla vigilia della partenza insieme a un’abbondante scorta di viveri e birra. La presenza degli animali contribuiva a frenare l’ascesa: era necessario condurli lungo piste sconnesse, sempre attenti a evitare che una zampa dell’uno o dell’altro finisse per spezzarsi in una fenditura oppure che uno zoccolo slittasse sul ciglio di un dirupo facendoli precipitare. In verità il rischio non era appannaggio esclusivo delle bestie. I sentieri ben delineati sulle colline svanivano con l’aumentare della quota: i compagni arrancarono per le tortuose vie naturali che le montagne avevano da offrire.

    Ad accrescere il disagio ci si mise il brusco crollo della temperatura. Se al principio avevano goduto del tepore umido che ristagnava nelle pianure, stemperato dal venticello che carezzava le pendici della Muraglia, ora rabbrividivano ogni qualvolta una nuvola oscurava il sole. Il vento si era fatto freddo e tagliente, benché soffiasse solo nei punti in cui riusciva a incanalarsi tra le pareti di roccia.

    I compagni si voltarono in una sola occasione, poco prima di cominciare la vera scalata delle montagne, a contemplare il panorama variopinto della Piana di Ascalon sotto di loro. Al di là del profilo delle colline appena scavalcate era visibile la chiazza grigia di Rhon, tagliata in due dal nastro argenteo del Camaryl. Un anello di terra devastata circondava la città come l’alone torbido di un morbo non ancora debellato. Subito dopo si dilatava la pianura, una landa maculata di fondi, villaggi e boschi, fino all’orizzonte.

    I compagni si godettero la veduta per un po’. Poi diedero le spalle alle contrade della Repubblica decaduta, chi domandandosi se avvrebbero mai rimesso piede in quella pianura, chi interrogandosi su quale scenario li aspettava sul versante opposto delle montagne.

    Fin dall’inizio fu Lothar a condurre la spedizione. Mighal lo aveva istruito sulla strada da intraprendere per valicare la Muraglia e lui si era ulteriormente informato a Rhon prima della partenza. La catena montuosa sembrava impenetrabile, ma in realtà era attraversata da una ramificazione di passi, quantunque tutt’altro che agevoli. Mighal gli aveva consigliato di percorrere la Sella del Gheppio, il primo valico che si incontrava venendo dalla loro direzione, anche se uno dei più elevati. A Rhon, in proposito, Lothar aveva raccolto informazioni dettagliate da un vecchio minatore che aveva abitato sulle montagne.

    Non ebbe problemi a guidarli sulle piste sinuose tra le colline fino alle pendici delle montagne. Anche lui però, nonostante le indicazioni ricevute, ebbe difficoltà a orientarsi tra i crinali e le gole che si alternavano componendo un intricato labirinto di roccia e arbusti. Ad aiutarlo furono le tozze piramidi di pietre impilate che di quando in quando s’incrociavano lungo la salita. Gli avevano spiegato che si trattava di segnali costruiti dai pastori per indicare la direzione da seguire. Permettevano di evitare i burroni più infidi e di non perdersi rischiando, soprattutto d’inverno, di morire assiderati nella neve. Di pastori non ne scorsero neppure l’ombra. Un paio di volte, però, incapparono in capanni deserti da sfruttare come rifugio per la notte, opera di misericordia di chi rendeva meno arduo il cammino ai viandanti come loro.

    Dopo cinque giorni di cammino, finalmente, trovarono la Sella del Gheppio.

    2

    Il valico s’insinuava contorto, quasi schiacciato, tra due mastodontiche creste incoronate di neve.

    – Dobbiamo arrivare fin lì? – aveva chiesto Rugni poco prima tradendo una nota di speranza nella voce. Il nano aveva colto diverse volte il pretesto per esprimere sincera ammirazione al cospetto dello spettacolo offerto dalla Muraglia. Niente a che vedere con i Daragpeaks, teneva sempre a ribadire, ma si trattava in ogni caso di una catena di tutto rispetto. Dopo essere quasi impazzito durante la traversata oceanica a bordo del Kraken, per la prima vera volta manifestava entusiasmo nei confronti della terra che calpestava.

    – No, – gli aveva risposto Lothar levando gli occhi alle cime immacolate, – non dobbiamo salire sulla montagna, ma passarci attraverso.

    Eppure, dopo essersi arrampicata fino all’imboccatura della Sella del Gheppio, la strada continuò a salire. La stanchezza cominciò a fiaccare le gambe. La notte quasi sempre erano costretti ad accamparsi alla meno peggio, cercando ricovero in una grotta o tra le rocce. Quando il sole scompariva, presto, dietro le guglie di granito, l’aria si faceva subito gelida e li costringeva a imbacuccarsi in coperte e mantelli per prendere sonno. A quell’altitudine l’estate novella non aveva il potere di intiepidire le ombre notturne come faceva di giorno, quando costringeva i compagni a lottare contro i nugoli di tafani che molestavano i volti sudati.

    Dopo tre giorni di marcia all’interno del valico anche il bel tempo li abbandonò. Il primo a fiutare il cambiamento fu Unghialunga, il grosso gatto selvatico che Moonz, senza dire niente a nessuno, si era portato appresso da Rhon. Nessuno, d’altronde, si era preso la briga di interrogarlo sulle sue intenzioni riguardo il prosieguo di quell’interminabile vicenda. Lui si era limitato a caricarsi la borsa sdrucita a tracolla e a incamminarsi al loro seguito, come se fosse il comportamento più ovvio da tenere. Dopotutto nessuno lo aveva costretto a intraprendere quell’ennesima fase del viaggio, così come nessuno gli aveva imposto di rimanere tutto quel tempo in attesa al campo della Prima Legione. In sostanza, nessuno avrebbe potuto fornire una spiegazione delle motivazioni del mezz’orchetto, lui per primo. Ciononostante – questo, forse, il risvolto più irrazionale della faccenda – nessuno se ne stupiva.

    Moonz si era tirato appresso il nuovo socio di vagabondaggi, che si defilava spesso per gironzolare per proprio conto, salvo poi tornare dal suo – padrone –, con il quale era giorno dopo giorno più affiatato. Affatto diverso era l’atteggiamento che il gatto selvatico riservava agli altri, con i quali si mostrava teso e diffidente. Il nervosismo di Unghialunga aumentò con il peggiorare delle condizioni atmosferiche. Il felino si aggirava inquieto tra le rocce e in un paio di occasioni giunse a manifestare irritabilità nei confronti dello stesso Moonz. Anche il mezz’orchetto mostrò una certa irrequietezza quando il sole fu inghiottito dalla coltre cinerina sulle loro teste. Scoccò occhiate oblique alle nubi procellose, annusò l’aria fredda e borbottò parole incomprensibili.

    Dapprima i nembi si addensarono fino a colmare il cielo, vaporosi ma compatti. Per un’intera giornata vorticarono attorno alle cime più alte delle montagne, sospinti dal vento. Quando il vento cadde languirono sempre più cupi sulla Muraglia: si fecero via via più bassi, il loro colore bigio si sfumò di nero, l’aria ristagnò umida e mortalmente calma. L’odore inequivocabile della quiete ingannatrice avvisaglia di tempesta riempì il naso dei compagni. Di lì a poco l’atmosfera greve si frantumò.

    La staticità dell’aria, così terribilmente carica di attesa, fu squarciata dal balenio dei primi lampi. La Sella del Gheppio fu scossa da tuoni potenti. Goccioloni di pioggia macularono le scabrosità della roccia, preludio dello scatenarsi del temporale. Un rovescio gelido investì i viandanti con violenza e repentinità tali da lasciarli storditi e sconcertati. Cercarono di individuare un riparo per sottrarsi alla furia degli elementi, l’aria viscosa era svanita, disciolta nel muro d’acqua scrosciante.

    Fu Lothar a tentare di guidare la compagnia in salvo. Purtroppo il suo orientamento, già messo a dura prova da quel dedalo di pietra, si spense come un lumicino privo di ossigeno nel cuore della buriana.

    Si spinsero confusi dentro le montagne. Il rischio di precipitare in un dirupo era terribilmente elevato. Il cielo sulle loro teste si era tramutato in una gigantesca volta livida squassata dal susseguirsi incessante delle saette. I tuoni rimbalzavano intrappolati nel ventre del valico e li assordavano senza pietà.

    Per due ore si trascinarono lungo la Sella del Gheppio accecati dall’acqua e storditi dai boati. Si raccolsero attorno a Lothar, che però non riusciva a mantenere con continuità l’orientamento. Il mulo e il cavallo recalcitravano senza posa, terrorizzati dalla tempesta. Il gelo penetrava gli abiti fradici e attaccava i muscoli e le ossa. La disperazione stava per chiudersi sul gruppo stremato allorché la luce già scarsa sfiorì all’appressarsi dell’imbrunire. Di notte le probabilità di trovare un rifugio sicuro in quell’intrico di cenge e crepacci erano di fatto nulle. Lothar incitò gli altri ad accelerare il passo per anticipare in qualche modo il calare delle tenebre. Il gruppo provò a reagire, ma gambe e schiena erano quasi paralizzate. Quando le ombre s’infittirono sotto il cielo violentato tutto sembrò davvero perduto.

    Poi, all’improvviso, la voce roca di Moonz si levò sopra il frastuono della bufera.

    – Luci! – strepitò. – Là! Là! Luci!

    Sollevò un braccio ossuto dall’ammasso di stracci zuppi e incollati. I compagni strizzarono gli occhi per perforare la cortina d’acqua. La pioggia che picchiava copiosa sui loro volti rendeva faticoso persino alzare le palpebre.

    – Non vedo niente – disse Mutio in un rantolo.

    – Neanch’io – borbottò Thorval.

    – Dove, Moonz? – ringhiò Lothar. – Dove?!

    – Là! – sbraitò il mezz’orchetto, che continuava a camminare quando tutti si erano fermati. Barcollò sulle gambe storte. – Là!

    Lothar cercò di nuovo, ma non vide nient’altro che ombre liquide. Scosse la testa ansimando.

    – Le vedo! – scoppiò di botto Rugni. – Per il trono di Tharakas, le vedo anch’io! Avanti a noi!

    – Muoviamoci, allora, per gli dèi! – abbaiò Lothar.

    La vista straordinaria di Moonz, retaggio del sangue orchetto e fattore paradossalmente comune al nano Rugni, condusse la compagnia esausta alle case in prossimità dello sbocco occidentale della Sella del Gheppio.

    3

    Il borgo era raccolto in un’ansa del valico, nei pressi di una vecchia miniera d’argento da tempo esaurita. La luce scorta da Rugni e Moonz filtrava dalle imposte di alcune casupole. Un poco in disparte, tra i detriti di un ghiaione, sorgeva un fortilizio: una torre di pietra cruda circondata da una manciata di altre costruzioni, il tutto recintato da una doppia palizzata di legno.

    Fu proprio nel fortilizio che i compagni trovarono riparo. A offrire loro asilo furono i soldati stanziati nel presidio. Mutio fu il primo a rimanere di stucco nel notare la spilla di ferro che indossavano sul corpetto di cuoio all’altezza della spalla destra. Il monile era a forma di testa di leone, emblema della città e della Repubblica di Rhon. Lo stupore dell’Alteano scomparve non appena gli stessi soldati, accortisi della sua perplessità, gli fornirono una rapida spiegazione.

    Erano addetti alla sorveglianza del valico sul lato ovest delle montagne perché il fortilizio era edificato in corrispondenza del confine occidentale della Repubblica di Rhon. In ventinove vivevano nella torre e, assieme alle loro famiglie, costituivano quasi la metà della popolazione del borgo, che dall’abbandono della miniera d’argento era abitato esclusivamente da pastori. Quando Rhon era finita in mano agli eserciti di Caeres, un corriere imperiale era venuto a portare la notizia della caduta della Repubblica e della restaurazione dell’Impero in quei domini. A loro era stato comandato, per esplicita disposizione delle nuove autorità sovrane, di mantenere la vigilanza sulla frontiera fino a nuovo ordine.

    L’estremità occidentale della Sella del Gheppio era un territorio impervio e isolato, di scarso interesse per gli ufficiali di Caeres, che avevano questioni ben più urgenti da risolvere. La guerra aveva spopolato le poche zone abitate della Muraglia, aveva reclamato i suoi martiri tra i minatori e i pastori immolati in difesa della patria. Chi era rimasto non aveva mai nutrito un grande interesse nei confronti della guerra. La vita degli abitanti di quelle regioni aspre e remote non cambiava di certo se il gabelliere mandato ogni mese a riscuotere i tributi era inviato dal senato di una repubblica plutocratica o dall’autorità di un imperatore. La Sella del Gheppio era uno dei valichi meno accessibili e quindi meno battuti: per loro il mondo poteva benissimo terminare oltre il confine dei magri pascoli dove brucavano gli armenti. Per questo motivo, quando il corriere imperiale, uno dei tanti inviati nei quattro angoli della ex Repubblica ad annunciare la fine della guerra, aveva portato la sua ambasciata, i soldati arroccati in quell’avamposto dimenticato non avevano potuto fare altro che prenderne atto con una scrollata di spalle. Tutti loro erano fin troppo consci di quale fortuna fosse stata trovarsi sulla Muraglia invece che sui bastioni di Rhon a nutrire la strage dei suoi difensori. Era coerente con la loro abulia il fatto che non si fossero scomodati a privare la propria uniforme dello stemma leonino della Repubblica defunta. All’ombra delle rupi di granito della Sella del Gheppio a nessuno sarebbe venuto in mente di protestare.

    Cenarono con brodo caldo e carne di pecora arrostita assieme ai soldati, nei locali bui e disadorni della torre. I militari parlavano un dialetto molto stretto che i compagni, nonostante i mesi trascorsi a viaggiare per il continente, faticavano a comprendere. Non erano a ogni modo loquaci, e d’altro canto loro erano troppo stanchi per avere voglia di intavolare lunghe discussioni. Desideravano soltanto riscaldarsi le membra e lo stomaco prima di cadere addormentati su un giaciglio asciutto.

    – Andate a ovest? – chiese a Lothar uno dei soldati in un raro frangente di conversazione.

    Lothar annuì.

    – A ovest c’è il deserto. – Tono sibillino, proprio di chi inoculi un significato profondo appena sotto la pellicola delle parole. Voce bassa, quasi un mugugno.

    – Lo sappiamo.

    Lothar fu altrettanto laconico. Aveva da poco finito di mangiare e si era acceso la pipa. Osservava dalla finestra la pioggia, che non accennava a smettere.

    – Il deserto è terra morta – commentò ancora il soldato con flemma. – Terra bruciata da un sole feroce.

    – Quanta? – volle sapere Lothar.

    Il soldato si strinse nelle spalle.

    – Miglia e miglia di terra riarsa. Le montagne sanno essere un luogo ostile, ma il deserto… Qualche viandante giunge qua da quel posto, ogni tanto, per attraversare il passo. Con questi occhi, però, ne ho visti pochissimi compiere il tragitto inverso. A ponente della Muraglia non c’è niente di niente, solo terra sterile. Niente che possa spingere ad andarci. Il mondo, qui, ha il suo confine. A est continua, sicuro. A ovest si trova solo il nulla.

    – Non è il deserto che ci interessa. – Lothar sbuffò fumo da un angolo della bocca. Scorse una scintilla d’allarme negli occhi del suo interlocutore. – È al di là di esso che siamo diretti.

    Il soldato non parlò per un paio di minuti. Il solo rumore nella stanza era il brusio del carbone nel camino, mischiato al ticchettio della pioggia. Gli altri soldati presenti si concentrarono sui resti della cena. Ai compagni non sfuggirono le occhiate in tralice che lanciarono al loro indirizzo.

    – Oltre il deserto c’è la morte. – L’inflessione monocorde del soldato tradì un brivido. L’uomo fissò tetro Lothar e scosse piano la testa. – Morte e dannazione. Esistono luoghi rinnegati da Dio, – aggiunse a mezza bocca segnandosi frettolosamente il petto con una mano, – dove l’uomo non deve mai mettere piede. Non si calca la terra maledetta dall’Onnipotente.

    Detto questo, non intervenne più per tutta la serata, così come fecero gli altri commensali. La discussione scivolò sotto i rumori di fondo e il silenzio che provava a coprirli.

    I compagni finirono di cenare e si ritirarono nelle stanze messe a loro disposizione per la notte. Il temporale si attenuò, infine cessò un paio d’ore prima dell’alba. Quando si svegliarono il cielo era tornato visibile attraverso gli strappi delle nuvole spronate dal vento.

    Capitolo III

    1

    Durante la discesa dalle montagne non ci furono imprevisti. Il cielo, tornato sereno dopo la bufera, rimase tale. Se la sorte aveva voluto mettere loro i bastoni tra le ruote sulla Muraglia, sembrava avesse deciso di limitarsi all’ascesa.

    Si ritrovarono immersi in una fitta vegetazione subito dopo essere scesi al di sotto della Sella del Gheppio. Vaste macchie di aceri tappezzavano i pendii di un manto verde cupo. Una falda compatta di cespugli s’attorcigliava fra i tronchi. I boschi fornivano una comoda protezione contro il vento e allo stesso tempo attenuavano con la loro ombra il tepore del sole garantendo una temperatura gradevole.

    Sfortunatamente la rigogliosità del versante occidentale della Muraglia si rivelò presto un’illusione. La compagnia non fece quasi in tempo a godersi il conforto del paesaggio che lo vide mutare. In perfetta antitesi con la metamorfosi avvenuta durante la scalata orientale, la montagna andò spogliandosi. Le distese di alberi si ridussero a boschetti sporadici prima di svanire del tutto. La flora rinsecchì, erba e roccia furono soppiantate da un terreno brullo e sabbioso. Quando infine raggiunsero i colli alle falde delle montagne, ebbero l’impressione di essere tornati tra gli aridi Poggi Scuri. La differenza era che lì lo sguardo non spaziava sul panorama monotono delle alture gibbose: in cima all’ultima schiera di colline i loro occhi furono calamitati da un’immensità vacua che si dilatava fino all’orizzonte.

    Contemplarono il deserto che, all’apparenza sconfinato, ricambiò indifferente.

    2

    Il deserto li ingoiò con la repentinità dell’onda che trascini in mare una manciata di conchiglie sparse sulla rena. Si spalancò dinanzi a loro e li fagocitò prima che avessero modo di coglierne la vastità. Come unico riferimento rimase l’iride incandescente del sole, che li fissava dall’alto. Il resto del paesaggio era d’una monotonia impressionante. Le montagne li avevano trascinati in un groviglio rupestre, disorientandoli con un territorio intricato ma ricco di sfumature: tutto il contrario del panorama che li attorniava ora. Dovunque volgessero lo sguardo, lo scorcio replicava se stesso: un tavolato arido e brunastro martoriato dalla siccità, una piana smisurata e terribilmente uniforme. Gli unici elementi che ne diversificavano l’aspetto erano le dune amorfe di roccia frastagliata e le crepe scabbiose che sfiguravano il suolo come antiche cicatrici. La terra era dura e screpolata, arsa dal sole e dalla sabbia. Ciottoli smussati erano sparsi dappertutto, in compagnia di rari macigni e di escrescenze calcaree dalle bizzarre forme tortili. Un vento rovente soffiava debole ma costante da sud. Come una ciclopica mola manovrata dagli dèi, foggiava l’omogeneità del deserto: erodeva le rocce e smerigliava le dune, trascinava la sabbia scorticando la terra sterile.

    Impararono presto a conoscere l’ostilità del territorio, che così facilmente invitava a entrare e subito aggrediva crudele. Lothar era l’unico ad aver avuto in anticipo un’idea di cosa li aspettasse. Mighal lo aveva istruito anche su quello. Sapere non lo salvò comunque dai patimenti. Camminava in testa al gruppo trascinando il cavallo per le briglie e ignorando il tocco incandescente dell’aria. La tesa anteriore del cappello era piegata verso il basso a proteggergli la zona superiore del viso; malgrado ciò, aveva la pelle arrossata e rigata dal sudore. Il mantello gli pesava sulle spalle. Era tanto il calore che avvertiva che la cappa nera gli pareva spennellata di pece surriscaldata. Il petto madido era visibile tra i lembi della camicia, parzialmente aperta. I raggi del sole gli cuocevano la carne e accendevano come una piccola stella il pendaglio d’argento a forma di giglio che gli oscillava sotto la gola. La tentazione di strapparsi di dosso i vestiti era forte. Ma sarebbe stata una pessima idea, a detta di Mighal. Il Venerabile Maestro lo aveva ammonito che la pelle non avrebbe resistito al tocco diretto del sole, ne sarebbe stata ustionata. Oltre a difendere la cute, la lana manteneva costante la temperatura del corpo impedendole di salire oltre misura. Sembrava assurdo ma era vero. Lothar lo aveva spiegato agli altri prima che scendessero dalle montagne.

    Rugni non sembrava avere prestato orecchio alle raccomandazioni. La camicia gli pendeva addosso completamente sbottonata e intrisa di sudore. Aveva pure provveduto ad arrotolarsi le maniche sui gomiti. La pelle esposta al sole, già di per sé abbronzata, si era tinta di un rosso carminio, vivace quasi quanto i peli della barba.

    – Dovresti perlomeno proteggerti la testa – gli suggerì Lothar.

    Il cranio calvo del nano rifletteva la luce allo stesso modo dell’ascia appesa sulla sua schiena. Rugni gli scoccò un’occhiata di sufficienza.

    – Non ho la cotenna delicata di voi uomini. – Il nano si diede un colpetto a mano aperta sulla testa arrossata. – Piuttosto è la gola arsa che m’infastidisce. – I suoi occhi azzurri rotearono in direzione delle otri di birra appese alla sella del cavallo. Si passò la lingua sul labbro superiore ma non aggiunse altro. Lothar era stato irremovibile nel disporre il rigido razionamento dell’acqua e della birra durante la traversata del deserto.

    – Guarda che se non ti copri, il sole ti rosola il cervello – s’intromise Mutio. – È già arduo sopportarti così, figuriamoci con la testa arrostita. – Simone si schermò gli occhi con una mano per guardare il cielo. – Questo sole sembra cuocere anche i pensieri – rifletté a voce alta.

    A differenza del nano, Simone si era adeguato ai consigli di Lothar. Aveva sfilato dalla propria sacca un lungo caftano verde e giallo e lo aveva indossato sopra la camicia e le brache. Aveva completato l’abbigliamento con un copricapo imbottito, largo e schiacciato, dotato di ampi bendaggi con cui si era mascherato il volto lasciando scoperti soltanto gli occhi.

    – Che vorresti insinuare? – Rugni si accigliò.

    Gli occhi nocciola di Mutio rivelarono il sorriso nascosto dai bendaggi, ma il nano non lo colse.

    – Non ti offendere, lo dico perché mi preoccupo per la tua salute.

    Rugni fece fremere i baffi.

    – Tranquillizzati. Per fortuna posso tirare avanti senza travestirmi da salma ambulante come fai tu. – Ridacchiò di gusto.

    Mutio non ribatté. Infilò le mani nelle maniche svasate del caftano. Lo aveva vinto ai dadi vicino al bivacco di un gruppo di mercenari Tanzali arruolati nelle file imperiali. Con sommo compiacimento, si era reso conto in prima persona di quanto fosse veritiero il luogo comune su quel popolo esotico: i Tanzali erano tutti molto orgogliosi e testardi e mal sopportavano di doversi tirare indietro da una sfida, anche quando ne uscivano ripetutamente sconfitti. Simone non si era fatto scrupoli a sfruttare quel fattore per guadagnare un po’ di denaro e qualche simpatico dono. Il caftano era appartenuto a un mercenario con la sua corporatura, solo un po’ più alto. Il bordo della veste strusciava appena per terra raccogliendo qualche granello di sabbia. Il copricapo lo aveva sottratto a un secondo avversario mentre un terzo aveva saldato il debito con un piccolo orecchino d’oro. Simone, abituato in gioventù a indossare quel genere di monili, se lo era agganciato al lobo sinistro. Imbacuccato com’era, sembrava la copia pulita e ordinata di Moonz, che lo seguiva a qualche passo di distanza.

    Anche lui nascondeva il viso, nel suo caso deforme, dietro i bendaggi. Era meno sensibile degli altri all’estrema calura. Affrontava caldo e freddo con pari stoicismo, grazie alla parziale refrattarietà del suo fisico ai picchi termici di qualsiasi natura. Unghialunga gli zampettava accanto, anche lui all’apparenza poco preoccupato.

    Lothar deglutì. La gola gli dolse, asciutta. Si guardò i piedi, il pulviscolo di sabbia sollevato dai suoi stivali e l’impronta netta delle suole sul terreno disidratato. Era incredibile come il sole riuscisse ad annientare tutte le ombre. L’assenza di grossi elementi nel paesaggio rendeva ancora più semplice quella capricciosa magia della natura. Sentì di avere sete. Avevano bevuto un’oretta prima. Doveva pazientare. Cercò un soggetto che potesse distrarre la sua mente dall’infido desiderio.

    Thorval conduceva a capo chino il mulo alla sua destra. Pativa più di tutti l’abbraccio del deserto. Il suo volto smunto appariva più lungo del solito. Due chiazze gemelle, purpuree come rose selvatiche, gli accendevano le gote. La fronte era imperlata di sudore, così come la chioma corvina, lunga sulle spalle. Si era tolto la cotta metallica per evitare che le sue carni finissero arrostite, ma il mantello sembrava sufficiente a piegargli le spalle mentre strascicava i piedi tirandosi dietro il mulo.

    – Tutto bene? – gli domandò Lothar. Distingueva i guizzi di sofferenza che ogni tanto balenavano negli occhi grigi del mercenario. Sapeva che il giovane, nato e svezzato tra le lande glaciali del Regno del Nord, avrebbe patito maledettamente il clima torrido. Il sole accendeva di colori violenti le zone esposte del suo corpo.

    Thorval assentì con un mugugno seccato. Era poco avvezzo alle lamentele. Strattonò le redini del mulo e raddrizzò la schiena.

    – Spero che il sole cali presto – affermò boccheggiando. – E che almeno la sera porti un po’ di frescura.

    Lothar scalciò via un ciottolo.

    – Attento a quello che chiedi, Thorval. Questo è un luogo ostile, con la luce e con la tenebra. Un luogo avaro di concessioni.

    3

    L’avvertimento di Lothar si concretizzò non appena il sole fu sprofondato a occidente. La calura insopportabile del giorno si dileguò con la luce, e la temperatura crollò vertiginosamente. I compagni si strinsero nei medesimi indumenti usati fino a quel momento per proteggere la pelle dal sole. Rabbrividirono, sbalorditi per il brusco cambiamento. Il vento torrido del sud si raffreddò anch’esso e aumentò d’intensità.

    Si accamparono alle prime ombre della sera. Un punto valeva l’altro in quella piana desolata: raccolsero dei sassi levigati e

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