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Via Dei Fossi 35
Via Dei Fossi 35
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E-book462 pagine6 ore

Via Dei Fossi 35

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Info su questo ebook

Lucca, estate 1974: da un appartamento al numero 35 di via Dei Fossi si sprigiona un tanfo insopportabile. Sul posto accorre una gazzella dei carabinieri, al comando del tenente Simone Morelli, che si trova di fronte all’enorme cadavere di una donna in avanzato stato di decomposizione. A complicare la vicenda, l’inspiegabile e misteriosa scomparsa del piccolo figlio della gigantessa.
Più di quarant’anni dopo, una famiglia milanese, in cerca di una nuova vita e di tranquillità, si trasferisce nella splendida città toscana, ignara di dover recitare la propria parte all’interno di un caso che pareva chiuso per sempre.
Tra fantasmi del passato e inquietanti presenze, i protagonisti si confrontano con un destino che pare già segnato, vittime delle proprie debolezze, ma spinti da una carica di profonda umanità.
L’intricata matassa degli eventi e dei pensieri si riannoda ogniqualvolta sembra dipanarsi e solo alla fine sarà possibile trovarne il bandolo.
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2020
ISBN9788832144710
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    Anteprima del libro

    Via Dei Fossi 35 - Patrizia Scialoni

    astra

    PROLOGO

    Il tuono squarciò il silenzio della stanza.

    Uno schianto secco, senza preavviso, seguito da un boato mi naccioso, come se il cielo stesse rigurgitando qualcosa d’immens o sul mondo, travolgendolo. Dal buio della notte la luce violenta dei fulmini infranse l’oscurità, frugando negli angoli alla ricerca di qualcosa.

    «Mamma?»

    Il bambino riuscì a vincere il terrore che lo attanagliava e sussurrò la parola nelle tenebre: il temporale lo aveva strappato al sonno, scaraventandolo in una realtà sconosciuta.

    Fuori il vento impazzito tiranneggiava le persiane, facendole sbattere con forza contro i muri della casa, mentre gli scrosci di pioggia che picchiavano sul vetro erano come il fruscio di mille tormenti. Sul comodino accanto al grande letto matrimoniale rimaneva sempre accesa una lampada, ma la tempesta aveva fatto saltare la corrente e la camera era piombata nel buio più totale: lo sgraziato russare della mamma era l’unico elemento familiare rimasto a tenergli compagnia.

    Un altro tuono rimbombò nel cielo facendo tremare i vetri.

    «Mamma...»

    La voce del bimbo riuscì a malapena a emergere, bloccata da un nodo di terrore in fondo alla gola. Nel buio cercò l’orsacchiotto che teneva sempre vicino e lo strinse forte, mentre i tuoni strappavano ancora con il loro ruggito il telo nero della notte.

    Iniziò a piangere, cercando però di far meno rumore possibile: pensava che se fosse rimasto in silenzio, nessuna cosa malvagia lo avrebbe potuto trovare e portare via. E così fece, rimanendo fermo, immobile, abbracciato al proprio giocattolo, soffocando la paura insieme ai singhiozzi, mentre invocava la madre con sussurri senza voce in direzione del lettone. Quando però l’ennesimo tuono esplose all’esterno con un violento fragore, non resistette oltre e si alzò. Con le mani paffute si aggrappò alle sbarre del lettino e provò a strattonarle, nella vana speranza di poter forzare i meccanismi che lo tenevano prigioniero. Poi, strusciando lungo il bordo, si avvicinò a uno degli angoli di legno, per provare a tirarsi su.

    Un lampo lo fotografò in quella posizione, mentre la ma dre , a pochi passi da lui, si mosse appena nel lettone.

    «Mamma...» sussurrò al niente.

    Attanagliato da una paura che non aveva mai conosciuto, il piccolo alzò una gamba per scavalcare la recinzione e un altro bagliore lo immortalò sbilanciato nel nulla. Le lacrime iniziarono a gonfiarsi sotto le sottili palpebre, mentre il minuscolo cuore galoppava irrefrenabile in un petto pronto a squarciarsi di lì a poco.

    Un piccolo salto e sarebbe stato nel lettone. Sapeva che era vietato, la mamma non gli permetteva di dormire con lei, ma quella sera la paura era troppo grande, la stanza troppo nera e lui si sentiva terrorizzato. Facendo forza sulle braccia tremolanti, si affacciò oltre il bordo del lettino e dopo un’ultima esitazione si lasciò cadere giù, nel buio.

    Invece di atterrare nel lettone matrimoniale, venne accolto dal freddo del pavimento, dove le vecchie mattonelle scalfirono in più punti la gamba destra. Un dolore improvviso brillò nell’oscurità, mentre qualcosa di caldo iniziò a colare lungo la gamba nuda e un brivido lo percorse tutto. Senza riuscire a trattenere le lacrime raccolse le ultime forze rimaste, si aggrappò al bordo del letto per alzarsi e gattonando si avvicinò alla sagoma della mamma.

    Quando sentì quella pelle morbida, sorrise e, ormai più tranquillo, si accoccolò lì vicino, cercando con la mano una ciocca di capelli, che iniziò ad arrotolare intorno a un dito. Quel contatto lo confortò, spazzando via tutte le paure.

    Adesso non c’era più niente che potesse fargli male.

    1

    Lucca, martedì 20 Agosto 1974

    La strada sembrava sanguinare.

    Chiazze di colore tremolavano sull’asfalto, come se i palazzi si specchiassero in un fiume, facendo brillare di riverberi rossastri la strada a quell’ora deserta. L’aria immobile e arroventata ricopriva la cittadina con l’abbraccio soffocante di un amante maldestro che, spinto da una passione inaudita, non si accorge di soffocare il suo amore.

    La Giulia Super color cachi scuro percorse a velocità sostenuta la circonvallazione, poi svoltò a sinistra all’incrocio con via Elisa e perforò l’antica cerchia delle mura urbane. Le sirene erano spente, ma le luci intermittenti sul tettuccio significavano che i carabinieri avevano una certa fretta. L’auto percorse il viale, poi svoltò in via dei Fossi, accostando nei pressi del civico 35. Prima di scendere i tre militari si aggiustarono il cravattino, chiudendo l’ultimo bottone della camicia che avevano slacciato per respirare meglio, e si avvicinarono all’uomo in canottiera e calzoncini, fermo in piedi vicino al portone.

    In testa al gruppetto, il tenente dei carabinieri Simone Morelli camminava spedito, fissando lo sconosciuto di fronte a sé e augurandosi con tutto il cuore che ci fosse un motivo valido per l’urgenza di quella chiamata: tra risse, furti e cazzate varie era stata una settimana insolitamente movimentata e non aveva voglia di inserire in quell’elenco anche le perdite di tempo.

    Si fermò davanti all’uomo, cercando di essere affabile, ma il caldo di quella giornata aveva messo a dura prova la sua pazienza, rendendolo scostante e nervoso.

    «Buongiorno, sono il tenente Morelli. Lei è il signor Brunetti?» chiese tendendogli la mano.

    L’uomo buttò via la sua Nazionale e si affrettò a stringere la mano che il carabiniere gli tendeva.

    Come inizio non c’è male, si disse l’ufficiale, obbligato a scrollare la mano moscia e sudata che il tizio gli aveva teso.

    «Sì, sono io. Vi ho chiamato un’oretta fa.»

    «Infatti. Siamo venuti il prima possibile.» Morelli controllò alcuni fogli spillati in una cartellina. «Può darci più informazioni?»

    Brunetti si schiarì la voce e iniziò quello che sembrava un monologo ben pianificato.

    «Dunque, tenente, questa mattina io e la mia famiglia siamo rincasati dopo una vacanza di due settimane al mare.» In realtà era stato prigioniero a casa della suocera, ma ritenne che questo particolare fosse irrilevante ai fini della chiamata.

    «Sì...»

    «Ho parcheggiato la macchina qui davanti e poi ho iniziato a scaricare le valigie: quando andiamo via mia moglie porta tanta di quella roba che sembra di fare un trasloco! Ma d’altronde, sa, con le bambine...»

    Morelli si passò una mano con discrezione sulla fronte per ripulirla dalle goccioline di sudore, mentre l’appuntato Biagini tentava di nascondere le chiazze scure che si stavano espandendo in maniera imbarazzante sulla camicia, all’altezza delle ascelle.

    L’esposizione del signor Brunetti sembrava non andare a parare da nessuna parte, quando di colpo entrò nel vivo della questione.

    «E abbiamo sentito un puzzo incredibile!»

    «Prego?»

    «Ma sì, venite con me.»

    Brunetti si spostò di lato e li fece entrare nel piccolo atrio del palazzo dove abitava.

    «Lo sente?»

    I carabinieri fiutarono l’aria intorno. L’odore vago della muffa del vecchio palazzo scomparve quasi subito, lasciando spazio a un altro odore più forte, sospinto da un lieve colpo d’aria. Qualcosa di dolciastro.

    «E qui siamo al piano terra. Seguitemi al primo piano.»

    I quattro uomini iniziarono a salire le scale: a ogni scalino l’intensità dell’odore aumentava, prendendo una connotazione vagamente nauseante.

    «Ecco» esordì Brunetti, «questo è il mio appartamento. L’odore viene da qui» indicò la porta opposta sul pianerottolo.

    Il tenente Morelli si avvicinò leggendo il nome scritto a mano sul campanello: C. Santini.

    «Chi abita qui dentro?»

    «Cristina. Abbiamo provato a suonare. Mia moglie le ha pure telefonato, ma si sente solo il telefono che squilla e basta. Non c’è nessuno lì dentro. Penso che sia andata via e qualcosa in casa stia andando a male: forse si è rotto il frigorifero.»

    Mentre il signor Brunetti continuava a esporre le sue teorie, Morelli si accostò alla porta inspirando forte: l’odore, più aggressivo e intenso di prima, sembrava in effetti provenire da quell’appartamento. Suonò il campanello e dall’interno della casa sentì trillare qualcosa di sgraziato. Riprovò di nuovo, poi iniziò a bussare con vigore.

    «Signora Santini?»

    Nessuna risposta. Riprovò ancora, ma senza ottenere alcun risultato. Allora si tolse il cappello e si passò la mano tra i capelli scuri, una carezza nervosa che scivolò lungo la faccia fino a soffermarsi sul mento ben rasato. Con una domanda racchiusa nello sguardo si voltò verso i colleghi, che risposero alzando le sopracciglia.

    «Che fate adesso? Sfondate la porta?»

    Brunetti, eccitato dalla piega che stava prendendo la situazione, si preparò a vedere i carabinieri in azione.

    «Questa porta è massiccia, possiamo fare ben poco. Mi devo consultare con il comando. Biagini, per cortesia, tenti ancora di mettersi in contatto con l’interno.»

    Mentre Morelli scendeva di corsa le scale, sentì l’appuntato colpire la porta più volte, chiamando a gran voce la signora Cristina. Fuori l’aria immobile del primo pomeriggio estivo l’abbracciò in uno slancio inaspettato.

    Sempre meglio ‘sto caldo che sopportare quell’odore, pensò apprestandosi a comunicare via radio con il comando.

    Quando i colleghi lo videro tornare, notarono che aveva la borsa degli attrezzi in mano e le sfumature di una colossale arrabbiatura dipinte sul viso, di solito imperscrutabile.

    «C’è un incendio sul monte Serra e i vigili del fuoco sono impegnati lassù. Il capitano comunque ci ha dato carta bianca: si tratta di un caso di emergenza e non è necessario aspettare l’autorizzazione del magistrato. Proviamo ad aprire noi questa porta, allora. Se non ce la facciamo ci proveranno loro stasera o domani. Capecchi, che ne pensa?»

    L’uomo scrutò la porta e poi dette un’occhiata agli attrezzi che il tenente gli offriva.

    «Penso che possiamo provare.»

    «Se avete bisogno di qualcosa, potrei...»

    «No, grazie signor Brunetti. Anzi, se vuole rincasare potremmo lavorare senza attendere alla sua incolumità». Brunetti non afferrò subito il senso della frase, ma si ritirò lo stesso nel suo appartamento, lasciando la porta accostata.

    I militari s’infilarono i guanti per mettersi al lavoro.

    «Che ne pensa, Morelli?»

    «Non lo so. La signora Santini deve aver avuto senza dubbio qualche problema con il frigorifero.»

    «Mah!»

    Capecchi e Biagini si alternarono intorno alla serratura della porta: uno lavorava di fino, l’altro di forza. Dopo una decina di minuti, la porta cedette e si aprì con un sospiro.

    «Capecchi rimanga qui» ordinò il tenente, mentre con una mano apriva lentamente la porta. A Morelli non piaceva delegare e se poteva, cercava di essere sempre in prima linea.

    «Signora Santini? Permesso? Sono il tenente dei carabinieri Mo...»

    La frase gli morì sulle labbra, serrate di colpo per contrastare un improvviso conato di vomito.

    La casa era una fornace: nella penombra imposta dalle persiane chiuse, l’aria ristagnava grave e malsana, impregnata da quell’odore disgustoso.

    Mentre Morelli e Biagini sparivano nell’infuocato ventre della casa, Capecchi rimase all’esterno, premurandosi di accostare la porta dell’appartamento e di spalancare la finestra del pianerottolo. L’aria torrida di quell’afoso pomeriggio iniziò a mescolarsi con l’odore proveniente dall’interno dell’abitazione, rendendo al carabiniere più facile respirare.

    Oltre la porta regnava il caos. Morelli procedeva piano, chiamando la signora, seguito dal giovane Biagini, preoccupato da quella situazione. Percorsero con cautela il piccolo corridoio, su cui si affacciavano due camere, che il tenente constatò essere in disordine e trascurate, fino ad arrivare alla stanza in fondo. Qui l’odore era così forte, da risultare una presenza quasi fisica. Morelli afferrò la maniglia della porta chiusa, quando sentì la mano dell’appuntato serrargli il braccio.

    Il ragazzo si teneva un fazzoletto intorno a naso e bocca: un blando tentativo per difendersi da tutto quel fetore.

    «Tenente, sente anche lei?»

    «Cosa?» domandò Morelli prima di essere bloccato da un sottile rumore insinuatosi nel silenzio del corridoio: un brusio, a volte più forte a volte più tenue, intervallato da quelli che sembravano essere dei piccoli tonfi nel vetro. Morelli abbassò la maniglia e con un po' di apprensione aprì la porta della cucina, non prima di aver messo la mano sul calcio della pistola.

    Qualcosa gli passò veloce tra le gambe facendogli fare d’istinto un salto all’indietro.

    Un gatto bianco e nero lo fissò dal corridoio leccandosi i baffi sporchi poi, miagolando in maniera strana, si diresse spedito verso la porta, guadagnando l’uscita.

    Morelli scosse la testa ed entrò in cucina, inconsapevole d’aver messo piede all’inferno.

    «Oh mio Dio» riuscì a mormorare appena.

    2

    Milano, zona navigli, settembre 2018

    Anna rimase un attimo ancora con lo sguardo rivolto al balcone della sua vecchia casa. Trasportata da una certa vena di romanticismo, che di solito non le apparteneva, aveva appeso un fazzoletto bianco a uno dei riccioli della ringhiera.

    «Il vento lo farà svolazzare» aveva detto alla sua bambina «e sarà come se la casa ci salutasse.»

    In piedi accanto all’auto stipata per il viaggio, cercò ancora con lo sguardo il rettangolo di stoffa che doveva svolazzare allegramente per loro, ma del fazzoletto non c’era più traccia: con molta probabilità una folata di vento, più forte delle altre, lo aveva portato via, nascondendolo da qualche parte; o forse il loro vecchio appartamento non li voleva salutare.

    Aprì lo sportello posteriore e appoggiò il borsone che aveva in mano sul sedile, dove ancora rimanevano ben visibili le tracce che un altro seggiolino da bambini aveva lasciato sulla tappezzeria. Senza rendersene conto le sfuggì un sospiro carico di amarezza e si sporse verso la figlia.

    «Sei pronta, Carla? Tra poco partiamo.»

    «Urrà!» urlò la bambina sgambettando felice. «E sarà un viaggio lungo, mamma?»

    «Lunghissimo, amore; però tu dormirai per tutto il tempo».

    Carla, eccitata, strinse forte il suo peluche e inondò l’abitacolo di risate innocenti.

    «Non vedo l’ora di partire!»

    Anna sorrise e si voltò in direzione di Francesco, suo marito, che stava ancora parlando con un vicino di casa, impegnato in quello che aveva l’aria di un complicato addio. Sbuffò e gli fece cenno con la testa di muoversi.

    «Mamma?».

    «Dimmi, amore».

    «Perché la casa non ci sta salutando come avevi detto tu?»

    «Perché... perché è una casa vecchia e come tutti i vecchi è un po' strana» rispose al volo, storcendo un po' la bocca: non era convinta nemmeno lei di ciò che aveva appena detto.

    «La nuova casa invece non è vecchia, vero?»

    Anna guardò la figlia con la bocca aperta, senza sapere di preciso cosa risponderle. Quanto poteva essere nuova una casa nel centro storico di una città?

    «È molto di più: la nuova casa è antica!».

    Lasciò sfumare la parola antica, caricandola con qualcosa di magico che rimase a galleggiare tra di loro.

    «Una casa antica» sussurrò la bambina. «Ma ci sono dentro i fantasmi?»

    «Sì, certo, ce n’è uno, ma è piccolino». Carla le lanciò uno sguardo terrorizzato. «Ma dai! Sto scherzando, su!»

    Ironia , pensò, i bambini non sanno cosa sia.Vedi di ricordartelo!

    Si chinò per darle un bacio e tranquillizzarla.

    La bimba l’abbracciò stretta e Anna inspirò forte il suo profumo, fatto di tenerezza e shampoo alla mela verde.

    «Ti voglio bene, amore mio».

    «Anch’io!»

    «Allora, siamo pronte per la partenza?» Francesco si unì a loro con la sua voce squillante e allegra.

    «È da un’ora che siamo pronte, noi» sbuffò Anna.

    «Esagerata! Comunque adesso partiamo per davvero» disse l’uomo, salendo in auto e agganciandosi la cintura.

    Anna rimase ancora qualche secondo a guardare il vecchio palazzone e sospirò. Dall’appartamento attiguo al loro, la signora Derossi, uscita per prendere qualcosa sul terrazzo, si voltò verso di lei e la fissò con il suo solito sguardo torvo, prima di alzare il mento in una sottospecie di saluto.

    Anna fece altrettanto.

    L’inaspettato colpo di clacson la fece trasalire e si affrettò a entrare nella vettura, dove Francesco stava controllando qualcosa sul suo telefono.

    «Mmm, guarda qua: fulmini e saette! Non sarà per niente un viaggetto facile.»

    «Lo so» sospirò Anna.

    Francesco la guardò in modo strano: sapeva che lei non si riferiva al tempo e quella risposta suonò come un campanello d’allarme, che però decise di ignorare. Mise una mano sulla coscia della moglie fasciata dal jeans scuro, tastando la carne che con fatica stava rimpolpando le membra ossute: nell’ultimo anno per fortuna aveva messo su qualche chilo, assumendo le forme di una donna vera.

    Anna raccolse quella carezza, intrecciando le proprie dita con quelle del marito e un sorriso timido le illuminò il volto.

    «Sei pronta?» le chiese lui con tono dolce.

    Deglutì e fece segno di sì con la testa.

    Quando il motore fu avviato, Anna abbassò il parasole dalla sua parte, per sbirciare nel piccolo specchietto di cortesia: gli occhi che apparvero sembravano i suoi, ma in realtà erano quelli traboccanti d’odio della donna che continuava a perseguitarla, nascosta in ogni riflesso.

    Quegli occhi spalancati e iniettati di sangue la fissarono tremando, carichi di una rabbia infinita. Anna distolse subito lo sguardo, e rimise il parasole al suo posto con un tonfo sordo.

    Fuori un paio di vicini accompagnarono la loro partenza con grandi sorrisi e braccia agitate da slanci eccessivi. La signora Derossi sparì quasi subito dal terrazzo, lasciando svolazzare al suo posto una tendina di perline.

    «Bene, tenetevi forte che si parte!» esclamò Francesco.

    «Evviva!» gli fece eco Carla, mentre Anna era impegnata a fare una cosa sola: lasciare il suo passato lì, al quarto piano di quel palazzo un po' retrò, appesantito dalle follie liberty di qualche architetto nostalgico, che custodiva da qualche parte il segreto della sua infelicità.

    «Sono pronta» disse tra sé.

    E per i primi chilometri ci credette davvero.

    3

    Lucca, martedì 20 Agosto 1974

    L’appuntato Capecchi era fermo sul pianerottolo e con una mano si torturava i folti baffi scuri, che ricadevano abbondanti sul labbro superiore, nascondendolo. Da quando i colleghi erano spariti nell’appartamento di Cristina Santini, una sgradevole sensazione aveva iniziato a serpeggiare dentro di lui: quel tanfo insopportabile, gli sembrava proprio quello di una montagna di carne lasciata a marcire.

    Tanta carne.

    Sbuffò e si trattenne dall’accendere l’ennesima sigaretta, sicuro del fatto che a breve i colleghi sarebbero usciti.

    A saltar fuori dall’appartamento fu invece un gatto, che lanciò una serie di miagolii striduli e insistenti. L’uomo si chinò per fargli una carezza, ma la bestiola si allontanò, fermandosi sul bordo delle scale: sembrava confusa e disorientata. Delle macchie color ruggine tappezzavano il muso del gatto, estendendosi sulla schiena e sulle zampette, che l’animale, un po' più tranquillo, iniziò a leccarsi con cura.

    L’appuntato si fece più attento e nell’innaturale calura impallidì: quelle macchie avevano tutta l’aria di essere chiazze di sangue secco. Eppure il gatto non sembrava né ferito, né dolorante. Provò ad afferrarlo, ma questo con uno scatto improvviso, scese le scale e sparì dalla sua vista.

    «Merda!» imprecò, accorgendosi soltanto quando ormai era troppo tardi che l’animale poteva essere la prova di qualcosa. Ormai il micio aveva raggiunto la strada e lo vide dalla finestra aperta, mentre camminava in maniera ancora un po' incerta per la via.

    «Buongiorno» si sentì salutare d’un tratto alle spalle.

    «Buongiorno» rispose alla donna che lo stava osservando dalla porta di casa Brunetti.

    «Alla fine ce l’avete fatta a entrare...»

    «Penso che sarebbe opportuno se lei rientrasse in casa, signora.»

    «Sì» disse lei, ma senza muoversi di un centimetro e continuando a fissarlo con gli occhi socchiusi, mentre con una mano provava a schermarsi dal sole che entrava dalla finestra spalancata.

    «Che ha combinato quella matta?»

    «Si riferisce alla signora Santini?»

    «Sì. Deve aver fatto un bel casino là dentro!»

    «Non lo so signora, ma le suggerisco di nuovo di entrare. A breve i miei colleghi sapranno...»

    «Sì, sì. Certo» e dopo una lunga pausa aggiunse: «L’ho sempre detto io che quella non ha tutte le rotelle a posto.»

    Non sapeva se fosse il caso di continuare quella conversazione. I vicini però spesso potevano essere utili alle indagini. Anche se al momento, a pensarci bene, ancora non c’era niente su cui indagare.

    «Intende dire che la signora Santini ha dei comportamenti strani?»

    La donna per tutta risposta incrociò le braccia e scosse la testa. Era piccola e mingherlina, con le sopracciglia sottili e un caschetto di capelli color cenere che sembrava scolpito.

    Capecchi spostò lo sguardo da quegli occhi agguerriti e per niente intimoriti che cercavano di pungerlo, reclamando la sua attenzione.

    «Non strani, stranissimi! Per me non è nemmeno normale, quella» sentenziò, ruotando l’indice all’altezza della tempia. Poi disse una frase che colpì l’appuntato.

    «È troppo grassa per essere normale!»

    Capecchi s’irrigidì e uno strano brivido gli corse lungo la schiena, nonostante l’afa.

    Poi dal ventre oscuro della casa, apparve Biagini, che quasi cadde sul pianerottolo, tanto era piena di foga la sua corsa.

    «Signora! Rientri subito in casa!»

    La donna, forse spaventata dal suo tono di voce, finalmente obbedì all’ordine ricevuto. I due agenti sentirono la chiave girare nella toppa in due frenetiche mandate.

    «Gesù, che macello!» sussurrò l’appuntato, con il viso sbiancato e le labbra tirate in una riga livida ed esangue.

    «Cavolo, ma che è successo?»

    «Non lo so, non lo so... ma di sicuro io lì dentro non c’entro più!»

    «Ma?»

    «Devo andare a chiamare il comando. Serve anche l’ambulanza» avvisò scendendo due scalini, un attimo prima di voltarsi di nuovo verso il collega. «Non entrare. Se ti vuoi bene, non entrare» aggiunse prima di sparire giù per le scale.

    Capecchi rimase in ascolto dei passi che rimbombavano nell’androne. I suoi sensi si erano fatti vigili e riuscì ad avvertire una goccia di sudore scendergli lenta giù dalla fronte, mentre qualcosa di strano lo avvolse, rendendogli impossibile fare qualsiasi movimento.

    Era paura, terrore allo stato puro, una sensazione che mai aveva provato così intensa e che decise subito di contrastare. Deglutì e si voltò verso la porta rimasta socchiusa: un corridoio si apriva davanti ai suoi occhi, per poi sparire in una penombra che smorzava le cose, accennandole appena, mentre il pavimento era una scacchiera di mattonelle bianche e nere che sfumava nel nulla.

    Le gambe si mossero, da sole, verso l’interno e lui fu costretto a seguirle, confuso da quell’odore pestilenziale, irrimediabilmente sedotto dall’orribile segreto che si celava in quelle stanze.

    Capecchi entrò accostando la porta dietro di sé.

    Dall’appartamento di fronte qualcuno chiuse il piccolo spioncino sulla porta: per il momento, non c’era più niente da vedere.

    4

    Lucca, settembre 2018

    La città accolse la famiglia Gualtieri con una pioggerella fitta e gelida, che picchiettava in maniera costante contro i vetri dell’auto. Quando all’uscita del casello autostradale intravidero le tanto decantate torri di Lucca, sul volto di Francesco si disegnò un’espressione di sollievo, mentre Anna appoggiò la schiena sul sedile, cercando una posizione più confortevole. Per tutto il viaggio aveva avuto una strana sensazione, una sorta di disagio che era aumentato durante il tragitto, fino a trasformarsi in un malessere fisico.

    «Eccoci arrivati!» disse Francesco, scatenando tutta una serie di gridolini dal sedile posteriore, dove la piccola Carla iniziò a esultare. La speranza di vedere la bambina addormentata era presto sfumata perché l’eccitazione del viaggio l’aveva resa per tutto il tempo vigile e attenta.

    Anna si costrinse a fare un sorrisetto al marito che la stava osservando preoccupato.

    «Tutto ok?» le aveva chiesto qualche minuto prima.

    «Sì, sono solo stanca. Non vedo l’ora di scendere e di farmi una doccia bella calda!» aveva risposto.

    In quel momento però, non stava pensando alla doccia: guardava le scie che lasciavano le gocce di pioggia sul vetro, come graffi di unghie che non volevano essere portate via. Scosse la testa e rimase a fissare il tergicristallo impazzito.

    Non le piaceva per niente quel benvenuto, come non le piaceva per niente quella città.

    L’anno precedente, quando avevano deciso di cambiare vita, l’agenzia dove lavorava il marito aveva proposto una rosa di filiali dove Francesco avrebbe potuto trasferirsi, facendo cambio di lavoro con un collega e, in una sera carica di felicità, avevano scritto quei nomi su dei bigliettini mettendoli in una scatola. Carla avrebbe pescato un biglietto, e quella sarebbe stata la loro nuova città: in quel periodo era parso loro un buon modo per risolvere la loro indecisione su quale preferire rispetto ad altre.

    Quando la manina paffuta della bimba era sparita dentro la scatola, c’era stato un attimo di silenzio, durante il quale Anna avrebbe voluto interrompere quell’assurda riffa. Ma la bambina aveva chiuso gli occhi iniziando a cercare il biglietto da estrarre, con una concentrazione eccessiva, che aveva fatto sorridere Francesco e inquietare Anna. Poi la mano si era fermata e la bambina aveva riaperto gli occhi guardando i genitori dritto in viso: un’occhiata che era durata pochi attimi, ma che aveva lasciato nell’animo della donna una sgradevole sensazione. Poi Carla aveva sbattuto le palpebre un paio di volte, mostrando il pezzo di carta ai genitori perché leggessero il nome della città.

    «Lucca...» aveva mormorato Anna.

    «Evviva! Andiamo a vivere a Zucca!» aveva esultato la bambina.

    «No, Carla. Non zucca , ma Lucca!»

    «È uguale mamma! Quella città dev’essere bellissima!»

    L’entusiasmo della bimba aveva strappato loro uno stiracchiato sorriso.

    Più tardi, nell’intimità della camera, Anna era riuscita un po' titubante a confidare al marito che Lucca non l’aveva mai presa seriamente in considerazione.

    «E allora perché non l’hai detto subito? Potevamo benissimo scartarla.»

    «Non lo so, sembrava una candidata perfetta, eppure... Scusami, è che forse sono un po' in apprensione e mi attacco a tutte le scuse. Ma ormai è andata: adesso m’informo meglio, e cerco di farmela piacere.»

    «Sicura? Lo sai che tutto questo lo stiamo facendo per te... per noi, volevo dire.»

    «Certo, sì» aveva risposto Anna rannicchiandosi sulla sua spalla.

    Lui l’aveva cinta con un braccio, dandole un bacio sul collo, dove sporgeva un piccolo lembo di pelle bianca dall’apertura del pigiama. Un bel bacio, casto e morbido, che non conteneva alcun secondo fine: si erano entrambi stancati di cercare di più, dove ormai c’era solo qualcosa di vago al quale non erano riusciti a dare un nome.

    «Ti amo» le aveva sussurrato all’orecchio, facendola rabbrividire.

    «Anch’io» gli aveva risposto, sporgendosi verso di lui per baciarlo, gustandosi quel brivido inatteso, che però scemò subito.

    Il silenzio di quel momento li aveva tenuti divisi, entrambi impegnati a scrutare se nella cenere del loro rapporto riuscisse a guizzare ancora qualche scintilla.

    Ma la ricerca fu vana.

    Matteo si era portato via tutto.

    «La sai una cosa?» aveva chiesto Francesco, sparpagliando i pensieri cupi.

    «No, dimmi.»

    «Anche per me Lucca era l’ultima scelta.»

    «Allora è perfetto! Penso che dovremmo proprio prenderla in considerazione questa città, visto che ci suscita la stessa impressione» e gli aveva sorriso.

    Un piccolo passo, certo, ma nella direzione giusta.

    E Lucca quella sera divenne per loro il posto segreto dove raccogliere le stelle cadenti, un luogo astratto che avrebbe esaudito il loro desiderio di serenità.

    In quell’anno di transizione Francesco era sceso più volte a Lucca, innamorandosi ogni volta un po' di più della città.

    «È una chicca! Davvero! Ci sono quelle mura che...» e via con una serie di resoconti dettagliati sulle sue spedizioni. Anna aveva notato come il trasloco gli stesse facendo bene, aiutandolo a tornare alla vita di prima. Per lei invece, era iniziato un percorso inverso: più Francesco si appassionava all’idea di andare ad abitare nella nuova città, più in lei cresceva una sensazione di disagio, che dava all’evento la connotazione di una fuga, una sorta di atto di codardia.

    Ne aveva parlato con Dorotea, la psicologa che la stava seguendo, la quale aveva detto che il cambiamento avrebbe giovato a tutti, soprattutto a lei, che perciò non doveva prenderla come una fuga, ma come un nuovo viaggio che avrebbe dato alla sua famiglia un’insolita spinta ad affrontare le faticose salite della vita.

    «Avete bisogno di un secondo inizio» le aveva detto con i suoi occhi scuri e calmi, fissandoli con fiducia nei suoi.

    Anna aveva scavato tra le macerie di cui si sentiva fatta, trovando nella polvere la voglia di riscattarsi e la forza per provare a tirare su di nuovo la propria esistenza. E Lucca era una tela bianca e anonima, che non l’avrebbe intralciata nel delicato compito di provare a rimettere insieme i cocci di sé stessa.

    E poi sperava che mettere chilometri tra lei e il proprio passato l’avrebbe senz’altro aiutata a non sentire più quell’odore. L’odore di sconfitta misto al tanfo della morte che esalavano dal ricordo di Matteo. Quella che era stata un’idea gettata lì per caso insieme a Francesco l’anno prima, " Che ne dici se ci trasferiamo? ", stava diventando una realtà.

    Anna guardò la pioggia ostile cadere intorno a lei, come una tendina di trine sottili che le impediva di vedere chiaramente cosa ci fosse là fuori.

    Tra i risolini della bambina e le storie allegre che raccontava il marito, in lei s’insinuò sempre più in profondità la sensazione che non sarebbe dovuta essere lì.

    5

    Milano, novembre 2013

    Lo studio era accogliente, luminoso, curato in ogni minimo dettaglio. I diplomi e i riconoscimenti che spiccavano sulle pareti davano la sensazione di trovarsi in un luogo dove lavorano persone competenti. L’uomo chino sulla scrivania e la giovane e graziosa assistente in piedi alle sue spalle impersonavano le figure perfette, che ognuno si sarebbe aspettato di trovare lì dentro: era quello che le stava dicendo il medico a stonare in quell’ambiente impeccabile.

    «Quindi, in base a ciò che abbiamo appurato, io proporrei un’interruzione di gravidanza ed essendo così avanti con la gestazione, opterei per questa settimana, in modo da non incorrere in ulteriori rischi per la sua salute. Va bene giovedì?» sentenziò, fissando i suoi occhi di un azzurro quasi trasparente in quelli spalancati di Anna, seduta sulla poltroncina imbottita, diventata scomoda all’improvviso.

    Lei rimase impigliata in quello sguardo, senza capire davvero cosa stesse accadendo. D’istinto mise la mano sul piccolo grembo appena sporgente: secondo le parole del dottore, lì dentro stava crescendo un abominio. Il nodo del pianto le serrò la gola, mentre il mondo intorno prendeva una connotazione assurda.

    Il suo bambino...

    «Oppure, se preferisce, potrei trovarle un posto venerdì pomeriggio; ma di questo non sono sicuro.»

    L’uomo notò l’angoscia della donna, ma preferì ignorarla, nascondendosi dietro una maschera di professionalità. L’assistente invece, le posò con delicatezza una mano sulla spalla.

    «Sta bene signora? Vuole un bicchiere d’acqua?»

    Anna la fissò con lo sguardo appannato e, trovando da qualche parte un po' di coraggio, riuscì a mettere due parole in fila: «Sì, grazie.» Poi si costrinse a guardare in faccia l’uomo, capendo di non essere abbastanza forte da fronteggiare quel muro di freddezza. «Va benissimo giovedì» sussurrò.

    Il medico fece scorrere le dita sulla tastiera del pc.

    «Alle cinque?»

    «Alle cinque.»

    Anna raccolse le sue cose, e si avviò verso la porta. Le parole la raggiunsero quando appoggiò la mano sulla maniglia, un attimo prima che fosse troppo tardi.

    «Signora, mi dispiace. Davvero.»

    Nel corridoio l’assistente le andò incontro, porgendole il bicchiere d’acqua promesso.

    «Signora, io...»

    «Non c’è niente da dire» rispose secca dopo aver svuotato il bicchiere.

    Fuori, il sole l’accarezzò e un refolo di vento già freddo si divertì a spettinarla. Vinta da un’improvvisa stanchezza interiore, si sedette su una panchina, mentre la struggente danza delle foglie d’autunno incorniciava il suo dolore. Nell’indifferenza della città,

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