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Il Crepuscolo dei Sogni
Il Crepuscolo dei Sogni
Il Crepuscolo dei Sogni
E-book158 pagine2 ore

Il Crepuscolo dei Sogni

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Info su questo ebook

Come ti comporteresti, mosso da diverse sfumature dell’animo, rispetto a scelte difficili e sofferte? Quale passo faresti se ti trovassi in bilico sul "crepuscolo dei sogni"?
Tutti noi abbiamo il ricordo di qualcosa che oggi faremmo diversamente. Una parola che avremmo voluto dire o forse tacere. Nel nuovo romanzo di Prandi c’è questa complessità di stati d’animo e sentimenti, cui fa da sfondo la Germania della seconda metà degli anni ’60, dove un giovane immigrato italiano si muove, con quel misto di ingenuità ed entusiasmo, tra sfide e opportunità.
LinguaItaliano
Data di uscita6 lug 2020
ISBN9788833466576
Il Crepuscolo dei Sogni

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    Il Crepuscolo dei Sogni - Francesco Prandi

    Il Crepuscolo dei Sogni

    di Francesco Prandi

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    Progetto grafico e impaginazione di Sara Calmosi

    ISBN 978-88-33466-57-6

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2020©

    Narrativa – Intrecci

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Il Crepuscolo dei Sogni

    Francesco Prandi

    AliRibelli

    Sommario

    Prefazione

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Prefazione

    Sono cresciuto guardando spaghetti western dove, immancabile come ci vediamo allo scoccare di mezzogiorno, dei cowboy, del whiskey, dei fagioli più buoni al mondo, del treno assalito dai banditi, degli indiani buoni e cattivi e dello sceriffo, c’era lei, la rotolacampo (nome scientifico: S. Tragus). La rotolacampo è quella pianta appartenente al genere Salsola che in autunno si secca, si stacca dal terreno e, spinta da un vento inequivocabilmente cinematografico, inizia a rotolare per il deserto, tra canyon e città di frontiera, spargendo ovunque i suoi semi.

    Non trovavo analogia più calzante di questa per descrivere l’esperienza umana dello scrittore Francesco Prandi, che nel suo girovagare ha seminato l’incipit di innumerevoli storie. Che si tratti di un oceano, della palude pontina o di una città tedesca nella morsa del buio e dell’inverno, il raccolto di Prandi ha sempre quel gusto dolce e amaro di chi ha realmente attraversato una serie di vicissitudini più o meno straordinarie, imbattendosi in uomini e donne che la sua penna è riuscita a trasformare in personaggi da romanzo; e non romanzi scritti per semplice esercizio letterario, ma libri che ti lasciano qualcosa, fosse un bacio, una lacrima, un sorriso o tutte queste cose. C’è appunto tanta umanità in Prandi e nelle storie che racconta.

    Ho già avuto il piacere di scrivere una nota introduttiva a Il cambusiere dei sette mari (Ali Ribelli, 2019) in cui accennavo a una letteratura prandiana, in questa epica dove i cuori degli uomini si gonfiano come vele; è quanto accade al protagonista di questo romanzo, messo di fronte a diverse sfumature dell’animo, a scelte difficili e sofferte, in bilico sul crepuscolo dei sogni.

    Tutti noi abbiamo il ricordo di qualcosa che, oggi, faremmo diversamente. Una parola che avremmo voluto dire o forse tacere. Nel nuovo romanzo di Prandi c’è questa complessità di stati d’animo e sentimenti, cui fa da sfondo la Germania della seconda metà degli anni ’60, dove un giovane immigrato italiano si muove, con quel misto di ingenuità ed entusiasmo, tra sfide e opportunità.

    Il Crepuscolo dei Sogni assomiglia un po’ a un libro-game, dove a ogni pagina immaginiamo di poter compiere una scelta in vece del protagonista e dove non mancano i colpi di scena, quelli che non mancano mai in un buon romanzo qual è la vita.

    Jason R. Forbus

    "Arranco fino a riva, mi adagio esangue su un manto di ciottoli roventi,

    un alito gelido mi desta, tra i rami il vento sibila l'eco del mio delirio,

    mi guardo intorno smarrito, sono solo, ombre sinistre si allungano tremolanti sull'acqua, nel pugno stringo una gemma, il suo nome è amore."

    a mia moglie,

    a mia figlia

    "... E un giorno anch'io gabbiano senza pace

    chiederò al vento di spezzarmi le ali."

    Capitolo primo

    Quando arrivai a casa pioveva da far paura. Avevo lasciato il pisciatoio d’Italia e mi ritrovavo nella più acquosa delle paludi. Non avendo le chiavi con me, suonai il campanello e rimasi in attesa per qualche secondo.

    Nessuno veniva ad aprirmi. Risuonai, sempre più nervosamente, diverse volte, ma la porta rimaneva chiusa. Il giardino non assorbiva più acqua, sembrava proprio una piscina dal fondo verde. Maledetta pioggia! Continuava a perseguitarmi. Ero di nuovo fradicio e non sapevo proprio cosa diavolo fare.

    ‘Via Leonardo da Vinci’, era vuota di macchine, deserta di gente e cupa come le nubi che la inondavano d’acqua. Mi sentii affranto, ma proprio quando l’afflizione stava per tramutarsi in disperazione, mia madre si materializzò con un ombrello tenuto a due mani, sbucando da chissà dove. Nel vedermi bagnato come un pulcino, in quella oscurità pallidamente trafitta dal tenue riverbero del lampione sulla strada, il suo volto assunse un’espressione accorata che le increspò la candida fronte.

    «Toh, guarda chi c'è? Da dove sbuchi fori? Nun t'aspettavo più. Domani è la vigilia de Natale e credevamo proprio che tu n' avessi combinata n'artra delle tue. Dai, entriamo, sei tutto bagnato e così vestito de nero m'aricordi gli spaventapasseri che io e mi sorella Zelina ‹ncontravamo nei campi de granturco quanno, regazzine, scorazzevamo libere come l'aria pe' la campagna romana.»

    «Meno male che sei venuta, mi son sentito perso.»

    «Perché non hai chiamato? Già, dimenticavo che te viè la scossa quanno afferri la cornetta d'un telefono. Ma viè qua, bambolotto mio, fatte abbraccià. Mamma mia, me pari ‘n pulcino appena uscito da ‘na pozza d’acqua. Vatt’à spojà mentre te preparo ‘n bagno bollente.»

    Stetti a mollo per quasi un’ora leggendomi il giornale che avevo comprato alla stazione di La Spezia e che, come al solito, mi ero dimenticato di leggere, perché, dopo averci dato una scorsa, lo piegavo e lo infilavo nel tascone interno del giaccone blu in dotazione nei mesi invernali, e lì rimaneva. Non sarei più uscito dalla vasca se mia madre, preoccupata, non fosse venuta a chiamarmi.

    Seduti in salotto, uno di fronte all’altro, mi prese le mani e, accarezzandole, mi chiese:

    «Che farai adesso, fijo mio? Il bambolotto mio s'è fatto omo.»

    I suoi occhi volevano essere rassicurati.

    «Penso d'imbarcarmi su un mercantile da Terzo o da Secondo ufficiale. In fondo ho studiato per questo, anche se l'esperienza sulle navi militari non è stata esaltante. Dicono che la marina mercantile sia tutt'altra cosa.»

    «Lascia sta' ‹r mare, quanno ce vai diventi ‹no scheletro. L'urtima vorta m'hai spaventato, mo' te trovo mejo. Se vede c'hai navigato poco o gnènte.»

    «Negli ultimi due mesi non ci siamo mai mossi dalla banchina. Comunque godiamoci le feste, poi vedremo il da farsi, adesso me ne vado a letto, sono stanco morto.»

    «Ma come, non ceni?»

    «Non ho fame, ho mangiato dei biscotti e della frutta in treno, ho solo bisogno di dormire.»

    «Vabbè, fijo mio, ce sta tanto tempo pe' parlà» e, baciandomi la fronte, mi augurò la buona notte.

    Il giorno dopo, fresco come una rosa, intorno alle dieci, mi recai in Piazza della Libertà, addobbata con luminarie ad arco e moquette rossa all’ingresso dei negozi e sui marciapiedi circostanti, dove, sotto i portici, stava la barberia frequentata dai miei amici e da me, prima della partenza.

    Il barbiere, un tipo assai originale, mi accolse con una sgrullata di testa, più che di spalle, un sorriso intermittente e un grugnito di assenso.

    Guai ad abbracciarlo o dargli la mano: si straniva di brutto. Per non parlare poi se ti azzardavi a fargli una carezza: rischiavi di prendere un fisso in bocca.

    A modo suo, però, mi fece intendere che si era sentita la mia mancanza, o meglio, erano mancate le mie cazzate provocatorie – come le chiamava lui – che arroventavano l’ambiente, riuscendo a fare imbestialire alcuni e a far godere altri.

    Mi misi seduto su una panca bianca proprio all’ingresso e cominciai a sfogliare il Corriere dello Sport.

    Dopo circa un quarto d’ora, visto che non s’era fatto vivo nessuno degli amici, gli chiesi dove diavolo s’erano cacciati, dato che lì dentro vedevo solo facce nuove.

    Con studiata nonchalance, continuando a sforbiciare la nuca bianca di un signore parecchio avanti con gli anni – sicuramente un pioniere della bonifica, poiché ogni tanto biascicava delle parole in veneto, e lui, di rimando, bofonchiava qualcosa, facendogli dei cenni di consenso col capo – mi rispose: «Stanno ‘n Germania.»

    «In Germania! Come sarebbe a dì?»

    «Sarebbe a dì che stanno tutti ‹n Germania e da quello che so, nun ce pensano proprio a tornà.»

    «Ah, annamo bene! Questa proprio ‹n ce voleva.»

    Lasciai perdere il giornale e cominciai a grattarmi il mento. La notizia mi aveva completamente spiazzato.

    Mi grattavo sempre più forte.

    «Falla finita! Aspettame fori, sulla panchina, tra ‹n par de minuti te raggiungo e s'annamo a pijà ‹n caffè da Silvio.»

    «Va bene, t'aspetto fuori.»

    Seduto sulla panchina del marciapiede della piazza, un paio di metri fuori dal porticato, anche se la mattinata era intiepidita da un pallido sole, dopo pochi minuti mi si ghiacciarono i piedi. Valter – così si chiamava il barbiere: con la V al posto della W, perché durante il ventennio ducesco era proibito mettere nomi stranieri e usare lettere non presenti nel nostro alfabeto – mi raggiunse proprio quando stavo per alzarmi, e insieme ci dirigemmo verso il caffè dell’angolo.

    Silvio, il barista e padrone del bar, burbero e serioso come sempre, ci preparò due espressi ristretti al vetro, e, mentre ce li porgeva, con aria di rimprovero, mi chiese perché non mi ero fatto più vivo. Lo rassicurai dicendogli che era tutta colpa della naia e che mai avrei potuto tradirlo, dato che il suo espresso era imbattibile.

    Appena posai la tazzina vuota sul bancone, a colpi di pacche sulle spalle mi manifestò tutta la sua gioia di vedermi, anche se una cartolina avrei potuto mandargliela.

    Dopo pochi minuti stavo di nuovo seduto in barberia, questa volta, però, su una delle due poltrone girevoli di vil pelle usate dai clienti, e che ricordo avevano un colore assai strano: tra il rosso bordò e il ponsò.

    Valter, camminando avanti e indietro, mi mise al corrente di quanto accaduto durante la mia lunga assenza. Niente di particolare, eccetto il fatto che nel giro di pochi mesi una decina di nostri amici aveva deciso di trasferirsi in Germania e non se ne capiva bene il motivo, dato che erano quasi tutti studenti universitari o ragionieri e geometri che lavoravano in uffici, fabbriche e cantieri: insomma, nessuno di loro aveva bisogno di emigrare.

    Forse la voglia di cambiare, la noia della provincia, la monotonia quotidiana, la sete di conoscenza: no, su quest’ultima non ci giurerei.

    Insomma Valter non si spiegava bene il motivo della grande fuga verso il nord messa in atto dai nostri amici. Io un’idea ce l’avevo, ma non la manifestai. Per me quelli erano andati verso le fredde lande nordiche, a morirsi di freddo, perché assatanati di fica, dato che in città non rimediavano granché, anzi, si abbuffavano di pippe, anche se erano quasi tutti dei bei ragazzi.

    In Germania, dopo la grande mattanza dei maschi nei vari fronti europei e africani, c’era una situazione troppo invitante, estremamente favorevole per il macho latino: la popolazione femminile ‘in amore’ era notevolmente superiore a quella maschile.

    Vi lascio immaginare che pacchia: anche i più gretti, incolti, brutti, grezzi come la carta vetrata, venivano usati sessualmente, in maniera quasi scientifica. I vampiri ti lasciano senza sangue, quelle teutoniche assatanate lasciavano quei poveri cristi semianalfabeti senza midollo.

    Queste storie me le aveva raccontate un Marinaio sardo imbarcato con me sul Filicudi e l’Alicudi: scuro, piccolo e compatto, era dotato di una muscolatura che gli permetteva di scattare e saltare come una molla, e non a caso aveva partecipato ai campionati italiani di ginnastica. Si chiamava Enrico Mattei, ma non aveva niente a che fare col gas e col petrolio: faceva il fornaio.

    «Valli a capì' ‹sti fichetti figli de papà» bofonchiò Valter, seduto sull'altra poltrona girevole accanto alla mia, mentre

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