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Angeli di plastica
Angeli di plastica
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E-book406 pagine5 ore

Angeli di plastica

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Info su questo ebook

ROMANZO (249 pagine) - FANTASCIENZA - Doveva essere il prototipo per il teletrasporto di oggetti, ma aveva incominciato a stampare persone. Chi erano? Da dove venivano? E perché alcune di loro avevano strani poteri? FINALISTA PREMIO URANIA

Mei è una ragazza particolare. Ribelle, certo, difficile, ma quale ragazza non lo è a quell'età? Mei però è diversa per altri motivi. Nella testa ha una cosa che lei chiama loop neurale, una connessione di qualche tipo che le permette, solo pensandolo, di ottenere informazioni, schemi, mappe. Un Google nel cervello. E sono proprio queste facoltà che le permettono di trovare North, e poi tutti gli altri che, come lui, sono arrivati non si sa da dove e non si sa perché. Angeli, forse. Ma decisi a scatenare l'inferno.

Emanuela Valentini vive e lavora a Roma. Ha studiato con passione Lettere e Filosofia puntando fin da piccola a un profondo ideale etico ed estetico nella vita. Adora i classici ma legge di tutto, colleziona macchine per scrivere e fumetti vintage. Autrice di strane storie nel 2013 ha pubblicato con Speechless Books la sua fiaba dark "La bambina senza cuore". Nello stesso anno è uscito con il marchio GeMS "Ophelia e le Officine del Tempo", finalista al Torneo Ioscrittore. Con Delos Digital ha pubblicato il serial "Red Psychedelia". Nel 2016 ha vinto il premio Robot con il racconto "Diesel Arcadia".
LinguaItaliano
Data di uscita29 set 2016
ISBN9788865308615
Angeli di plastica

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    Anteprima del libro

    Angeli di plastica - Emanuela Valentini

    a cura di Silvio Sosio

    Emanuela Valentini

    Angeli di plastica

    Romanzo

    Prima edizione settembre 2016

    ISBN 9788865308615

    © 2016 Emanuela Valentini

    Edizione ebook © 2016 Delos Digital srl

    Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano

    Versione: 1.0

    Font Fauna One by Eduardo Tunni, SIL Open Font Licence 1.1

    TUTTI I DIRITTI RISERVATI

    Sono vietate la copia e la diffusione non autorizzate.

    Informazioni sulla politica di Delos Books contro la pirateria

    Indice

    Il libro

    L'autore

    Angeli di plastica

    Dedica

    Citazione

    Prologo

    Capitolo 0

    1.0

    1.1

    1.1.1

    1.2

    1.3

    1.4

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    8.5

    9.0

    Delos Digital e il DRM

    In questa collana

    Tutti gli ebook Bus Stop

    Il libro

    Doveva essere il prototipo per il teletrasporto di oggetti, ma aveva incominciato a stampare persone. Chi erano? Da dove venivano? E perché alcune di loro avevano strani poteri? FINALISTA PREMIO URANIA

    Mei è una ragazza particolare. Ribelle, certo, difficile, ma quale ragazza non lo è a quell’età?

    Mei però è diversa per altri motivi. Nella testa ha una cosa che lei chiama loop neurale, una connessione di qualche tipo che le permette, solo pensandolo, di ottenere informazioni, schemi, mappe. Un Google nel cervello.

    E sono proprio queste facoltà che le permettono di trovare North, e poi tutti gli altri che, come lui, sono arrivati non si sa da dove e non si sa perché.

    Angeli, forse. Ma decisi a scatenare l’inferno.

    L'autore

    Emanuela Valentini vive e lavora a Roma. Ha studiato con passione Lettere e Filosofia puntando fin da piccola a un profondo ideale etico ed estetico nella vita. Adora i classici ma legge di tutto, colleziona macchine per scrivere e fumetti vintage. Autrice di strane storie nel 2013 ha pubblicato con Speechless Books la sua fiaba dark La bambina senza cuore. Nello stesso anno è uscito con il marchio GeMS Ophelia e le Officine del Tempo, finalista al Torneo Ioscrittore. Con Delos Digital ha pubblicato il serial Red Psychedelia. Nel 2016 ha vinto il premio Robot con il racconto Diesel Arcadia.

    Dello stesso autore

    Emanuela Valentini, La sindrome di Cappuccetto Rosso Red Psychedelia ISBN: 9788867753666 Emanuela Valentini, bAng bunny Red Psychedelia ISBN: 9788867753925 Emanuela Valentini, La longa manus di Nonnina Red Psychedelia ISBN: 9788867754151 Emanuela Valentini, Re(d)wind Red Psychedelia ISBN: 9788867754397 Emanuela Valentini, Il sogno del Lupo Red Psychedelia ISBN: 9788867754359 Emanuela Valentini, Fabio Carta, Megalomachia Robotica.it ISBN: 9788865307663

    A Fabio

    senza il quale questo romanzo

    non sarebbe mai stato scritto

    Roma 11 settembre 2016

    È stata, questa, l’era in cui gli incidenti rappresentavano la norma, l’epoca in cui si accettavano senza problemi rischi tecnologici che oggi apparirebbero assolutamente folli.

    Bruce Sterling

    Prologo

    Il groove martella le pareti di metallo. È una pioggia incessante di boati che divora ogni altro suono. Rimbalza contro gli scudi delle plafoniere a intermittenza e s’impenna contro i seni nudi di una tra le migliaia di persone ammassate nel capannone fuori dalla city.

    La voce aggricciata del software come linfa percorre i cavi, si scatena tra gli spinotti degli alimentatori e, carica di potenza distorta, schizza fuori dall’impianto di amplificazione come un lunghissimo orgasmo cinetico; la sua bava nutriente scivola sulle lingue colorate da trip allucinogeni, si annida tra le gambe di chi consuma amore e gas alcolici sui divani sfatti a bordo pista; vive, si nutre e prospera tra le anime e i corpi che si muovono come posseduti da un demone dell’oblio, accanto alle colonnine a neon variopinti.

    Dalla parte di tetto crollata, tra le nervature di ferro scoperte come ossa argentee entra il buio a mescolarsi con sudore e adrenalina. Negli angoli, tra cumuli d’immondizia, stomaci e intestini sovrastimolati si svuotano nel martellante amplesso techno, un insieme divorante di facce e corpi fluorescenti, latex e droghe sintetiche. E nel caos una molecola impazzita. Qualcuno urla, corre, sgomita per aprirsi un esile varco nella massa biologica oscillante. Quel movimento, contrario alla logica da orgia sensoria, dapprima irrita come un insetto in un occhio poi, come tutto ciò che è disturbante, attrae l’attenzione.

    Chi è, che fa? Che ha detto?

    Si grida, si gesticola per comprendersi, l’incantesimo della musica è spezzato dalle parole, sta succedendo qualcosa di serio da qualche parte, là fuori. Cosa? Due che si buttano da un pilone. Il traliccio!

    Ha detto che ci stanno due pazzi che si stanno buttando dal vecchio traliccio: andiamo a vedere!

    La scheggia impazzita, la disturbatrice del caos intanto è già fuori, oltre il rave party, risucchiata dalla notte.

    Andiamo a vedere!

    Sospinte dal ritmo ipnotico, le lingue colorate la inseguono. Gettano a terra le lattine di Leaky Gassy alcolici e si lanciano tra le rovine dell’estremo hinterland, tra carcasse di automobili e vecchi edifici dati alle fiamme: tutti vogliono vedere due che si massacrano tra le lamiere del cantiere abbandonato sotto al ponte spezzato.

    La musica sembra uscire dal capannone e coprire la corsa notturna come un atroce mantello fatto di battiti, sfregamenti, martellate brevi, lunghe, lunghissime, brevi, lunghe. È nei muscoli, nel sangue di quanti inseguono qualcuno che annuncia la morte, la morte imminente! Due pazzi! Dai che si buttano, lo fanno. Li voglio vedere cadere.

    Dalla cima di una collina di rifiuti tossici è finalmente visibile il ponte mai ultimato; un dente d’acciaio sospeso nel vuoto, un lungo braccio secco proteso, cristallizzato nell’atto disperato di stringere una mano inesistente.

    La festa sembra continuare anche lì, trascinata dagli aeroveicoli della polizia che volteggiano tutto intorno al pilone in una cacofonia assordante di eliche e megafoni.

    Potentissimi fari illuminano il suicidio dall’alto. Come immense falene di metallo roteano intorno all’osso sporgente, sulla cui superficie si stagliano due profili umani; l’aria sollevata dai motori degli aeroveicoli strappa loro i capelli e i vestiti. Sono in piedi sul bordo, si tengono per mano.

    Lo fanno, accidenti, si ammazzano!

    Eccoli! Sono lassù!

    Si ammazzano. Voglio vedere.

    La scheggia impazzita è già quasi all’inizio del ponte. Corre in modo sorprendente, forse li vuole fermare.

    Sul ponte insieme a loro c’è qualcun altro che si muove con circospezione. A momenti alza le braccia, a momenti sembra sull’atto di sbraitare.

    Dalla collina si sollevano le grida di quanti sono accorsi a vedere. La musica, gli elicotteri, si balla davanti alla morte, sembra di essere in un atom-movie! Fagli un video che lo postiamo nella web area, fallo, fallo, fallo.

    La scheggia impazzita raggiunge quello che sbraita e lo colpisce alla schiena con un pezzo di ferro. Le grida si fanno incitazione adesso. Ammazzalo. Lascia che si buttino. Vogliamo vederli mentre volano giù!

    Musica. Paura, voglia di pisciarsi addosso per la paura.

    Sono sul bordo! Sul bordo! È meglio di un atom-movie! Chiamate gli altri,

         ci

           sono

               due

                  che

    0

    L’adagio della sinfonia numero 4 di Ludwig Van Beethoven si spande nell’aria satura di inquietudine e disinfettante. Attorno al tavolo di metallo tre lampade gobbe spandono fiotti di luce calda sui corpi addormentati. Sdraiate una di fianco all’altra, le bambine si tengono per mano.

    Una ha morbidi capelli biondi, teneramente abboccolati; una leggera chioma azzurrina incornicia il viso dell’altra. Per il resto non paiono esistere differenze biologiche, chimiche o strutturali tra le due. Hanno entrambe braccia e gambe, centrale neuronale, apparato digerente, cardiocircolatorio, riproduttivo; sono dotate di eguale sistema nervoso ed endocrinologico. Hanno occhi per guardare il mondo e corde vocali per strillare e ridere. Ma entrambe sono ammalate.

    Due coppie di microcircuiti neurali integrati, posizionate sulle tempie, monitorano lo stato dei parametri vitali delle bambine mentre l’equipe medica si appresta a compiere un espianto e un innesto.

    Strumenti per elettrocardiogrammi laser e angiografie coronariche presidiano un angolo della camera operatoria approntata in segreto. Su un ripiano d’acciaio riposa il magneto-defibrillatore portatile.

    Una terza persona assiste al tavolo: è la stessa che ha scelto la musica classica come sottofondo, come se soltanto qualcosa di profondamente magnifico possa accompagnare in modo adeguato il disperato tentativo di superare i limiti imposti dalla natura.

    La musica immortale. Due vite sospese.

    Le bambine si tengono per mano e anche guardandole con grande attenzione non si saprebbe dire quale sia la differenza. Ma c’è.

    Una viene dal mondo in rovina appena fuori dal Sobborgo Corporativo, l’altra dallo Spazio profondo. E una sola delle due diventerà grande.

    1.0

    Quattordici anni dopo

    Il metallo della grondaia puzza di minio e le ghiaccia la schiena. Mei sbuffa, getta il mozzicone ancora acceso a terra e rimane concentrata – non senza un certo disprezzo – sulle divise blu notte dei pochi dipendenti che percorrono il viale sotto ai paracqua automatici.

    Odia quel loro essere tutti uguali ma ancora di più detesta il fatto che presto anche lei indosserà la tuta sformata con il logo della PlasticArt stampato a caldo sul petto.

    Con quella macabra prospettiva in testa, lancia un’imprecazione contro i liquidi immondi che piovono dall’alto. Le sembra di avere un enorme lumaca adagiata tra le scapole.

    – Oh no, no.

    Alla sensazione di freddo e fastidio si aggiunge la cantilenata sollecitazione neurale della memoria; il suo grosso problema. Mei inveisce tra i denti, si preme la mano sulla fronte umida senza staccare gli occhi dallo spazio che la divide dall’entrata dell’ala nord: un dedalo di viali perimetrati da aiuole ben curate e piccoli alberi da frutto semi-biologici.

    Mei si odia per averlo pensato. Adesso il cervello malato è costretto a proiettarle tutto quello che sa sulle stramaledette lumache. Dove ha dimenticato le sue pillole?

    – Non ora, merda! Non ora, non ora!

    Inutile. Nel giro di pochi istanti la mente le si allaga di informazioni sulla tassonomia dei molluschi gasteropodi e la lista con i generi compresi nelle varie famiglie e sottofamiglie offusca la visione e la voce del ragazzo. Come in una videocall molto disturbata lo sente ripetere il suo nome, la voce lontana simile a un rantolo che rimbalza in un tubo di plastica.

    – Mei! Stai arrivando? Mei… Mei… non lasciarmi qui! Attraversa il viale… princip… bzzz.

    – Che palle! Ehi! Non smettere di parlare, sono qui da qualche parte vicino a te. Ti trovo, stai sicuro che ti trovo, appena riesco a ristabilire la connessione! Ma tu ehi, parlami maledizione o ti perdo!

    Chiacchierare da sola sotto le gocce gelide non serve a niente e lo sa. Lui è nella sua mente, in una parte della sua mente dove ha libero accesso solo in modo inconscio e per riagganciarlo deve necessariamente aspettare che il loop neurale passi. Solo aspettare che il suo maledetto GPS psichico si calmi; questo significa dare tempo al cervello di leggere ed elaborare le informazioni sulle limacce, anche se in quel momento non le servono a niente.

    – Vieni a prendermi, Mei! Salv …bzzz.

    Il tessuto impermeabile della tuta da ginnastica le si appiccica alla pelle ma almeno la tiene asciutta nonostante l’alluvione. Mei prova a rilassarsi osservando le concrezioni dense gocciolare giù dal cielo e si tiene nascosta dagli sguardi sotto la pensilina metallica della portineria centrale. Agli studenti di qualsiasi corso, anche quelli avanzati come il suo, non è permesso di calpestare l’ala nord della PlasticArt.

    – Devi scendere nel sottosuolo Meibzzz, mi tengono nascosto, nascost…

    Sciami di gocce malate precipitano dalle calotte trafitte da lampi di un rosso accecante. Mei le osserva schiantarsi in pozzanghere itteriche e si perde nei giochi ipnotici di cerchi di plasma giallo e filamentoso che si allargano a contenerne infiniti altri più piccoli, sempre più piccoli, subito distrutti e sostituiti da nuove spirali giallastre.

    – Ciao Mei. Puoi dedicarmi un minuto? – Adesso dirai di no.

    – Eh no, no. Non posso gestirti adesso, vattene che se mi parli non sento più lui.

    – Lo sapevo! Mi darai ascolto, invece – la vocetta assume una sfumatura prepotente, isterica.

    – Sparisci stronza! Giuro che mi faccio scorticare l’ipotalamo e ti sradico dalla mia testa, qualsiasi cosa significhi, mi hai sentito larva psicopatica?

    In tutta risposta le giunge un dolore lancinante alla base della nuca, come una violenta strattonata ai capelli. Mei si contorce tornando subito ad acquattarsi dietro le tubature stagne del casotto. Per un pelo non ha gridato.

    – Ti abbatto a colpi di lasershock, fantasma di merda! Tu non esisti! E taci una buona volta. Krudo mi aveva garantito che non ti avrei più sentito, quell’idiota. – Si rende conto di stare litigando con una nevrosi eppure continua, nonostante abbia troppo spesso letto sulle schede elettroniche inviate da Krudo a suo padre le parole bipolarità latente.

    – Le tue pastiglie Mei… le hai dimenticate ancora – riprende la vocina, ora più mansueta: – Mei ascolta. Chi è questo ragazzo che vai a cercare in una zona proibita? Tuo padre non approverebbe e gli esami di fine corso sono vicini. Davvero vuoi rovinarti reputazione e punteggio con un richiamo solo per seguire i deliri di una voce nella tua testa? Hihihi…

    – Ridi, ridi. Buffo che sia proprio tu a dirlo.

    Mei dà segni d’impazienza. Le ultime file di informazioni circa le date di estinzione di alcuni esponenti delle sottofamiglie di limacce le scorrono dietro agli occhi. La pioggia di muco sembra scemare; per la rabbia prende a calci il primo arbusto che si trova a tiro e fa scattare la litania del rilevatore di atti vandalici al primo stadio di gravità: – questo è un avvertimento – dice la voce inespressiva dell’assemblato – è stato registrato un gesto incivile ai danni del cespuglio n. 01.335. A ogni ulteriore rilevamento verranno allertate le forze dell’ordine. Se si accende la spia rossa siete pregati di restare fermi dove vi trovate. La fotocellula scansionerà un raggio di trecento piedi in caso di fuga.

    – Blablabla in caso di fuga fanculo macchinetta ridicola, insulso insieme di ferraglia: non sai che darei per poterti spaccare a martellate. Disassemblarti a martellate, anzi, che suona meglio.

    Silenzio nella testa, finalmente un po’ di pace.

    – Fanculo pure voi, lumaconi bavosi, era ora che mi lasciaste ragionare.

    Le gambe snelle percorrono a lunghe falcate il lato est della costruzione bassa, delimitata da una recinzione metalloelettrificata. Il cancello è chiuso. Mei resta dietro il pannello di riconoscimento aortico e spia l’ingresso. In quel momento e senza alcun preavviso il cielo si apre, erutta un tuono simile a un rigurgito acido e vomita bava fucsia sul mondo.

    Mei ride. Adora quella sfumatura di colore. Indossa gli occhiali di protezione e si gode lo spettacolo senza più paura; nessuno decide di attraversare i viali con quel tempo merdoso e correre il rischio di beccarsi addosso una concrezione tossica come quel cretino di Lazo.

    Sopra la testa intere regioni di nubi fluorescenti scintillano come immensi stomaci illuminati da liquidi di contrasto. Uno degli occhi meccanici che sporgono dalle punte della cancellata compie la sua rotazione. Un lieve sibilo. Mei s’inginocchia a terra e schiaccia la schiena contro la colonnina senza mai perdere di vista le nubi chimiche che impestano il cielo.

    Venutesi a formare dall’esubero dei gas altamente contaminati che l’atmosfera non riesce a diluire, tali ammassi si concretizzano, a intervalli più o meno regolari, in fantasiose planimetrie astratte dall’aspetto solido; colorate metastasi tridimensionali che galleggiano sopra le città fino a che qualche bella tempesta elettroliquida non ne disintegra le fondamenta, innescando cascate di liquami infimi e inarginabili sul mondo.

    Mei sa che tali collassi durano in genere pochi minuti e che i viali torneranno a popolarsi, di lì a poco, con le squadre di recupero zone verdi. Quelli con le tute giallo acido. Si deve sbrigare.

    Il passpartout del padre fa scattare la cellula e il cancello aprendosi produce un sibilo cantilenante che ricorda a Mei il lamento di una bestia di metallo.

    Quando la sboccata del cielo finisce in un turbine di petali gelatinosi come muco intestinale lei è già dentro e corre attraverso corridoi deserti, tutti uguali. La luce bianca delle plafoniere a soffitto le rimbalza in faccia, distorce i bei lineamenti, s’infiltra nella seta dei capelli, squaglia il nero delle iridi.

    – Ehi, ci sei? Mi trovo agli ascensori. Quale piano? – ansima cercando il contatto.

    – Meno trebzzz… – dice la voce del ragazzo nella sua testa, poi si incanta – menotremenotremenotre…

    – Che? Non esiste il meno tre in tutta la PlasticArt! Mi senti? Sei certo di quello che dici? Guarda che io sto rischiando brutto per venirti a cercare. Come spiegherò a mio padre, a Krudo e ai membri del comitato esami che mi trovavo in una zona proibita perché guidata da una voce nella testa? Una delle varie, poi. Altro che bipolarità latente: mi rinchiuderanno per schizofrenia. – Mei gesticola come se fosse di fronte al suo interlocutore e quando il pensiero aumentato le restituisce uno spettrogramma di lei vista da fuori avvampa per la vergogna.

    E sono ridicola, anche. Dice tra sé.

    – Ma io non sono una voce… io sono bzzzvivo, Mei. Sono vivo come lo sei tu, o almeno credo.

    – Sì, come no. Fino a che non ti avrò visto con i miei occhi …

    A meno due l’ascensore si blocca. Mei scende e si guarda intorno. Quella costruzione è uguale in tutto e per tutto alle altre tre. Prima di diventare un bunker iperprotetto, l’ala nord era un semplice apparato di produzione di oggetti in plastica, come tutti gli altri. Ci è cresciuta in quei labirinti. Non c’è luogo che conosca meglio della fabbrica, all’interno della Corporazione.

    – Mi senti? Mi trovo a meno due, non ci sono altri piani. Fatti sentire, non ho molto tempo!

    In attesa di una risposta Mei s’incammina lungo il corridoio principale dove un tempo si trovavano i macchinari per la prototipazione rapida tradizionale e a fusione. Enormi stampanti a tre dimensioni per oggetti di arredamento in plastica.

    – C’è qualcosa che non va qui, dove sei?

    Quel luogo però non è come lo ricordava; tutto lo spazio è stato suddiviso in cabine di media grandezza attrezzate come se fosse un ospedale e sulle brande giacciono corpi addormentati coperti da lenzuola bianche. Col fiato spezzato Mei si sofferma a osservare dai vetri la strumentazione di monitoraggio che ha sostituito le stampanti.

    Nel sobborgo corporativo non mancano strutture ospedaliere di ottima qualità, per quale motivo allestire una clinica nel cuore della fabbrica?

    Convinta della coerenza della sua deduzione si morde un labbro e torna all’ascensore. L’aria là sotto sa di liquidi antisettici, quell’odore non le piace. Le mette ansia.

    – Ricordi, Mei? Ricordi eeeeh?! – la voce nella testa irrompe stridula e disturbante.

    Uno scatto di nervi. – Vattene stronza, levati di mezzo – Per difendersi dall’invasione neurale si colpisce la fronte, un punto imprecisato in mezzo agli occhi, come se la custode della voce si trovasse seduta lì dietro o come se avesse un insetto appoggiato sulla pelle.

    – Non picchiarti, povera Mei. Sai perché questo odore ti fa paura?

    – No e non lo voglio sapere. Ora taci.

    – Davvero vuoi che me ne vada? Non ti interessa sapere come arrivare a meno tre, allora?

    – Lo sai? – Mei si blocca davanti all’ascensore, la porta sensibile rileva la presenza e scorre silenziosa verso destra.

    – Entra, cretina – dice la vocina. Mei ingoia il boccone amaro e obbedisce.

    – Davvero non ricordi nulla? Dai che lo sai come si scende. Eri sveglia quando…

    – Vaffanculo! – Mei grida e non si preoccupa che qualcuno possa sentirla. È fuori di sé. Quella maledetta voce la snerva, le toglie il respiro. Senza pensare, con rabbia, pigia il pulsante rosso per la richiesta di aiuto e un istante più tardi se ne pente; adesso i custodi assemblati accorreranno e la troveranno e…

    Non ci posso credere. Ubbidiente a un comando segreto che non sapeva di conoscere, l’ascensore di fatto scivola verso il basso di un piano. Meno tre. Dlin, dlon.

    – Vedi che quando ti ci metti qualcosa riesci a fare – dice la vocetta con un tono ironico, da adulta consumata dalle droghe psicotrope sparate in vena.

    – Maledetto poltergeist neurale, come facevi tu a sapere… – col respiro affannato, Mei si appresta a scendere. Non lo ammetterà mai ma in fondo la diverte quell’eterno battibecco schizoide. Le piace inventare sempre nuovi insulti per la sua malattia nervosa. Lo trova stimolante: la fa sentire meno sola.

    Come avere un amico immaginario stronzo pensa, e le viene da ridere nonostante la tensione.

    La porta si apre su un corridoio scuro. Le uniche fonti di luce sono i fanalini di emergenza posti lungo le pareti a tre metri circa l’uno dall’altro. Si chiede dove siano i custodi e un senso d’ansia crescente le fa tremare il respiro.

    – Sei vicina… vicina… ti vedo! – eccolo, è lui. Mei sorride.

    – Ehi! Sì, c’è un meno tre in effetti. Dimmi cosa devo fare.

    – In fondo al corridoio, quello che hai di fianco. La stanza numero 6. Io sono qui… sono qui… sono quibzzz…

    Mei non perde tempo. Sta per incontrarlo. Si lancia di corsa nel quadrato di buio, inciampa, si lascia sfuggire un’imprecazione e riacquista l’equilibrio. Il pavimento è vischioso, le suole degli stivali pattinano. Mei sbatte la faccia contro la porta della stanza numero 6, si aggrappa alla maniglia, geme. Deve essersi rovesciato del farmaco, l’ultimo tratto del corridoio è impraticabile. Si massaggia la guancia e apre, una luce abbagliante cancella qualsiasi cosa vi sia nella stanza e si riversa nel corridoio come acqua in sovraesposizione, illuminandolo a giorno.

    Mei libera un grido e spinge via con un calcio il groviglio di frattaglie sanguinolente nel quale ha inciampato. La mente le si riempie di odio. Chi può avere lasciato cadere a terra quella roba? La tuta e gli stivali sono schizzati dello stesso liquido rossastro che allaga i quadrati di linoleum del pavimento.

    – Merda, ma che succede qua dentro?

    – Succede che sei una sfigata – la vocetta squilla e ride nella sua testa – sfigatasfigatasfigata! Le tue nevrosi ti uccideranno, Meiiiii. Faresti bene ad ascoltarmi qualche volta!

    – Rifiuto emotivo tossico, crepa una buona volta!

    Mei torna a guardare in direzione della stanza numero 6: strisce grigio-azzurro ora si sovrappongono alla realtà, come una trasmissione audiovisiva disturbata. In effetti quelli a terra sono solo stracci bagnati di qualche tintura disinfettante. Il respiro torna stabile.

    – Sono solo illusioni, idiota! Non fosse stato per la maledetta selezione naturale ti avrei preso a schiaffoni fino a farti sanguinare!

    – Ma fottiti, virus.

    Mei scalcia: qualcosa si muove tra le sue caviglie. La luce che fluttua all’esterno della stanza numero 6 è più bassa adesso, soffusa, di un vago cremisi; e quelli sul pavimento non sono stracci ma due corpi intrecciati in un freddo amplesso. Mei tenta di muoversi ma le mani di uno degli amanti, per la precisione della donna che sta sdraiata sulle mattonelle, sono strette attorno ai suoi polpacci, cavi d’acciaio biologici dai quali risulta impossibile liberarsi.

    Lui si muove come una congegno per la riproduzione: ha un ritmo basico, secco, puntuale. Il membro di metallo lucido, perfettamente lubrificato, è un pistone dedito al moto rettilineo alternato, su cui agisce la pressione del bacino piatto e freddo.

    Mei non capisce più se è uno dei macchinari in titanio per la prototipazione di oggetti in plastica quello che vede, o se la donna che le artiglia le gambe si sta felicemente accoppiando con uno dei custodi assemblati non senzienti di cui la PlasticArt fa uso. Non sapeva che fossero dotati di fallo estraibile. Le viene da ridere. Immagina che in caso di bancarotta dell’industria potrebbero essere riutilizzati nella prevenzione e cura dell’anorgasmia femminile in centri specializzati. O semplicemente come magnifici, infaticabili gigolò per femmine frustrate o perverse, in case di piacere asettiche come ospedali.

    Il meccanismo psico-informatizzato nella sua mente converte il pensiero in immagini e le propone – non richiesto – qualche esempio di slogan pubblicitario per la clinica in questione.

    Sesso col robot! Instancabile, disarticolato, silenzioso. Sessuomane: qui da noi, entri nel mondo del piacere di plastica!

    Coi sei livelli di velocità facilmente settabili attraverso i pulsanti dedicati presenti sui glutei dell’amante in polimero, anche tu urlerai di piacere come la tua vicina di casa quando le fa visita tuo marito!

    Mei fa una smorfia. Non ha mai apprezzato il senso dell’humor di certe sue prestazioni mentali e non scolla lo sguardo dall’accoppiamento; in ogni caso quel movimento sincopato la agita. Sente contorcersi qualcosa all’interno della pancia, un calore diffuso si impossessa di lei.

    E poi una voce fuori campo, finalmente: – Mei! Mei! Sei qui!

    La chiama proprio dall’interno del sipario di luce. Mei lo attraversa, fiduciosa. Il cuore un’elica frullante. Le hanno insegnato che l’amore non è altro che una coincidenza ormonale, un fatto chimico. Ma lei non ci ha mai creduto davvero. Detesta le regole convenzionali che le hanno inculcato a scuola. Disapprova l’ordine maniacale con cui suo padre mette via i vestiti freschi di lavanderia laser. Disprezza la quiete dei quartieri, la fasulla percezione di poter decidere qualcosa in un meccanismo preconfezionato come la sua vita. Se c’è qualcosa di libero al mondo, questo può essere solo l’amore. L’amore è ribellione allo stato delle cose. L’amore è andare controcorrente, possedere un pensiero personale e unico, rivendicare la…

    – Sei tu. – Lui esiste davvero, è lì, ha parlato. La sua voce ha la sonorità standard dei punti di raccolta dei medicinali scaduti, anche un tantino distorta, come se arrivasse attraverso un interfono rotto.

    Nella stanza, un paesaggio; il prato è di un verde così intenso e puro che Mei non ne ha mai visti eguali. Un tappeto d’erba soffice, piena di vita. In alto un cielo sano, di un indaco bello da

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