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Daisy Miller
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E-book84 pagine1 ora

Daisy Miller

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Daisy Miller, scritto nel 1878, è considerato uno dei capolavori dello scrittore americano Henry James. Ritratto intenso di una giovane americana che, nella buona società europea (la trama si dipana dalla Svizzera alla stupenda e decadente Roma dei papi), viene giudicata troppo libera (se ne va a passeggio per Roma dopo il tramonto, sola con un giovanotto che non è nemmeno il suo fidanzato...) e quindi imperdonabilmente poco seria, e messa al bando; solo dopo la sua morte improvvisa sapremo, insieme al protagonista narratore, che Daisy era assolutamente innocente, non una civetta o peggio, ma semplicemente una ragazza libera, indipendente, spontanea e disinteressata, amante del passeggiare e vagabondare, oppressa dai lacci delle convenzioni sociali che imprigionavano le donne. Eroina femminista ante litteram, Daisy viene posta, dalla narrazione del co-protagonista Winterbourne, in una situazione culturale considerata "naturale" nella cultura patriarcale, fino all'invisibilità: la donna, priva di voce e di pensiero, oggetto d'interpretazione e di giudizio; l'uomo, detentore dell'autorità del punto di vista, titolato a interpretare e giudicare.
LinguaItaliano
Data di uscita12 feb 2016
ISBN9788868162610
Autore

Henry James

Henry James (1843-1916), the son of the religious philosopher Henry James Sr. and brother of the psychologist and philosopher William James, published many important novels including Daisy Miller, The Wings of the Dove, The Golden Bowl, and The Ambassadors.

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    Anteprima del libro

    Daisy Miller - Henry James

    IV

    il Narratore audiolibri

    presenta

    Daisy Miller

    di

    Henry James

    Traduzione a cura di

    Maurizio Falghera

    Versione integrale

    il Narratore audiolibri

    Zovencedo, Italia, 2016

    Capitolo I

    Nella cittadina svizzera di Vevey c’è un albergo particolarmente accogliente. In realtà è solo uno dei tanti alberghi, visto che ospitare i turisti è la risorsa di questo luogo, situato, come ricorderanno molti viaggiatori, sulla sponda di un lago di un azzurro incantevole, un lago che invita ogni turista a visitarlo.

    La riva del lago presenta una serie ininterrotta di costruzioni di ogni categoria, dal ‘grand hotel’ all’ultima moda, con la facciata bianco gesso, centinaia di terrazze e una dozzina di bandiere sventolanti sul tetto, fino alla pensioncina svizzera dei tempi andati con il nome tracciato a lettere gotiche sulla facciata rosa oppure gialla e il bizzarro padiglione estivo in un angolo del giardino. Uno degli alberghi di Vevey, tuttavia, è famoso, classico perfino, in quanto si distingue, per una certa aria di lusso e insieme di compostezza, da molti vicini di più recente e meno nobile origine.

    In questa regione, durante il mese di giugno, i turisti americani sono numerosissimi; si può addirittura dire che in tale periodo Vevey assuma quasi le caratteristiche di una località termale americana. Ci sono immagini e suoni che evocano la visione e l’eco di Newport o di Saratoga: uno sfarfallar di giovanette all’ultima moda, il fruscio di balze di mussola, il frastuono di musica da ballo nelle ore del mattino e, ininterrotto, il trillo di voci acute.

    Tutte queste cose si colgono nell’eccellente locanda delle Trois Couronnes e nella fantasia si viene trasportati all’Ocean House o alla Congress Hall. Vi è però da aggiungere che alle Trois Couronnes ci sono alcuni tratti che alterano questo quadro e la distinguono nettamente da questi suggestivi richiami: inappuntabili camerieri tedeschi, dall’aria di segretari di legazione; principesse russe sedute in giardino; ragazzini polacchi che passeggiano tenuti per mano dal precettore; la vista della cima innevata del Dent du Midi e le pittoresche torri del castello di Chillon.

    Chissà se erano le analogie o le differenze a prevalere nella mente di un giovane americano che, due o tre anni fa, seduto nel giardino delle Trois Couronnes, osservava intorno a sé, piuttosto pigramente, alcune di queste graziose visioni ricordate più sopra.

    Era una splendida mattina d’estate, e da ogni punto di vista il mondo doveva sembrare incantevole al giovanotto. Era giunto da Ginevra, il giorno prima, con il vaporetto, per far visita a sua zia, la quale, dopo un lungo soggiorno in quella città, abitava ora nell’albergo. Ma la zia aveva l’emicrania – ce l’aveva quasi sempre – e ora, tappata nella sua stanza, aspirava canfora, cosicché egli era libero di gironzolare. Poteva avere un ventisette anni; quando gli amici parlavano di lui, dicevano che era a Ginevra per ‘studiare’, ma se a parlarne erano i nemici… beh, dopo tutto, non aveva nemici: era un giovanotto amabile e simpatico a tutti. In realtà si può dire soltanto questo: quando certe persone parlavano di lui, sostenevano che, se si tratteneva così a lungo a Ginevra, era per devozione a una signora lì residente – una straniera più avanti negli anni di lui. Pochissimi americani – anzi nessuno, secondo me – aveva mai visto questa signora sulla quale giravano varie storie curiose. Ma Winterbourne aveva un affetto di vecchia data per la piccola metropoli del calvinismo; da ragazzo vi era andato a scuola e, più tardi, vi aveva frequentato l’università: circostanze queste che lo avevano portato a fare numerosissime amicizie giovanili. Molte di queste le aveva conservate e ne era molto soddisfatto.

    Dopo aver bussato alla porta della zia e aver appreso che era indisposta, aveva fatto una passeggiata in città rientrando quindi per la colazione e, una volta finita, era intento a bersi una tazza di caffè servitagli su un tavolino in giardino da uno di quei camerieri con l’aria da diplomatico. Da ultimo, dopo il caffè, si era acceso una sigaretta. Di lì a poco, lungo il sentiero, arrivò un ragazzino, un moccioso di nove o dieci anni. Il piccolo, minuto per la sua età, aveva sul volto un’espressione matura, un colorito pallido e lineamenti appuntiti. Portava pantaloni alla zuava e calzettoni rossi che mettevano in evidenza le magre gambette; indossava anche una cravatta di un rosso sgargiante. In mano teneva un lungo bastone alpino e ficcava la punta aguzza dove gli capitava: nelle aiuole, nelle panchine, nello strascico degli abiti delle signore. Si fermò davanti a Winterbourne, guardandolo con due occhietti luminosi e penetranti.

    «Mi date una zolletta di zucchero?», chiese con una vocina aspra e acuta, una voce immatura eppure, in un certo modo, non giovanile.

    Lanciando un’occhiata al tavolino lì accanto, sul quale era poggiato il servizio da caffè, Winterbourne notò che rimanevano parecchi pezzetti di zucchero. «Sì, puoi prenderne una, ma non credo che lo zucchero faccia bene ai ragazzini».

    Il ragazzino avanzò e scelse con cura tre delle agognate zollette, due delle quali le seppellì nella tasca dei pantaloni, mettendo prontamente in bocca l’altra. Infilò, a mo’ di lancia, il bastone nella panchina di Winterbourne cercando nel frattempo di spezzare con i denti il pezzo di zucchero.

    «Accidenti, è du-r-ro!», esclamò pronunciando l’aggettivo in un modo tutto suo.

    Winterbourne si era subito accorto che poteva avere il piacere di considerarlo un compatriota. «Attento a non rovinarti i denti», gli disse in tono paterno.

    «Non posso rovinarmi i denti. Sono caduti tutti. Ho soltanto sette denti. Mia mamma li ha contati ieri sera e subito dopo è caduto uno. Dice che mi picchierà se me ne cadono degli altri. Non posso farci niente. È questa vecchia Europa. Colpa del clima se cadono. In America non mi cadevano. Sono questi alberghi».

    Winterbourne era divertitissimo. «Se mangi tre zollette di zucchero, stai pure sicuro

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