L'uomo sbagliato
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Corriere della Sera
Le indagini dei fratelli Corsaro
Dall’autore del bestseller Insoliti sospetti
Palermo. Cosimo Pandolfo è in galera da anni, accusato dell’omicidio di Giovanni Cannizzaro per banali questioni di vicinato. Ma l’uomo, seppure violento e dedito all’alcol, si è sempre dichiarato innocente. Solo il figlio Filippo gli crede. E quando una testimone in punto di morte gli racconta una verità rimasta nascosta che potrebbe scagionare il padre, il ragazzo si rivolge ai fratelli Corsaro, noti per la loro abilità nel risolvere i casi più difficili. L’avvocato e il giornalista indagheranno entrambi, seppur seguendo piste diverse, e arriveranno a scoperchiare un calderone di segreti, inganni e brutali violenze, che portano fino all’Iraq, ai contractors e agli orrori della guerra. Roberto e Fabrizio sfideranno un avversario pericoloso e senza scrupoli. Mettendo a rischio la loro stessa vita.
Un autore ai primi posti nelle classifiche
La nuova voce del giallo italiano parla siciliano
Hanno scritto dei suoi libri:
«Una Palermo disincantata ritratta con ironia anche nei suoi lati più sinistri.»
La Lettura
«Toscano coniuga la capacità di delineare i personaggi di quel palcoscenico a cielo aperto che è la vita di paese con un umorismo elegante, capace di comicità anche quando la tragedia incombe.»
Il Foglio
«Un legal thriller ben congegnato nel quale Toscano offre una più che riuscita prova della sua capacità di controllo dei personaggi e della storia.»
la RepubblicaSalvo ToscanoÈ giornalista e autore dei romanzi Ultimo appello, L’enigma Barabba e Sangue del mio sangue. È stato semifinalista al Premio Scerbanenco e finalista al Premio Zocca Giovani. Con la Newton Compton ha pubblicato Insoliti sospetti, Falsa testimonianza e Una famiglia diabolica. È stato tradotto nei Paesi di lingua inglese.
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Anteprima del libro
L'uomo sbagliato - Salvo Toscano
1974
Pubblicato in accordo con Studio Olati
Prima edizione ebook: luglio 2018
© 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-227-2374-1
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Salvo Toscano
L’uomo sbagliato
Le indagini dei fratelli Corsaro
Indice
PARTE PRIMA. I SEMI DEL MALE
Capitolo 1. Racconto di Fabrizio Corsaro
Capitolo 2
Capitolo 3. Racconto di Roberto Corsaro
Capitolo 4. Racconto di Fabrizio Corsaro
Capitolo 5
Capitolo 6. Racconto di Roberto Corsaro
Capitolo 7
Capitolo 8. Racconto di Fabrizio Corsaro
Capitolo 9. Racconto di Roberto Corsaro
Capitolo 10. Racconto di Fabrizio Corsaro
Capitolo 11. Racconto di Roberto Corsaro
PARTE SECONDA. IL SOLDATO E LA PRINCIPESSA
Capitolo 12. Racconto di Fabrizio Corsaro
Capitolo 13
Capitolo 14. Racconto di Roberto Corsaro
Capitolo 15. Racconto di Fabrizio Corsaro
Capitolo 16. Racconto di Roberto Corsaro
Capitolo 17. Racconto di Fabrizio Corsaro
Capitolo 18. Racconto di Roberto Corsaro
PARTE TERZA. I VIVI E I MORTI
Capitolo 19. Racconto di Fabrizio Corsaro
Capitolo 20. Racconto di Roberto Corsaro
Capitolo 21
Capitolo 22. Racconto di Fabrizio Corsaro
Capitolo 23. Racconto di Roberto Corsaro
Capitolo 24. Racconto di Fabrizio Corsaro
Capitolo 25. Racconto di Roberto Corsaro
Capitolo 26
Capitolo 27. Racconto di Fabrizio Corsaro
Capitolo 28. Racconto di Roberto Corsaro
Capitolo 29
Epilogo. Racconto di Fabrizio Corsaro
Nota dell’autore e ringraziamenti
Perché se siamo stati totalmente uniti a lui
in una morte simile alla sua,
lo saremo anche in una risurrezione simile alla sua.
Romani, 6,5
PARTE PRIMA
I semi del male
Man I was mean but I’m changing my scene
and I’m doing the best that I can
Getting Better, The Beatles, 1967
1
Racconto di Fabrizio Corsaro
L’umanità ha debellato il vaiolo. Ma non il matrimonio. E questo è un dato di fatto su cui varrebbe la pena di ragionare. E sì, in questo clima da apocalisse alle porte, in questi tempi di panico e pessimismo cosmico, c’è ancora qualcuno a cui salta in mente l’idea bislacca di spendere non so quanti quattrini per far banchettare parenti e conoscenti che per metà gli stanno sulla punta della minchia, buttare altri quattrini dalla finestra per un ridicolo abito da sposa bianco, simbolo d’una verginità probabilmente conservata nelle trombe d’Eustachio, scialacquare ulteriori quattrini per altri pittoreschi annessi e connessi, retaggio di ere lontane, solo per il gusto di allungare, da lì a poco, gli già sconfinati elenchi di mogli e mariti cornuti.
Per lo meno era così che la vedevo io. E la cosa avrebbe potuto anche lasciarmi indifferente, alla stregua di una finale olimpica di curling o di una tribuna elettorale della Südtiroler Volkspartei in seconda serata su Rai2. Il problema è che questa depravazione del matrimonio si era insinuata nell’animo di una creatura che fino a quel punto avevo ritenuto come me destinata a non essere travolta dal ferale destino dello sposalizio: la figlia zitella del mio padrone di casa.
Era costei una quasi quarantenne dai lineamenti incerti, una specie di Picasso cubista in carne e ossa, con una zazzera crespa e lanosa sul cocuzzolo della testa a pera e un fisico più che asciutto, quasi essiccato, da alice marinata. L’avevo vista crescere in bruttezza nei tredici anni trascorsi nel mio adorato appartamentino con vista sulla Cattedrale. Timida, impacciata, avvolta da una cappa di mestizia congenita, l’avevo sempre immaginata come una creatura asessuata.
E dunque lo stupore prevalse in me quella mattina di quasi estate in cui, interrompendo la lettura d’un gran libro di Joe Lansdale accompagnato dal sottofondo di Pablo Honey, il signor Severino scampanellò a tradimento alla mia porta per annunciarmi l’incredibile notizia.
«Come si sposa
?», commentai restando a bocca spalancata, quasi che l’ometto rotondo coi baffetti ingialliti dalla nicotina e le ascelle aromatizzate allo sfincione mi avesse comunicato l’invasione degli alieni.
«Eh sì, che vuole, i ragazzi oggi sono fatti così, uno e due e già si maritano».
Ragazzi questa gran funcia, pensai tra me e me. Ma dissi altro.
«E chi se la sposa?».
Severino allargò le braccia sconsolato, permettendo alle ascelle di sfiatare.
«E che le devo dire, dottor Corsaro, un bravo cristiano. Anche se un poco smiciciato. È un professore di musica, dice lui». L’attributo dialettale potrebbe tradursi con malmesso
. Ma proprio male.
«Che significa dice lui
?»
«Che gli mancano due soldi per fare una lira, dottore. A me mi pare un morto di fame. Dice che è vedovo, ha un figlio di trent’anni che studia in continente e lo campa lui».
«A trent’anni ancora studia?»
«E si vede che è uno studioso».
«Ma se ha un figlio di trent’anni, questo sposino quanti anni ha?»
«Cinquantotto, dottore. Quasi cinquantanove. Quattro anni più picciotto di me».
«E meno male che erano ragazzi!».
«Dottore, che ci devo dire? L’amore non ha età. Solo che…».
Severino a quel punto si bloccò, come un telefono in galleria.
«Solo che?», provai a spronarlo coprendo la voce di Thom Yorke che ancora cantava senza curarsi delle nostre miserie.
«Solo che praticamente… Cioè, il discorso è che… Il professore vive alla Milicia».
«Ad Altavilla?».
Ridente località a una quindicina di chilometri da Palermo. Tutta vita. Se vi piace andare a letto presto d’inverno.
«Esatto».
«Ah, e quindi sua figlia…», mi sarebbe piaciuto ricordarne il nome in quel momento, ma mi accorsi di non averlo mai saputo.
«Patrizia».
«Patrizia se ne va a stare ad Altavilla. E lei che è un papà tanto affettuoso sentirà la mancanza».
«Ecco, veramente, il discorso è proprio questo… Praticamente i ragazzi…».
Il senso della visita del signor Severino cominciava a svelarsi ai miei occhi. Non lo misi subito a fuoco, avvertii dapprima solo la vaga sensazione di un oggetto non identificato che cercava di farsi largo tra le mie natiche.
«Quali ragazzi?», domandai cambiando tono.
«Gli sposini… Mia figlia lavora con me, abbiamo l’altro panificio e… Insomma, ogni giorno avanti e indietro dalla Milicia…».
«E quindi?».
Severino prese fiato come la buonanima di Enzo Maiorca prima di tuffarsi. Con l’aria inspirò tutto il coraggio di cui era capace. Poi, senza nemmeno guardarmi negli occhi, rivolgendosi accorato a una poltrona che mi aveva regalato mia madre per i quarant’anni, lo disse.
«Vuole venire a stare qua. Mi serve la casa. Mi dispiace».
«Come qua? Ma qua ci sto io!», risposi con la padronanza della situazione che avrebbe dimostrato mio nipote di quattro anni e mezzo.
Severino allargò di nuovo le braccia. Una zaffata d’afrore finì di frastornarmi.
«I figli sono figli, dottor Corsaro».
«Ma quando si sposa Concetta?»
«Patrizia», mi corresse lui zelante.
«Patrizia, Concetta, non ha importanza! Quando si sposa?»
«Il 7 di dicembre».
Avrei mangiato il panettone altrove. Come uno sfigato di allenatore del Palermo esonerato da quel presidente impaziente. In un’altra stagione della mia vita avrei detto qualcosa di sgradevole a quell’assurdo individuo baffuto, probabilmente colpendolo sull’aspetto surrealista della rampolla. Ma la depressione, da cui ero uscito con fatica, mi aveva lasciato in eredità una flemma tutta nuova. E praticamente rimasi in silenzio fin quando il signor Severino non ebbe portato i suoi baffi giallastri e le sue ascelle impaludate fuori dai coglioni.
Una volta, parlando con la mia psicologa, l’imperturbabile dottoressa Minardo, finimmo non so come a parlare di casa mia. E quando le dissi che stavo in affitto, lei mi domandò come mai non avessi mai pensato, visto che lavoravo e guadagnavo da tanto tempo, a comprarmi una casa di proprietà. Ricordo che a quel punto esitai per un attimo, fissando inebetito una foto incorniciata di un campo di tulipani, appesa al muro giusto di fronte ai miei occhi. La psicologa pazientava silente, in attesa della mia risposta, squadrandomi da dietro gli occhiali con i suoi begli occhi vivaci. Dopo forse un minuto buono di silenzio, un’eternità nelle nostre sedute, avevo risposto nel modo più sincero possibile.
«Perché ho qualche problema a pensare al futuro».
La dottoressa Minardo annuì come un presentatore di telequiz a cui hai dato la risposta esatta.
«Perché?»
«Perché da bambino ho visto morire mio padre a quarantacinque anni, immagino. E perché sono un mezzo cazzone, se mi permette il termine».
«E per questo non ha mai pensato di comprare casa?», ribadì lei a quel punto.
«Sì, non ho mai fatto debiti nella mia vita. E non ho mai programmato nulla che si spingesse oltre i sei mesi. Figuriamoci un mutuo di vent’anni per comprare un appartamento».
Ecco, ripensavo a quella conversazione dopo l’uscita di scena di Severino. E mi dicevo che forse era davvero arrivato il momento di affrontare questo mio punto debole. E la cosa mi rompeva enormemente l’apparato, perché io adoravo il mio appartamento da single con vista sulla cupola verde della Cattedrale. Eppure a quel punto solo due strade mi restavano: trombarmi la figlia del padrone di casa sperando di instillare in lei una crisi interiore che la portasse ad annullare le nozze o traslocare e cercarmi un altro posto dove vivere.
Ci riflettei per una notte intera.
L’indomani cominciai per la prima volta nella mia vita a spulciarmi i vendesi
.
2
E fu così che trascorsi l’estate a cercare casa.
Trovare un appartamento è un mestiere. E io un mestiere ce l’avevo. E poiché facevo già malvolentieri quello, figuriamoci il secondo lavoro.
Un paio di mie colleghe del giornale provarono impietosite a darmi una mano. Giulia Accardo, che era stata un amore proibito attorno ai miei trenta, ma anche Valentina Vullo, mia sporadica, in tempi ormai lontani, compagna di letto.
I prezzi erano buoni, c’era stata la crisi e quello era, mi spiegavano tutti, il momento migliore per fare un affare. Ma a me di fare un affare non fregava nulla. Io volevo la mia casa, dove avevo scritto la mia storia, la mia vita. E quindi finivo sempre per fare paragoni e non mi accontentavo mai. Insomma, alla fine dell’estate non avevo trovato nulla che mi convincesse.
Mi ero impegnato con Severino a lasciare l’appartamento entro la fine dell’anno. Gli sposini sarebbero andati in luna di miele per due settimane non so in quale isola lontana, poi si sarebbero accomodati per un breve periodo ad Altavilla prima di prendersi la mia casa, i miei ricordi, la mia vita e, gli auguravo io, almeno la sifilide.
Arrivò ottobre, finì l’ora legale, la luce cambiò e la mia depressione tornò a bussare puttana alla porta. Gliela richiusi in faccia prontamente con l’aiuto delle solite pasticche. Ma ammisi a me stesso che non stavo abbastanza bene per prendere una decisione così importante.
E fu così che una sera, addentando un panino con la frittola in una bettola di quart’ordine che stava molto cara a Pippo Nocera, il mio grande amico e collega della cronaca, lui quasi strozzandosi mi illustrò la via.
«Affitta un’altra casa. Per comprare c’è sempre tempo».
«Tu dici, Superpippo?».
Nocera mandò giù un altro morso della sua pietanza palermitana preferita, un insieme di frattaglie di vitello, grassi e cartilagini per lo più, prima bollite e poi rosolate con lo strutto, prima di finire nel paniere di vimini coperto da uno straccio dal frittolaro. Ci scolò su mezza birra e soffocando un rutto mi diede una delle sue dritte.
«Dove sto io ne affittano di appartamenti. E c’è uno sticchio la sera che è una bellezza, Corsaro. Ragazzine con la birretta facile ma anche sofisticate signore in cerca del brivido serale. E turiste a strafottere».
Pippo era separato ormai da una decina d’anni. Era riuscito a non ricadere in fallo e da allora il suo ménage più duraturo non aveva superato il trimestre, a quanto mi risultava.
«Dici da te ai Chiavettieri?»
«E certo», rispose lui spingendosi in gola l’ultimo, corposo, pezzo di panino.
Era una strada del centro storico densa di locali, vicina al mare del Foro Italico e alla Cala, altro crocevia di vita notturna, e dirimpetto a piazza Marina. Un vero bordello.
«E va bene, Pippo, da domani cerchiamo», mi arresi subito.
Lui soddisfatto volle celebrare ordinando altre due birre al frittolaro, un omone irsuto con i denti storti e le mani lerce, che puntualmente lasciava nel panino, quando con le unghie scavava via la mollica, un suo personale rimasuglio che doveva esserne l’ingrediente segreto, come in quel vecchio film di Celentano. Approfittai della distrazione di entrambi per far scivolare il mio panino quasi intatto nella spazzatura.
E arrivarono i primi di novembre, giorni di caldo e sole, la solita estate di San Martino. Era un venerdì pomeriggio, era il mio giorno libero dal giornale, dalle finestre filtrava la luce migliore di Palermo e giù sul Cassaro turisti entusiasti scattavano fotografie alla Cattedrale.
Stavo infilando un po’ della mia roba negli scatoloni, in vista del trasloco. E poche volte mi ero sentito tanto solo e triste. Per di più, la stanza era riempita dalla voce sublime del giovane mister Buckley. Il suo Grace non è un disco, è una chiesa, una moschea, una pagoda in cui entrare scalzo, silente e a capo chino. L’anima di Jeff gocciola dalla sua voce angelica e quando arriva Hallelujah, ti convince che davvero è possibile che ci sia qualcosa d’eterno in noi esseri umani.
Proprio sulla fine del capolavoro di Cohen, spostando dei libri da una mensola, scovai il biglietto.
Stava lì, impolverato, nascosto da Furore di John Steinbeck.
Lo presi in mano, contemplandolo come un cimelio.
Londra, la Royal Albert Hall, i Coldplay. Il compleanno di Maria, era stato il mio regalo per lei, una sorpresa. La mia Maria. L’unica.
Il biglietto in mano, la mente persa nel ricordo, quasi mi pareva di sentire il profumo di lei.
E fu allora che Jeff attaccò con Lover, You Should’ve Come Over. E immobile al centro del mio soggiorno ascoltai le sue parole attraversato da un brivido che non finiva mai.
Quando il mio cellulare prese a squillare, avevo gli occhi bagnati e la buonanima aveva già cantato i miei versi preferiti, quando dice che non è mai finita. Parlava di me.
Deglutii, sbirciai il numero, che non mi disse nulla, e risposi per aggrapparmi a qualcosa in mezzo a tanta tristezza.
«Dottor Corsaro?», domandò la giovane voce di uomo che mi rispose.
Con un altro umore gli avrei risposto, come facevo ogni tanto, «il dottore è in astanteria».
«Sì. Chi è?»
«Mi chiamo Filippo Pandolfo, ho avuto il suo numero da Martina Piovana».
Ah, però, chissà che fine aveva fatto Martina. Dolcissima ma anche molto disinvolta sotto le lenzuola, eravamo stati insieme una decina d’anni addietro per qualche mese assai piacevole, prima che lei ne avesse abbastanza della mia infantile e censurabile propensione alla raccolta della patata altrui. Eravamo rimasti amici per un pezzo, ma da tre o quattro anni ne avevo perso le tracce.
«Ah, come sta Martina?»
«Benissimo, siamo vicini di casa. Dottore, mi perdoni per il disturbo, io dovrei parlarle di una cosa molto delicata e importante».
Avevo detto giovane, ma a sentirlo bene giovanissimo doveva essere. Eppure, molto sicuro di sé ma anche garbato.
Una cosa molto importante, aveva detto. Per loro sono tutte cose importanti. Loro sono quelli che ti scassano le palle perché sei giornalista e a un giornalista ti senti legittimato a sciorinare l’elenco di tutte le doglianze del mondo, dall’ufficio con una fila troppo lunga al marciapiede cacato dal cane.
«Vuole dirmi adesso? Oggi non sono al giornale».
«Vorrei parlarle di persona. Si tratta di un omicidio, capirà».
Be’, non era proprio una cacata di cane.
«Capisco».
«Lei domani lavora?»
«Sì, di pomeriggio».
«Posso venirla a trovare?»
«Va bene. Ci vediamo al giornale alle tre».
E fu così che questa storia incominciò.
3
Racconto di Roberto Corsaro
«Stasera voglio inventare un nuovo cocktail», disse Monica con un guizzo d’allegria nei suoi begli occhi scuri.
Ogni tanto le prendevano questi propositi creativi, che quasi mai metteva in atto, ma mi divertiva tanto ascoltare i suoi proclami sconclusionati. Una delle cose che un’era addietro mi avevano fatto innamorare di lei.
Le concessi un sorriso, ma lei non lo notò, stava guidando. Eravamo vicini al tribunale. Spesso la mattina mi dava un passaggio, era uno dei rari momenti in cui potevamo stare un po’ da soli e scambiare quattro parole senza essere sopraffatti dalla prole.
Si prendeva cura di me, nei limiti del possibile, la mia Monica. Il colpo era stato duro, mia moglie mi aveva visto reggere finché c’ero riuscito, poi aveva