Missione 0 - I falsari di Geofanìa: K-Squad 1
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Narrativa - romanzo (136 pagine) - L’Istituto K è l’organizzazione segreta che da centinaia di anni protegge l’universo, e la K-Squad è il suo braccio armato: i migliori combattenti della galassia. Come mai allora sono stati selezionati una ragazzina e uno spaccone per la prossima missione su Geofanìa?
Su Geofanìa, un pianeta ai margini della Repubblica, qualcuno sta diffondendo enormi quantità di crediti falsi, mettendo in pericolo il precario equilibrio su cui si basa tutto l’universo. È un lavoro per gli agenti K, ma c’è bisogno di nuove reclute per salvare alcuni agenti in difficoltà e un intero sistema planetario. Billy Maiker è uno sbruffone. Dorotea Nilssen una ragazzina fanatica di videogiochi. Casey Smitherson, custode dell’Istituto K, è convinto che non ce la faranno mai. VASET004, elaboratore centrale dell’Istituto K, è sicuro invece che siano i più adatti all’impresa…
Andrea Ferrando, nato nel 1970, è laureato in Fisica e vive a Genova. Di giorno conduce progetti di miglioramento aziendale, di notte si dedica alla fantascienza, all’horror e al noir. Pensa che le due cose siano collegate, ma deve ancora capire come. Qualche suo racconto è in giro per la rete o pubblicato su antologie cartacee come Il Magazzino dei Mondi 3 e 365 racconti d’estate di Delos Books. Per Delos Digital ha pubblicato racconti per le serie Chew-9, Urban Fantasy Heroes e The Tube. Ha una passione per la musica rock, per quello sport ormai desueto che è il tennis serve and volley e per la misurazione delle performance aziendali.
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Missione 0 - I falsari di Geofanìa - Andrea Ferrando
9788867758753
Lucaff Menkun
Andò ad agganciarsi alla piattaforma rotante con un balzo di più di venti metri. Il vuoto dello spazio interplanetario lo circondava con il suo buio minaccioso. Guardò in basso a destra: i caratteri rossi sul visore trasparente gli indicavano un’autonomia di quarantasette minuti. Attese che il disco facesse il suo lento giro caricando il peso sulla gamba destra e, quando fu il momento, si lanciò verso il bordo superiore dell’anello di acciaio. Lo mancò di pochi centimetri e cominciò ad andare alla deriva, allontanandosi lungo la parete liscia, senza alcun appiglio possibile. Scorreva, cercando di fare attrito con i palmi rugosi dei guanti della tuta, ma pareva non riuscire a rallentare. Guardò avanti a sé, aveva ancora una ventina di metri. Senza riflettere premette più forte con ambedue le mani e subito maledisse di non essere stato attento alle lezioni di fisica. Sotto la sua spinta, la parete della navicella iniziò ad allontanarsi. Agitò le gambe come per nuotare, ma il vuoto non lo aiutava. Aveva caldo, qualche goccia di sudore scorreva lungo le guance. Cominciò a ruotare su se stesso, in preda a un vortice autoindotto. Si rese conto in pochi secondi che non aveva alcuna possibilità di salvezza.
Aveva sentito dire che in questi momenti ti passa tutta la vita davanti, ma nella mente di Lucaff Menkun non c’era niente, a parte la stizza per essere stato fregato come un lattante. Guardò l’immensità del cielo in ogni direzione, i miliardi di stelle che brillavano luminose come paillettes su un abito di seta scura, la palla da biliardo intarsiata di azzurro e viola del pianeta FLPP 3, detto Geofanìa, così vicino eppure così irraggiungibile, il metallo lucente della navicella che lenta ma inesorabile si allontanava da lui: era tutto così quieto, così silenzioso. E così terribile.
E allora arrivò: non sapeva come ma gli giunse accanto, gli penetrò dentro, lo pervase come una nuvola di tè fa con l’acqua calda. Era la nostalgia, quel sospiro che ti placa tutte le velleità e ti fa uscire fuori quello che ti è stato dato durante tutta la tua esistenza. Era dunque questo che succedeva appena prima di andarsene?
Il viso di sua madre che gli sorrideva la prima volta che era riuscito a stare a galla. Le corse lungo lo steccato cercando di raggiungere suo padre che fingeva di essere stanco per farsi prendere. E poi la volta che lui e Temoff avevano nascosto in un posto segreto nel bosco quel compressore preso, diciamo, in prestito. E le risate all’uscita da scuola con il gruppo dei ribaldi. I muscoli indolenziti dagli allenamenti di Jufutsu. La prima medaglia vinta in quello scalcagnato torneo di quartiere. La soddisfazione nel capire come ogni parte del proprio corpo si potesse dominare. La faccia del maestro di arti marziali che parlava con i suoi. Le lacrime sul volto fanciullesco di Dafeja alla notizia che lui doveva andare via. Il viso dei suoi alla partenza per la scuola internazionale di Jufutsu e la consapevolezza che esisteva una parte di sé impossibile da controllare. E poi, sempre più veloce: il campionato nazionale, quello planetario, quello universale. Tutte le vittorie, le congratulazioni, i festeggiamenti con migliaia di persone e gli inni terrestri con la mano sul petto. E infine le olimpiadi, culmine di una carriera che in pochi potevano vantare di avere avuto. Poi il declino, il dolore, la fatica degli allenamenti, i più giovani con l’occhio della tigre che lui cominciava a perdere. Quindi le sconfitte, la lenta discesa nell’anonimato, la mamma rigida sul letto vestita di scuro, le lunghe giornate passate appoggiato allo steccato con nessuno accanto. Fino a quella chiamata, di nuovo in azione con uno scopo, in una squadra di persone come lui, speciali. Campioni sportivi, geni dell’intuito, una sorta di selezione del meglio della razza umana. Missioni completate, soddisfazione e altre missioni, senza fermarsi mai. La soddisfazione di essere utili all’umanità, in incognito, senza folle plaudenti, ma di nuovo sulla breccia. Fino a questa stupida consegna su FLPP 3, che lo aveva lasciato fluttuante nello spazio. L’ultimo pensiero fu per i suoi compagni di missione: che riuscissero a farcela, almeno loro. E alla giovane Anniarz, che gli aveva fatto tornare la voglia scomparsa molti anni prima di scherzare.
Guardò in basso a destra, ma riuscì a vedere solo una macchia rossa indistinta. Strizzò gli occhi con le ultime energie rimaste in corpo e vide solo una fila di zero. Chiuse gli occhi e si abbandonò all’infinito.
Dorotea Nilssen
– Tea!
Non ascoltò la voce stanca che la chiamava dalla stanza accanto: stava cercando di pilotare una megattera dentro lo spazio porto di Hermestown, non poteva permettersi distrazioni. Era come far entrare una trivella estrattrice nel buco del lavello. Erano passate cinque ore e le connessioni neurali cominciavano a darle fastidio, ma lei non demordeva; non era il tipo da arrendersi alle prime difficoltà. Anche se in chat tutti le davano dell’esaltata e addirittura della mitomane, lei sapeva che prima o poi ci sarebbe riuscita. Scosse la testa da destra a sinistra come un pugile al suono del gong e rimise a fuoco il campo di atterraggio. Del richiamo di sua madre si era già dimenticata.
Riprese a planare verso l’obiettivo: uno sputo di asfalto vetrificato che conduceva all’apertura dell’hangar pressurizzato, spalancata come le fauci di un grigio predatore. Le pulsazioni aumentarono, quasi a contrastare il vento arroventato che le consumava le protezioni termiche. Hermestown era là sotto, nascosta dietro quell’apertura che faticava ad aprirsi. Dorotea sapeva che aveva una ventina di metri di tolleranza per penetrare in quel pertugio che le sembrava sempre più piccolo. Si strinse nelle spalle in un’involontaria manovra reale, mentre l’enorme astronave mercantile, la megattera, si avvicinava troppo veloce all’obiettivo.
– Motori in controspinta! – urlò all’interprete vocale.
La nave sobbalzò come una vecchia pentola a pressione e perse qualche grado di allineamento orizzontale. Dorotea inserì il controllo manuale, inspirò e premette a fondo sul freno reattore, controllando con la cloche virtuale che gli ondeggiamenti non superassero il punto critico.
La temperatura dei motori stava superando la soglia ed entro pochi secondi il controllo di sicurezza sarebbe intervenuto togliendo potenza. Disattivò pure quello.
– Senza rete – mormorò inascoltata.
Aveva ancora una decina di chilometri, in pratica una manciata di secondi, per rimettere in asse la megattera e planare sulla lingua lucida spazzata dal vento di fuoco di Mercurio.
Ce l’aveva fatta! La megattera era entrata nell’hangar termoregolato con una piccola scodata, ma ora giaceva lì, ferma nel posto riservato come una scheda nel suo alloggiamento. Dorotea sorrise e completò le ultime operazioni di spegnimento. Già immaginava i tributi nella chat: era stata la prima a completare la missione delle missioni, l’atterraggio a Hermestown del tipo di nave mercantile più grande in azione in tutta la galassia. Una cosa che, nella vita reale, nessuno aveva neanche provato a immaginare. Si preparò a condividere il suo successo nel network dei simulatori on line.
Ma i sogni di gloria durarono solo pochi secondi, la realtà le sbatté contro come un asteroide non monitorato. Sullo schermo apparve il segnale rosso di missione non completata.
Subito lei pensò a qualche baco nel software di simulazione, qualche riga di codice non testata; d’altronde chi mai avrebbe pensato di far atterrare una megattera a Hermestown?
Ancora qualche secondo, però, e il disappunto divenne disperazione. La missione non era stata completata perché il pilota non aveva tenuto conto dell’incolumità del carico. Solo il 3 per cento delle merci e lo zero virgola sei per cento dei passeggeri sarebbe potuto sopravvivere al surriscaldamento, alle sollecitazioni e alle improvvise accelerazioni che Dorotea aveva impresso al mercantile. La nave era in porto, ma aveva recapitato solo morte.
Non avrebbe condiviso nulla. Un magone le salì in gola arroventandole le tonsille.
Avrebbe voluto scaraventare i sensori contro il muro, invece li staccò dalle tempie e li ripose nel loro alloggiamento, come fossero dei cuccioli indifesi. Si massaggiò con eccessivo vigore i punti di contatto, passando la lozione rinfrescante a lenire un dolore che partiva da lì ma arrivava fino in fondo al suo animo. Prese una barretta di EnerCiok e la trangugiò come se dovesse punirla.
Un messaggio lampeggiò in basso a destra. Era Tsakfja Tiogiun, l’unica che Dorotea poteva sopportare di ascoltare in momenti come questi.
– Gah.
– Gah, ci hai provato?
– Non ne voglio parlare.
– Ok, ma io so che prima o poi ci riuscirai, e lo sai anche tu.
– Ci riusciranno prima quegli stronzi del V Club, me lo sento.
– Sono solo degli sbruffoni maschilisti, non sanno neanche fare atterrare uno spillo su Zeuspolia!
– Non mi interessa nulla di loro e dei loro club esclusivi.
– Quando riuscirai a completare la missione zero, vedrai come roderà il fegato. Lo sanno che sei più in gamba di loro. Per loro il nome Dorix è come un allarme antincendio, scappano a gambe levate!
– Scrivi un sacco di stronzate, ma se non ci fossi tu non saprei come andare avanti, amica mia.
– Lo stesso per me, lo sai.
Dalla stanza accanto la riportarono alla dura realtà.
– Esci da quella connessione e vieni subito a tavola!
La voce di sua madre tradiva una delusione antica, come se le parole uscissero più per obbligo che per scelta consapevole.
– Devo disconnettere, ci sentiamo dopo.
– Baci.
– A dopo.
Dorotea entrò in cucina come un imputato in aula di tribunale. Non ricordava il momento in cui aveva iniziato a non osare guardare sua madre negli occhi. Forse era stata una cosa graduale: da quando papà era scomparso, era andato tutto al diavolo. Neanche troppo lentamente. Non incolpava sua madre, e lei non incolpava Dorotea. Aveva senso parlare di colpe?
Anche senza trovare un capro espiatorio, le cose erano al punto in cui erano e Dorotea si sedette a tavola con l’obiettivo di ingurgitare qualsiasi cosa trovasse nel piatto nel minor tempo possibile.
La madre si mosse sulla sedia, come in attesa di un segnale di vita.
– Ho parlato con i Silzov.
Dorotea non voleva sentire quello che aveva da dire. Desiderava avere un connettore che le inondasse i timpani, di quelli che si potevano azionare a piacere. Uno come quelli che hanno i giovani alla moda per istupidirsi con i ritmi ossessivi della neuro dance. A lei non interessava quella robaccia da cerebrolesi, interessava solo non sentire per i successivi dieci minuti, isolarsi da un mondo che non sentiva più suo.
– Quel posto all’accoglienza del centro commerciale non è più libero. Erano molto dispiaciuti.
– Lo sai che non posso.
– È solo questione di tempo. Basta avere un pochino di pazienza. Ormai hai diciott’anni, devi trovarti un lavoro.
– Faccio quei test da remoto.
– Non è un lavoro vero, quello.
Sua madre si ostinava a pensare che Dorotea avesse solo un malessere passeggero che sarebbe scomparso con la forza di volontà. Bastava solo spremere le meningi, socchiudere gli occhi e aspettare che tutto passasse.
Invece, Dorotea sapeva che anche un minuto in quella situazione l’avrebbe mandata in un tale stato di prostrazione che risalire a galla sarebbe stato impossibile.
– La gente non può farti del male. Devi riuscire a rimetterti in gioco, incontrare le persone, cercare un contatto vero. Quella maledetta connessione non può sostituire la vita reale.
Quante volte aveva sentito questo discorso? Quando sua madre si sarebbe stufata di ripetere queste ovvietà da rotocalco? Dorotea prese l’ultimo cucchiaio di minestra, si alzò e lasciò la stanza, senza voltarsi.
Casey Smitherson
Casey Smitherson era davanti al cervellone, un modello multitor che dimostrava tutti i secoli che aveva. Il dottore in scienze sociali era perplesso, continuava a rileggere i risultati delle lunghe elaborazioni di quel modello di antiquariato tecnologico come se fossero il compito a casa di un alunno che si applica poco.
Eppure.
Si passò le dita tozze tra i radi capelli della fronte.
Eppure quell’insieme di circuiti polverosi aveva sempre fatto il proprio dovere per migliaia di anni.
Si alzò dalla scrivania e zoppicò in tondo per la sala server. Gli sembrava di essere un criceto in gabbia, senza alcuna libertà se non quella di girare per il piccolo spazio a lui concesso. Perché