Le infami
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Thriller - romanzo breve (99 pagine) - Lele se ne sta a bocca aperta, impietrito dallo stupore che si è congelato nello sguardo di ghiaccio di lei. Sente il fremito dei fogli che stringe nella mano. Nessun altro rumore: lui se n’è andato.
Lele, dieci anni, ha appena assistito alla morte atroce dell’unica persona che lo ha accudito per tutta la sua vita. Chiede aiuto, ma ha paura che lui torni. Solo Anita Mancini ed Ettore Falco possono aiutarlo, ma per risolvere il caso dovranno mettere da parte i loro segreti e affrontare i rispettivi demoni.
Massimo Tivoli è nato a L’Aquila, quarantaquattro anni fa, dove vive e lavora come professore universitario, ambito Informatica. A quarant’anni inizia a dilettarsi nella scrittura di racconti brevi, selezionati e pubblicati in antologie di AA. VV., e sulla rivista Writers Magazine Italia (contest a tema: Romolo, il primo re). Il tempo libero, dopo lavoro e famiglia, lo dedica alla narrativa e alla corsa.
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Le infami - Massimo Tivoli
Prologo
Lele se ne sta a bocca aperta, impietrito dallo stupore che si è congelato sulle pupille di lei. Serra le palpebre per non farsi recludere dentro quello sguardo di ghiaccio. Sente il fremito dei fogli che stringe nella mano. Nessun altro rumore: è la prova che lui se n’è andato.
Riapre gli occhi, mettendo a fuoco il pavimento. Si deve sforzare per non guardarla.
Con l’altra mano, sfila il cellulare dalla tasca dei jeans, per comporre il numero che lei gli ha fatto imparare a memoria.
Uno. Uno. Due.
Si porta il telefono all’orecchio. Squilli.
– Centododici, pronto? – La voce all’altro capo sembra quella di un robot.
Lele non risponde, non ne ha il coraggio. Un raggio di sole trafigge il vetro della finestra, abbagliandolo. Lo costringe a pararsi il viso con il fascio di fogli, e a rivolgerle lo sguardo. Le gambe della donna spuntano dall’apertura della vestaglia. Una distesa sulle scale, l’altra piegata di lato, in una posizione che trasmette una scossa di freddo sui denti: il tallone arriva all’altezza della spalla.
– Pronto, mi sente? – insiste l’operatore.
Lele s’inginocchia, poggiando i fogli a terra. La scuote con la punta delle dita. Quindi si alza dopo aver ripreso il fascicolo. Trema in modo incontrollato e respira boccate d’aria così ampie che gli bruciano il petto.
– Pronto!
Si allontana, camminando all’indietro. Non può fare a meno di guardare quello che lui le ha fatto. La schiena di lei poggia sul pavimento e la guancia è schiacciata al gres. La mano destra è circondata da piccoli triangoli di carta. Sono stati strappati dai fogli che lui non voleva restituirle, dai documenti che Lele si è ritrovato in mano quando quello si è dileguato come un fantasma che s’immerge nella nebbia. Il sangue le fluisce dalla bocca, stilla sul pavimento e si spande in una pozzanghera cremisi dietro la testa.
Ogni goccia che s’infrange a terra gli rimbomba nella mente.
Andrà bene comunque.
Lele lo desidera, ma non ci crede. E non ci credeva nemmeno lui, mentre lei glielo ripeteva col terrore di chi, per non smaterializzarsi in un’illusione, doveva continuare a mentire.
– Qua c’è uno che non parla, ma respira forte. – La voce è ovattata.
Immagina l’uomo che tappa il microfono con una mano per deriderlo di fronte agli altri. Dondola sul posto per calmarsi, di solito funziona. Cerca di allentare le catene della paura. Trattiene l’urlo che sale dallo stomaco e, al culmine della fatica, riesce a dirlo: – È morta.
– Chi? Chi è morta?
– Mia… – Fa una pausa per trovare le parole giuste. Cerca di afferrarle tuffandosi in un torrente in cui le verità e le illusioni vorticano, cozzando le une contro le altre. Si mescolano. – Mia madre.
– Gesù – borbotta l’uomo. – Puoi dirmi il tuo nome? Quanti anni hai? – Non parla più come un robot. Si sente che adesso è fatto di carne.
Forse non è come gli altri. – Mi chiamo Lele, e ho dieci anni. – In realtà, mancano tre mesi al suo compleanno.
– Ora calmati, respira, ci sono io con te. Dove ti trovi?
– A casa.
– Ce la fai a raccontarmi com’è successo?
– Lui non voleva ridarle i fogli. – Ha calcato sulla prima parola con la disperazione di chi, precipitando nel vuoto, si sbraccia nel tentativo di aggrapparsi al nulla. – L’ha spinta per le scale. – Si morde il labbro.
– Scusami, Lele, lui chi è? Qualcuno che conosci?
Invece è come tutti gli altri.
Continua a fargli domande. Lo studia, lo analizza e, infine, lo umilierà.
– Lui, lui! – urla.
– Va bene, è stato lui. Se non sai chi è non fa niente. Sta’ tranquillo, io voglio solo aiutarti.
Voglio solo aiutarti. Tutti a ripetere sempre la stessa cosa. S’irrigidisce come se fosse attraversato da una scarica elettrica. – È stato… è stato… – Il corpo trema e la voce gli va appresso. La pronuncia di ogni parola pesa come una corsa in salita, la salita che si trova all’uscita da scuola, con lo zaino che qualcuno ha riempito di pietre e i bulli che lo inseguono tra risa sguaiate e ululati di guerra. – Un incidente. È stato… un incidente.
– Lui sta lì?
– Se n’è andato.
– Puoi dirmi dov’è la casa? Vedrai, arriveranno i miei amici a prenderti. Ti piacerebbe fare un giro su una di quelle automobili con la sirena accesa, come un vero poliziotto?
– Sì.
– Allora dammi l’indirizzo. Rimarrò con te. Li aspetteremo insieme.
Il tremolio del corpo cessa.
Maledetti nomi.
Poggia il cellulare e il fascicolo sul comò, apre il primo cassetto. Le braccia frugano tra riviste di cucina, dvd, blocchi di post-it, vecchia argenteria. Il cuore batte forte e la mente riprende a martoriarlo: e se non ti aspetta?
E se non trovi la bolletta?
E se la trovi ma lui riattacca?
E se ti aspetta ma non la trovi?
Se, se, se, se…
Le ipotesi e le scelte sono serpenti che gli nascono in testa, escono dalla bocca, dalle orecchie, dagli occhi, dalle narici e lo avvolgono, lo stritolano fino a formare un bozzolo dal quale non si leverà nessuna farfalla.
Finalmente recupera la bolletta. Tiene l’indirizzo a vista mentre riporta il cellulare all’orecchio. Riferisce il nome della via all’operatore che continua a ripetergli di stare tranquillo perché i suoi amici arriveranno presto. Ma all’improvviso viene accarezzato da quello che sembra un refolo fiacco di vento, e chiude la chiamata.
Lui è tornato. Gli ordina di nascondere i fogli.
Quindi, lo lascia di nuovo solo.
1
Anita apre la porta dello studio. Di fronte a lei sta Martina, accompagnata dal padre. Sente una stretta al petto: la ragazzina ha solo tredici anni e quando sono così giovani la paura di fallire si acuisce.
– Prego, entra – dice alla ragazza, con fare materno. Almeno, così immagina.
Sergio poggia una mano sulla spalla della figlia, che se la scrolla di dosso con un movimento rapido e secco. Mentre Anita assiste al movimento del braccio che si affloscia, la sua mente ritorna alla demolizione degli edifici fantasma che, dopo il 6 aprile 2009, sibilavano e gracchiavano nelle notti della zona rossa.
Martina avanza e, prima che suo padre possa seguirla, Anita fa per bloccarlo, andando a poggiargli una mano sul petto, ma si ferma a un paio di centimetri concedendogli solo la vista del palmo. La dottoressa Anita Mancini contrasse la repulsione per il contatto undici anni fa. Un morbo ineludibile, sfociato in una condizione di ripugnanza perenne. Una psicosi che la tiene rinchiusa in uno stato di castità forzata.
– Dobbiamo essere solo io e lei.
Per guardarlo deve sollevare la testa. Il Paretone del Corno Grande del Gran Sasso le balugina nella mente: una zanna calcarea che oscura il cielo all’uscita del traforo, sovrastando le colline teramane con la maestosità di quasi duemila metri di dislivello. Lui la fissa con occhi che la fanno sentire ancora una donna, incombendo su di lei proprio come la vetta orientale sui colli. Un brivido le trasmette una scarica di elettricità in mezzo alle gambe, ma il senso di nausea determina una caduta di tensione e Anita chiude la porta, accompagnandola lentamente, e regalando a Sergio soltanto uno sguardo amaro. Dello stesso sapore che ti lascia la perdita di un bel sogno quando, al risveglio, non lo ricordi più.
– Accomodati pure. – Con un gesto della mano, invita Martina a sedersi sulla poltrona in pelle.
– Non c’è il divano dove mi devo sdraiare?
La giovane paziente si presenta agguerrita: la frangia di capelli neri a coprirle mezzo viso; la ciocca viola; il colletto merlato di croci capovolte; la pelle che rifletterebbe persino la luce della luna; e il piercing a bilanciere che le trafigge la curva tra naso e fronte.
– No, c’è solo la poltrona.
Ma Anita sa che è un travestimento. Glielo dicono i tagli, vecchi e nuovi, sugli avambracci e sulle gambe. E, soprattutto, la ragazza non li copre: maniche corte e minigonna, quasi a volerli esibire. Devi solo provarci a entrarmi nel cervello
sembra dire il suo sguardo. È l’inferno
.
Anita trattiene un sorriso. Martina dev’essere il tipo di ragazza che non si rende conto di minacciare chi, al cospetto del demonio, c’è stato davvero. È per questo che Anita Mancini sa trattare con i diavoli che possiedono l’inconscio: li ha visti, ci ha lottato, ne è stata posseduta. E ne è uscita corrotta. Per sempre.
L’adolescente Emo si guarda intorno. Accarezza prima la foto di Freud e poi, superati i vasi di felce di Boston, quella di Jung. Quindi si mette a guardare fuori dalla finestra, dandole le spalle. Quattro gru girevoli sono allineate all’orizzonte. Scheletri di dinosauri meccanici che svettano sopra i tetti sbrecciati del centro storico.
– Bel panorama, vero? – Anita decide di prendere l’iniziativa con un tono ironico.
Martina non risponde. Raggiunge la poltrona in pelle che sta di fronte allo scrittoio. Passa una mano sul bracciolo e si butta di peso sulla seduta. – Pensavo che ti piacesse interrogare le tue prede quando stanno allungate.
Le dà del tu, vuole farle sapere che non la rispetta. Anita sorride. Si siede sulla sedia da ufficio che sta dall’altra parte dello scrittoio. Fa passare qualche secondo di silenzio mentre ripensa al lapsus che la paziente si è lasciato scappare: prede. Proprio quando sta per farle la domanda, il cellulare squilla. Lo prende per chiudere la chiamata, ma il display mostra la scritta: Commissario Scipioni
, così come la impostò cinque anni fa. Ormai l’amico poliziotto è diventato vicequestore aggiunto, ma tutti continuano a riferirsi a lui col grado di commissario, è più immediato.
– Scusami, devo rispondere.
Martina fa spallucce. – Fa’ come ti pare. – Tira fuori il cellulare e inizia a digitare