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Il Telegramma
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E-book354 pagine5 ore

Il Telegramma

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Info su questo ebook

L'euforia di partire volontario in guerra e poi la delusione per quel disastro fisico e mentale, sembrano sparire su quel treno che lo riporta dalla sua Nina, dopo quasi cinque anni. Senonché, anche stavolta, il destino gli volta le spalle e la sua vita sentimentale va a pezzi. Non gli resta che emigrare, pur di tagliare i ponti col passato, con la famiglia, e provare una nuova avventura: le miniere della Vallonia. Non sa che quello sarà un altro inferno. Ma Rocco è tenace, cerca il riscatto che la vita gli deve. Quando, dopo quindici anni, pensa d'aver raggiunto il giusto equilibrio nella solitudine, un telegramma gli sconvolgerà nuovamente la vita: un "bastardo" gli presenterà il conto.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ago 2022
ISBN9791221414646
Il Telegramma

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    Anteprima del libro

    Il Telegramma - Corrado Morale

    CAPITOLO 1

    Il compagno di viaggio

    4 aprile 1960

    Rimase con un piede sul predellino e l’altro sulla banchina, si voltò all’indirizzo del controllore che sopraggiungeva e a larghi gesti e col fischietto lo sollecitava a salire. Esitò un attimo poi balzò sul treno con la sensazione che stavolta non sarebbe sceso alla fermata successiva com’era avvenuto altre volte: questa volta era tutta un’altra storia.

    Per diversi giorni quel telegramma era diventato quasi un’ossessione, ma la sua professione, anche in questo caso, l’aveva aiutato a non lasciarsi prendere dal panico.

    Cercò il suo scompartimento indicatogli dall’addetto al vagone cuccette.

    Si affacciò nello scompartimento. Bon jour monsieur salutò, all’indirizzo del compagno di viaggio.

    Bon jour a elle rispose l’uomo, con la voce stridula che nulla c’entrava con l’imponente stazza.

    Rocco sistemò per bene la valigia e sopra di essa ripiegò con molta cura il soprabito, non si separò invece dalla borsa in pelle.

    Je vais à Milan. Et toi? chiese l’uomo, senza tanti preamboli.

    Moi aussì rispose Rocco, mentre lo soppesava con un’occhiata.

    Tu es italien?

    Stavolta lo guardò di traverso; quell’uomo stava proprio esagerando; gli suonava fin troppo eccessiva tutta quella confidenza. Sì, e a quanto pare anche lei.

    Sì, sono veneto, di Caorle. Non immagina che piacere viaggiare con un connazionale. Lei è meridionale, vero? Non si direbbe.

    Come primo approccio non c’è male. Spero che non sia logorroico, pensò.

    Le discussioni sterili lo annoiavano, fece buon viso, pensando che dovevano viaggiare insieme e chissà per quante ore.

    E dov’è diretto? Non penso vada a Milano.

    Anche le risposte si dà. In Sicilia.

    Lei è di poche parole, vero?

    E a lei, a quanto pare, piace chiacchierare volle essere diretto, a costo di apparire scortese. L’uomo non fece una piega.

    Un viaggio piuttosto lungo. Io non ce la farei a sopportare così tante ore sul treno. Per fortuna mi fermo a Milano, per impegni.

    Beato lei rispose, anche se avrebbe voluto dire: meno male.

    Sposato?

    Un’occhiataccia fulminò l’uomo. Ora era davvero troppo, stava esagerando. Mi tolga una curiosità, è forse un poliziotto? Mi sta pedinando? e ostentò un timido sorriso senza però nascondere la sua contrarietà. Si rende conto che in cinque minuti mi ha fatto un sacco di domande? Capisco che dobbiamo affrontare parte del viaggio insieme, ma ce la sta mettendo tutta nel costringermi ad essere scortese.

    L’uomo cambiò espressione. Pardon, ha ragione, sono uno stupido. Me lo dicono in tanti che sono sfacciato.

    Se proprio ci tiene a saperlo, sono separato. E ora cosa se ne fa di questa informazione?

    Era tanto per parlare. E poi si capisce che lei sta provando piacere a chiacchierare, anche se ostenta serietà.

    Lei è proprio un bel tipo, sa? e tirò fuori una sigaretta che mise in bocca, lo fece per abitudine, non aveva intenzione di fumare, aveva smesso da un mese circa; se le portava in tasca per sfidare la sua coerenza. Si alzò, allontanandosi in corridoio, anche per sganciarsi dalla invadenza dell’uomo. Non era proprio nelle condizioni di ascoltare ulteriori stupidate, aveva ben altri pensieri. Con la coda dell’occhio gli vide aprire il giornale che teneva sottobraccio.

    Se legge quanto parla, ho buone speranze, pensò, sorridendo. Mi doveva capitare anche questa.

    Lo sballottio del vagone e lo sferragliare delle rotaie, lo sguardo al paesaggio, gli riportarono alla mente quel giorno di ritorno dalla guerra, sacca sulle spalle, alla ricerca di un posto libero, anche solo un angolino. Tutti i vagoni erano strapieni di militari. Non fece in tempo ad elaborare i ricordi che si vide l’uomo davanti, con la mano tesa.

    Mi scusi se non mi sono presentato prima. Dottor Boattin.

    Ispettore Mallia. Molto lieto rispose con una energica stretta di mano.

    Ispettore? O porca… Non mi dica che è della polizia tributaria? e forzò un sorriso che non ingannò l’occhio allenato di Rocco: era per davvero sorpreso e preoccupato.

    Polizia giudiziaria rispose, sorprendendosi per la sua accondiscendenza a dargli corda. Scosse la testa: quell’uomo aveva avuto ragione a dire che stava stuzzicando la sua seriosità.

    Caspita! non mi dica che è su questo treno per il suo lavoro?

    No, stia tranquillo.

    Sono imperdonabile. Mi scusi e ritornò a sedersi, a leggere il giornale.

    Rocco tirò un sospiro di sollievo, finalmente poteva assaporare un momento di silenzio e di rilassamento. In punta di piedi andò a sedersi.

    L’uomo abbassò di colpo il giornale: Guarda un po’ cosa bisogna sopportare. Sono trascorsi quattro anni, ho perso un fratello in quel tragico incidente di Marcinelle e questi ancora speculano con questi articoli demenziali alla ricerca dei colpevoli, quando tutti sanno qual è la verità. Délinquants, assassini!

    Rocco poggiò il capo sul poggiatesta e chiuse gli occhi, non aveva alcuna intenzione di commentare, anche a costo di apparire maleducato. Ci mancherebbe che si mettesse anche lui a rispolverare quei tristi ricordi. Non era proprio in vena di improntare la discussione su quella tragedia. L’uomo continuò a leggere, ma oramai i ricordi di quegli anni avevano fatto breccia nella sua mente.

    ҉   

    Da quindici anni non saliva su un treno a lunga percorrenza, da quando partì alla volta delle miniere della Vallonia, un viaggio amaro, indimenticabile. I sensi di colpa, quando decise di emigrare, lo avevano tenuto in ansia per diversi giorni. Poi, quando vide la madre serena nel salutarlo alla stazione, si tranquillizzò. Fu l’abbraccio col padre, più lungo del solito, e che non si aspettava, a fargli rammollire le gambe. Per la prima volta lo aveva visto commosso. Una roccia come don Luigi aveva gli occhi lucidi. Il fratello Filippo, invece, ostentava sicurezza, cercando di camuffare i propri sentimenti. Ripeteva spesso che non si sarebbe mai allontanato dal paese, che gli era bastata la vacanza in Africa, salvo lasciarsi andare a una frase sibillina durante l’abbraccio di addio: Chissà che non ci si veda presto.

    Dieci mesi dopo la sua partenza per il Belgio, lo raggiunse anche la famiglia.

    Suo padre, dopo mesi di travaglio mentale, aveva deciso: Felicetta, ce ne andiamo in Belgio pure noi. Mio cugino mi ha assicurato che nelle miniere il lavoro non manca, ci pensa lui a sbrigarci i documenti. È ammanicato con gente che conta, accussì non disturbiamo Rocco.

    Con queste parole risolute don Luigi aveva sorpreso tutti i componenti della famiglia, nessuno aveva fiatato, mentre sorseggiavano il brodo di gallina tanto agognato, scrutandosi con gli sguardi. Solo donna Felicetta aveva smesso di sorbire il brodo, le era venuto un nodo alla gola.

    Filippo, l’indomani, prenotò la telefonata, voleva comunque avvisare il fratello di quella decisione.

    Rocco vinemu tutti o Belgiu, ‘u papà accussì ha deciso. Quei farabutti ci hanno tagliato tutta quanta la vigna.

    Maledetti! aveva risposto, dopo il primo disorientamento. Non so se vi conviene venire in questo periodo. Qua si muore dal freddo, c’è ‘a nivi e io la conosco bene la neve, voi no. Sarebbe meglio se veniste a marzo, fatevi il Natale a casa in famiglia, poi in primavera ne riparliamo.

    Provò a dissuadere almeno il fratello Filippo. Sperava che prendendo tempo ci ripensassero. Era contrario a quella scelta, specie dopo la sua esperienza lavorativa in quell’inferno, come lo definiva lui, che già durava da un anno. Capiva le esigenze che spingevano la famiglia a fare quella scelta: la fame, le umiliazioni nel mendicare un lavoro al paese.

    Tutta quanta la famiglia, i genitori, le due sorelle e il fratello, arrivò alla stazione di Charleroi il giorno dell’Immacolata.

    Quel Natale, Rocco dimenticò tutte quante le sue perplessità, quando attorno al misero tavolo vide ricomposta l’intera famiglia. Fu uno dei giorni più belli delle loro vite. Donna Felicetta si prodigò a preparare, insieme alle figlie, i biscotti di mandorla, la cubbaitax1, le impanatex2; pure tre chili di farina si erano portati dalla Sicilia; ora erano pronti ad affrontare qualsiasi avversità. Per i Mallia stava per cominciare una nuova vita.

    Mai e poi mai avrebbe immaginato un destino così tragico: un’intera famiglia frantumata da quelle sciagurate miniere; lui a Charleroi, la sorella Nunzia a Mulhouse, per fortuna felicemente sposata; invece la madre e la sorella Rosetta se ne ritornarono in Sicilia; anche Il fratello Filippo, quello che più di tutti si era adattato alla dura vita della miniera, attratto com’era dalle giovani belghe che gli stemperavano le sfiancanti fatiche del giorno, non seppe resistere al profondo dolore della madre e desistette dagli agognati progetti, rientrando con loro al paese d’origine. Rocco, invece, che non si dava pace per la tragedia che li aveva travolti, decise di rimanere in Belgio, ad espiare le sue colpe, quelle di non essere riuscito ad evitare che la famiglia lo raggiungesse.

    Alla stazione di Charleroi, quel giorno dell’addio, da lì a qualche ora, si sarebbe riappropriato della sua solitudine. Solo quando vide il treno sparire alla vista, nell’umidità estiva, capì che si era portato via gran parte di sé e sentì spezzarsi il cuore. Mai avrebbe immaginato un epilogo così triste.

    Era convinto d’aver pagato il suo debito alla vita sacrificando più di quattro anni maledetti tra guerra e prigionia. Che il gelo della Russia gli avesse congelato non solo i piedi, ma anche il cuore, lo capì al rientro al paese dalla guerra. Non fu sufficiente il caldo sole dell’Isola a scaldargli l’animo: il ritorno a casa di entrambi i fratelli aveva portato in famiglia due anime spezzate, anzi tre, anche il cugino Santino, che però era rientrato in paese due anni prima a causa di una brutta ferita da guerra.

    Assuefatto a quello stato d’animo, ci pensarono i compaesani a fargli notare in più di un’occasione che aveva lasciato la testa sul Don. Non di meno Filippo, incolpato d’essersi bruciato il cervello nella bollente Addis Abeba, anche lui quattro anni prigioniero degli inglesi in Sud Africa.

    Vivevano nello stesso cortile e fin da bambini si spartiinu ‘u sonnu, come diceva donna Felicetta. I loro padri, i fratelli don Luigi Mallia e don Turi, gente di poche parole, austeri di natura, grandi lavoratori, avevano da sempre dedicato la loro vita prestando le braccia come jurnatari, braccianti agricoli. Sempre restii a mostrare e ad esprimere i loro sentimenti, ma rispettosi l’uno dell’altro, dovettero impegnare le loro energie nel tenere a bada le loro famiglie continuamente ai ferri corti. Le continue scaramucce facevano presagire qualcosa d’irreparabile da un momento all’altro. Per evitare ciò, fu la saggia donna Felicetta a decidere di defilarsi con tutta la famiglia, per non esasperare il clima sempre più tempestoso. Luigi abbassamu nujautri ‘a testa perché quelli sono pazzi e non ragionano. Da questo momento ognuno si ni sta a so’ casa. Mi piange il cuore, ma non ci sono alternative, oramai te ne sei accorto pure tu; dispiace pe’ picciriddi che non hanno colpe.

    Furono le parole che sancirono la triste decisione in famiglia.

    Ciononostante, i tre cuginetti non smisero di vedersi e di scorrazzare in lungo e in largo per il paese e nei loro poderi di campagna, anch’essi confinanti. La Cunziria era il loro regno. Le discussioni che in seno alle due famiglie si sciorinavano spesso a cena, loro nemmeno le ascoltavano o non vi davano peso.

    Don Turi, a malincuore, aveva ammonito il figliolo Santino dal vedersi coi cugini. Se ‘u sapi to matri e i to soru, t’ammazzunu a lignati!

    Aveva esagerato volutamente per intimorirlo, gli piangeva il cuore, lui ch’era pacifico per natura, come lo erano tutti i Mallia, ma sapeva che in quelle parole c’era molta consapevolezza.

    Papà, che facciamo di male se solo giochiamo? era sempre la stessa domanda che gli rivolgeva Santino.

    Tu non puoi capire, sei troppo picciriddu rispondeva don Turi, sempre allo stesso modo.

    Invece Santino capiva benissimo e finiva con l’approvare ogni rimprovero del padre, percepiva i sentimenti che lo dilaniavano, glieli leggeva in faccia.

    A loro tre si aggregò un altro spirito libero: Nina, che nel periodo estivo abitava in campagna a meno di duecento metri dai poderi dei Mallia. Un irrefrenabile maschiaccio, come la definivano quanti la conoscevano, la più sarbagghja ragazzina del paese.

    Quando un giorno videro arrivare Santino gonfio in faccia e con un labbro rotto, Rocco e Filippo non si avvicinarono più all’abitazione degli zii. Fu donna Felicetta a voler chiarire col cognato. Un giorno andò ad attenderlo in strada, al ritorno dal lavoro, sfidandolo a muso duro: Senti, Turi, tu ‘u sai ‘u rispettu ca purtamu a ttia, ma dicci a to’ famigghia che se si azzardano a tuccari e picciriddi, finisci a schifiu. Turi, è arrivato il momento di metterti i pantaloni, metti in riga quelle quattro majarex3 che hai in casa. Al povero Santino lo stanno martoriando, mischino, solo perché gioca con Rocco e Filippo. Ti pare giusto? Tu e tuo fratello vi vuliti scannari comu l’animali? E scannativi, basta che lasciate in pace i picciriddi. Turi, ci stiamo avvelenando il sangue tutti quanti, lo capisci?

    Ma l’esperienza di don Luigi suggerì ben altra risposta alla moglie: Felicetta, vedrai che non servirà a niente, lavarici ‘a testa o sceccu è tempu persu.

    Difatti non cambiò nulla. Don Turi era succube della moglie e delle figlie, e chi ne faceva le spese era il piccolo Santino. Da quel momento tagliarono definitivamente i rapporti con le cugine, le terribili sorelle di Santino, che, a detta di tanti, al posto del latte avevano poppato fiele.

    Ci pensò il destino a metterci lo zampino: i tre cugini si ritrovarono a marciare felici e boriosi nel cortile del vecchio mercato coi coetanei Balilla.

    ҉   

    Con gli occhi ancora chiusi, si lasciò andare a un profondo respiro.

    Monsieur… ispettore… si sente bene? gli vide aprire gli occhi. Non volevo disturbarla, ma ha una brutta cera. Per fortuna le ho visto accennare un sorriso. L’ho disturbata, vero?

    Avrebbe voluto dirgli di sì. Ma cominciava a provarci gusto a dialogare in italiano. Non mi disturba affatto. Sono solo un po’ stanco. Pardon.

    Si vede lontano un miglio che ha dei problemi che lo assillano.

    Rocco mosse più volte la testa. Quell’uomo era incredibilmente inarrendevole, ma lo stava stimolando come nemmeno lui stesso si aspettava. Ho ricevuto un telegramma dalla Sicilia. Mio fratello maggiore ha qualche problema di salute, anche se non sono al corrente della gravità.

    Non sarà niente di grave, vedrà.

    Quella chiacchierata stava diventando troppo confidenziale. Stavolta lo prese lui il giornale che aprì in una pagina a caso. Provò in quel modo a rimanere in pace per qualche minuto. La mente era tornata al telegramma; da quando lo aveva letto non aveva più dormito sereno, anche se ultimamente non è che fosse così tanto tranquillo. La stranezza della faccenda era che questo amico del telegramma era risultato essere anonimo. La sua professione non gli lasciava alternative e aveva cominciato a pensarle tutte e a decifrare ogni indizio: ‒ E se invece stesse male la mamma? E perché farmelo sapere in quel modo?

    Si concentrò sulle parole del telegramma. In sette giorni lo aveva analizzato più d’una volta, parola per parola, da ricordarselo a memoria; non c’era bisogno di tirarlo fuori dalla borsa e rileggerlo.

    SONO UN AMICO DI FAMIGLIA. TUO FRATELLO È MALATO. I TUOI FAMILIARI NON VOGLIONO FARTELO SAPERE.

    Non lo aveva convinto fin da subito, troppo strano e paradossale. A lui sarebbe bastato qualche ora a verificarne l’attendibilità. Col fratello si sentiva per telefono una volta al mese e nelle festività anche con la madre. Ricevuto il telegramma, dopo un primo smarrimento, gli restò da fare la cosa più semplice: mettersi in contatto con qualcuno dei familiari. Prenotò la telefonata e chiese di Filippo alla sorella Rosetta. La risposta fu che Filippo era impegnato fuori paese per una ventina di giorni con la raccolta delle fave. Non convinto, telefonò alla sorella Nunzia a Mulhouse; lei non era il tipo da nascondere dei segreti e se ci fossero state brutte notizie gliele avrebbe comunicate. Anche lei cadde dalle nuvole e dal tono della voce e dalle parole capì che era all’oscuro di tutto. Nunzia si prese la briga di informarsi lei, con discrezione. Due giorni dopo lo tranquillizzò, informandolo che a Calatorre era tutto tranquillo. A nulla servirono le sue rassicurazioni, l’istinto gli suggeriva che in tutta la faccenda c’erano delle stranezze.

    Dopo tre giorni di cambi d’umore e ripensamenti, aveva deciso che fosse l’occasione di andare al paese e rivedere la madre. Quando rifletté sul numero di anni trascorsi senza aver più rivisto i familiari, gli sembrò così assurdo che si diede dell’imbecille, pur consapevole ch’era stata una sua scelta e ben ponderata: erano trascorsi dodici anni.

    Monsieur, monsieur Mallià!

    Mallia lo corresse.

    Pardon. Preferisce la cuccetta sopra o quella in basso?

    Io avrei prenotato quella sotto.

    Merde! si lasciò scappare il dottore. Soffro di claustrofobia e quella sopra mi dà ansia.

    Rocco lo guardò stranito. Semmai, dovrebbe essere quella sotto, a scatenare certi stati d’ansia, pensò. Non si preoccupi, possiamo scambiarci di posto.

    Lei è molto gentile, ispettore. Mi permetta di chiederle un altro favore. Quando lei è d’accordo io andrei a dormire. Comincio a sentire un po’ di stanchezza.

    Sì, quella delle mandibole, sorrise per la battuta che si tenne in gola. Anch’io ho sonno e cominciò a togliersi la giacca. Slacciò la fondina, che mise insieme alla pistola nella borsa, e poggiò il tutto ai piedi del lettino. Buonanotte salutò, salendo per la scaletta.

    Buonanotte a lei e grazie ancora.

    Come immaginava non riuscì a prendere sonno. Per di più il suo compagno di viaggio russava già, neanche il tempo di poggiare la testa sul cuscino. Lo sballottio del treno, certi odori, gli riportarono alla mente sensazioni già vissute: il ritorno dalla guerra, Nina, la brusca decisione di partire e lasciare quanto prima il paese; qualsiasi destinazione andava bene purché fosse la più distante possibile, sperando che la lontananza gli facesse assorbire e dimenticare quella triste storia con Nina.

    CAPITOLO 2

    L’orologio

        Il fischio insistente e lo stridio dello sferragliare sulle rotaie preavvisò l’approssimarsi della stazione di Milano. Guardò al polso per vedere l’ora ma non vi trovò l’orologio. Ancora assonnato, si guardò intorno, poi si sporse verso il lettino sotto: era vuoto. Probabilmente il dottor Boattin era in corridoio. Si tirò su e si mise seduto. Continuò a cercare il suo prezioso orologio riflettendo che probabilmente lo aveva messo nella borsa. Indossò velocemente e nervosamente la fondina. Era contrariato in viso per non essersi svegliato in anticipo, cosa che trovò strana, lui che aveva il sonno leggerissimo. Non appena scese dalla scaletta, si sgranchì le membra facendo schioccare quante più ossa possibili e cominciò a rovistare nella borsa. Prese la pistola che inserì nella fondina e insistette a cercare l’orologio che non trovava. In fretta e furia indossò la giacca e nervosamente andò ad affacciarsi nel corridoio cercando il compagno di viaggio. Diede un’occhiata fuori dal finestrino. Un nugolo di persone già con le valigie in mano procedevano svelti verso la stazione, del dottore nemmeno l’ombra. Ritornò nello scompartimento, non c’era neppure il bagaglio dell’uomo. Il treno intanto si era fermato. Prese il suo bagaglio, si aggiustò la cravatta alla bene e meglio. Era piuttosto frastornato sul da farsi. L’occhio andò alla banchina, attraverso il finestrino. Lo intravide tra il via vai di persone e per un attimo si incrociarono gli sguardi. Il dottore anziché salutarlo affrettò il passo verso la stazione. Fu in quell’istante che Rocco capì cosa stesse succedendo. Cazzo, l’orologio!

    Stava scendendo precipitosamente quando fece marcia indietro. Il soprabito, merde!

    Sulla banchina una marea di gente gli impediva di correre speditamente. Arrivato alla stazione si voltò a guardare in tutte le direzioni: l’uomo era sparito nel nulla. Puntò l’ufficio di Polizia che scorse in fondo sulla destra e vi si recò senza indugio. Dovrei denunciare un furto.

    Hanno rubato l’orologio anche a lei? chiese l’appuntato.

    Così pare. E stranamente non il portafogli.

    A quanto pare l’uomo degli orologi ha colpito ancora. Ma come si fa a farsi rubare l’orologio dal polso? O era da taschino? ironizzò l’altro funzionario. Glielo hanno rubato in Francia o in Italia? Sappia che è la tredicesima denuncia in un mese, e senza esito. Anche a lei per intenerirla ha raccontato che ha perso un parente a Marcinelle? Vuole dunque sporgere denuncia?

    Rocco esitò a rispondere. No, lasci stare. L’orologio era di poco valore e vado di fretta. Ho da prendere la coincidenza si congedò, mentre serio sfidava i sorrisini ironici dei due poliziotti che nulla fecero per trattenerlo e stilare la denuncia.

    Si precipitò al bar dal lato opposto. Non era orgoglioso d’aver mentito al funzionario di polizia: l’orologio era di valore, altroché, era l’ultimo ricordo che lo legava a Monique; ma le ilarità che si sarebbe attirato lo avrebbero umiliato ancor di più; un ispettore di polizia che si era fatto buggerare da un ladruncolo. Rifiutò, però, l’idea che il fantomatico dottor Boattin gli avesse mentito sulla tragedia del fratello a Marcinelle. Solo chi era stato coinvolto nell’intimo ne avrebbe parlato emotivamente a quel modo. Di questo ne era certo. Nelle parole aveva avvertito l’emozione che neppure un bravissimo attore avrebbe simulato così bene.

    Un buon caffè italiano, così tanto agognato, gli avrebbe alleviato quell’affronto.

    Faccio in tempo a comprarne un altro, di orologio, pazienza. E poi, dai, era simpatico. Merde!

    Seduto al tavolino sorseggiò con goduria il caffè. Continuava a guardarsi intorno, quel posto gli metteva ansia. Lo disturbava il pensiero delle scene vissute quattordici anni addietro: centinaia di persone, appena scese dal treno, spaesate, ognuno a trascinare la propria valigia di cartone rappezzata alla meglio; ognuno a cercare conforto negli occhi tristi dell’altro. Sembrava che fosse scoppiata la terza guerra mondiale, invece era l’ennesimo tradimento della patria ai suoi reduci. Quella volta non si andava all’estero a combattere il nemico, ma a sconfiggere la fame. Quasi tutti andavano nella stessa direzione: il Centro di emigrazione che i cartelli indicavano fosse nei sotterranei della stazione.

    Ogni immagine di allora gli stava passando nella mente come fosse ieri, lo sguardo perso nel nulla, con l’ennesimo senso di colpa. Ne è valsa la pena voler rimanere a tutti i costi in Belgio da solo? È stato giusto privare i miei familiari dal vedermi per tutto questo tempo? E già, col senno di poi tutto sembra inspiegabile e ingiustificabile, ma i miei sentimenti? Solo io li conosco a fondo. Chissà che aspetto avrà l’adorabile selvaggia Nina? Se ha mantenuto gli stessi occhi, vigili come quelli di un’aquila, gli stessi nerissimi capelli? Avrà come minimo quattro, cinque figli e sarà pure ingrassata. Sorrise per quel pensiero. Santino sono certo non le avrà fatto mancare nulla.

    E già, il suo cuginetto. Un’amara espressione gli si stampò in viso. Respirò profondo. Sentiva sempre più l’aria italiana impregnargli le viscere. Tutto si stava mescolando: odori, colori; su tutto prevaleva l’odore della stazione ferroviaria, dei treni, del piscio.

    Stavano riaffiorando sensazioni sepolti nella sua mente che pensava d’avere scacciato del tutto, quel tremendo giorno, quel fatidico giorno del ’46.

    ҉

    Calatorre 7 maggio 1946

    Nessuno della famiglia sapeva che quel giorno, su quel treno, ci fosse anche lui. Girava voce in paese che a giorni sarebbe arrivato un convoglio carico di militari provenienti dai campi di concentramento tedeschi e russi. Aveva spedito una cartolina cinque giorni prima, da Bolzano, avvisando che sarebbe rimasto in quel posto giusto il tempo che si raggruppassero quanti più militari possibili. In due giorni erano già settecento e nella baraonda vi si infilò anche lui. Con la fine della guerra e le disavventure vissute, era pronto ad affrontare la vita di petto e nessuna avversità avrebbe potuto fermarlo.

    Di sicuro in stazione ci sarebbe stato qualcuno ad aspettare il fratello Filippo che incredibilmente aveva incontrato sullo stesso treno, per caso, mentre a Villa San Giovanni attendevano di imbarcarsi sul traghetto, ‘u ferribottu.

    Nell’avvicinarsi alla stazione, mentre la Littorina tagliava la periferia, gli occhi ai finestrini nemmeno vedevano le vistose macerie dei bombardamenti di due anni prima. Le menti erano alle fidanzate, ai loro cari. Una decina di persone erano già a spintonarsi nel corridoio pronti a scendere. L’emozione del cartello ‘Calatorre’ gonfiò i cuori di quanti avevano vagato per giorni, settimane, mesi, per mezza Europa, a piedi, fra mille avversità, con ogni mezzo possibile. Rocco stava assaporando secondo per secondo la libertà attesa per anni. Sentiva già scendergli i brividi lungo la schiena. Chissà l’emozione non appena avrebbe messo piede sulla banchina. L’eccitazione gli si leggeva negli occhi.

    Quando la portiera si aprì, nella ressa, tra spintoni e grida, ne arrivò uno ben distinto dal capannello di persone che si sbracciavano sulla banchina: Filippo!

    Filippo saltò giù dal predellino per primo. Santino! Nina!

    Rocco scese dietro al fratello, aveva il cuore in gola, l’emozione gli aveva mozzato il fiato e paralizzato le gambe. Tra la calca di parenti e amici vide la mano alzata del cugino Santino e di fianco a lui la sua Nina. S’incrociarono gli sguardi. L’urlo di Filippo squarciò la banchina: C’è pure Rocco con me!

    Santino lo riconobbe. Lo chiamò forte: Rocco!

    Rocco aveva gli occhi umidi di gioia, mentre da lontano fissava Nina che, stranamente, era rimasta impassibile, nemmeno un gesto di esultanza. Nina! la chiamò, con la voce strozzata.

    Santino raggiante stringeva a sé Nina e la baciava in continuazione preso dall’euforia. Rocco rimase immobile a guardare la scena, col braccio sospeso a metà per rispondere al saluto di Nina. Si sentì attraversato da un innaturale calore.

    Hai visto chi c’è nella seconda carrozza? Il bastardo con cui abbiamo litigato lo distolse dai pensieri, il fratello. Rocco si voltò a guardare l’uomo che da dietro il finestrino, impassibile, lo stava mirando con lo sguardo sprezzante. Non ebbero il tempo di riflettere che Santino era già lì ad abbracciarli. Rocco! Incredibile! Non ti aspettavamo!

    Una donna, scialle in testa, smunta in viso, gli si avventò contro:

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